Paolo Colagrande e la vita in dispari

Luigi Oliveto

24/04/2019

Non so se per l’ultimo romanzo di Paolo Colagrande, “La vita dispari”, debba parlarsi di humor nero, ma – come già avverte la quarta di copertina – c’è ben da ridere, grazie a uno sguardo sulle cose completamente stralunato che ha la stessa forza comica, la fulmineità di scrittura di un Gianni Celati o di un Woody Allen. In tal caso Colagrande invita a ridere soprattutto di ciò che manca ai nostri occhi posati sulla realtà, cioè della parte “pari”.  Protagonista della storia è tale Buttarelli, il quale dal suo angusto spazio esistenziale (poco più di una stanza e di una strada) aveva vissuto giustappunto una vita priva di ‘pagine pari’, fenomeno che per la prima volta gli si manifestò alla scuola elementare, quando apparve chiaro che non riusciva a leggere le pagine del libro poste a sinistra. Un trauma cui ne seguiranno altri, come quello provocato dalla scoperta sull’atlante di storia naturale che il cefalopode Argonauta Argo maschio è lungo dieci millimetri, mentre la femmina misura venti centimetri. E ad aiutarlo non fu certo Maribèl, la direttrice della scuola, donna sovrappeso e perfida, che quotidianamente chiamava gli alunni nella sua stanza esercitando su di loro vere e proprie torture psicologiche. Buttarelli, dunque, fu per sempre segnato da un’esistenza in cui le pagine pari restarono per lui indecifrabili: “Buttarelli provava a fare quello che vedeva fare agli altri, con enorme fatica. A volte riusciva a reggere la parte per un tratto breve, ma era come se a un certo punto si ritrovasse nel fitto di un bosco senza più il sentiero tracciato, e allora era più prudente tornare indietro”. Testimone attendibile (attendibile?) di questa vita tutta ‘in dispari’ era stato l’amico Gualtieri. E sarà lui, allorché Buttarelli scomparve, a spiegare (in verità a confondere ulteriormente) il mistero- Buttarelli. Uno strampalato ed esilarante racconto attraverso cui Paolo Colagrande invita a ridere di noi stessi, dell’umanità intera, che le pagine pari le vede benissimo, ma non capisce un tubo di cosa ci sia scritto.
 
***
 
Partirei da un momento preciso, come fosse uno sparo, o una crepa che si apre pornograficamente sul soffitto dove puoi sbirciare le stelle del caos: quel giovedì pomeriggio, giorno di chiusura della privativa Landemberger, quando Isaia detto Fosforo, bevuto l’Angers e lasciato Gualtieri in strada a fumare le Regal Macedonian, sale sul dodici alla fermata Furio Muratori con l’idea di andare in centro città per disbrighi.
E per mettere meglio a fuoco dobbiamo provare a immaginare Isaia Landemberger già seduto comodo sul bus con il cappello in testa e lo sguardo spento nel vetro del finestrino, che all’improvviso sente una voce familiare salire da un brusio di conversazione, e prima ancora di mettere le cose in sequenza vede riflessa di traverso nel vetro la figura di Buttarelli. Ma non gli arriva come una visione esplicita, come si potrebbe pensare se si considera il contesto scenografico interno-giorno del dodici in marcia verso il centro città: gli arriva, diceva Fosforo, soffocata nel buio della catastrofe.
Raccontava Fosforo che, seduto dottrinale su un sedile di coda, Buttarelli tirava fuori con premura da una tasca un quaderno dove scriveva qualcosa, poi lo rimetteva in tasca e con la stessa premura ne tirava fuori un secondo dall’altra tasca e ricominciava a scrivere per rimetterlo in tasca e ritirare fuori il primo e via discorrendo, e tutto questo mentre diceva ad alta voce cose che avevano solo la posa di parole ma che tutte insieme non formavano un discorso. In certi momenti sembravano parole dette alla rovescia, o in una lingua straniera dove a volte ti sembra di sentire dei suoni conosciuti, e il tono di voce era quello della risposta, come se qualcuno gli facesse in segreto delle domande.
Nello smarrimento di questa visione, accentuato dagli alti e bassi della cantilena a loro volta accentuati dalle scosse di marcia e frenata del dodici, Fosforo si era alzato, aveva chiesto permesso e gli era andato vicino: l’aveva guardato meglio in faccia per sicurezza, l’aveva salutato per nome, cioè per cognome, cercando la maniera più naturale con cui si salutano di solito gli uomini fra di loro, complici e scanzonati. Ma Buttarelli non aveva risposto, aveva solo alzato la testa, accelerando lo sproloquio a una velocità che se invece di uno sproloquio fosse stato un discorso coerente neanche una persona di pronto intuito sarebbe riuscita a seguirlo, e non si può dire che Fosforo fosse una persona di pronto intuito.
Buttarelli, raccontava Fosforo, aveva la faccia impregnata di fatalità, chissà cosa vuol dire. Avrebbe potuto dire che aveva una faccia segnata dal tempo o dalla vecchiaia, ma Buttarelli non era vecchio almeno nel senso dell’età convenzionale; insomma Fosforo voleva spiegare qualcosa ma non sapeva bene come e da dove partire, perché era difficile cogliere i particolari dell’insieme: c’era solo l’insieme, come impasto di suoni e cellule in movimento, da cui però si staccava ogni tanto una frase, che invece si capiva, sempre la stessa:
 
COLPIAMO LA PRIMA E BEN PRESTO CADRÀ ANCHE L’ULTIMA.
 
Cosa volesse dire non si sa, ammesso che volesse dir qualcosa o non fosse uno scarto di frase incollata sul vaniloquio. La prima impressione che ne aveva tratta Fosforo, in mezzo all’imbarazzo dei passeggeri del dodici, era di aver davanti una persona disturbata, e fin qui sai che bella scoperta. La seconda impressione era più profetica-escatologica: il sentore acido di una disgrazia che stava per consumarsi vicino a Buttarelli e che magari si era già consumata. Appunto quel buio di catastrofe dove la voce si spegneva su una faccia impregnata di fatalità.
E meglio di così non saprei come dirlo.
La frase però, rivista poi con calma e tutta intera, non era farina del sacco di Buttarelli: era stata pronunciata da Dwight David Eisenhower alla vigilia della drammatica capitolazione delle truppe francesi nella guerra di Indocina:
 
COLPIAMO LA PRIMA E BEN PRESTO CADRÀ ANCHE L’ULTIMA, SIAMO ALL’INIZIO DI UNA DISINTEGRAZIONE CON EFFETTI RADICALI.
 
Così avrebbe detto profeticamente il presidente degli Stati Uniti nel 1954 e così – nel racconto di Fosforo a Gualtieri e di Gualtieri a me – intercalava Buttarelli sul bus numero dodici, saltando la seconda parte, quella della disintegrazione con effetti radicali, che forse non gli interessava o considerava pleonastica o poco pertinente. E pur assecondando l’idea che la frase fosse solo una fila di parole con casuale incastro sintattico all’interno del vaneggiare, Gualtieri sosteneva che c’è un momento della vita di ognuno in cui scattano reazioni meccaniche indirizzate rapidamente alla fine, come dire alla morte, che è poi il nostro esito naturale o forse il nostro scopo involontario. Un messaggio estremo che nessuno, almeno tra l’utenza del dodici, aveva capito: perché è un mondo egoista, diceva Gualtieri, o quando va bene è pauroso e distratto.
A ogni modo, mettendo da parte Eisenhower e le ipotesi di mio zio, possiam dire che quel giovedì pomeriggio, nel breve tragitto del dodici fra strada Furio Muratori e centro mediopoli, Fosforo era stato spettatore inconsapevole di quello che, con le ragioni del poi, possiamo intitolare l’ultimo capitolo di Buttarelli, con l’impronta della tragedia già fissata sullo sfondo in una specie di inversione del tempo che come dicono i filosofi è solo l’immagine mobile dell’eternità. E se il tempo scorre dal passato verso il futuro, come si pensa convenzionalmente, in quel momento preciso il futuro aveva mandato indietro una specie di avviso che Fosforo, anche se era un po’ stupido, aveva capito.
Diceva Gualtieri che forse quell’ultimo capitolo non c’è neanche stato, non per dire che Fosforo non raccontava la verità, del resto Buttarelli l’han visto tutti, sul bus numero dodici: Gualtieri non metteva in dubbio il fatto in sé, ma la sua fenomenologia, perché in base ai suoi calcoli, rapportando il tempo individuale di Buttarelli e di Fosforo col tempo generale delle matematiche, in quel momento Buttarelli non poteva essere lì e doveva esser già morto da circa quarantacinque minuti. Per dimostrarlo Gualtieri prendeva un foglio, anzi se lo faceva portare dalla zia Solimana, dove riscriveva il calcolo dal vivo con l’aiuto anche di diagrammi e planimetrie.
Quindi possiamo dire che quello che aveva visto Fosforo doveva essere una specie di puntata postuma, un concentrato denso di una vita già spesa, la vita di Buttarelli, che secondo Gualtieri era ritornata per un istante, sul bus numero dodici, come per salutare. E Gualtieri parla a ragion veduta perché lo conosceva fin da piccolo.
 
[da La vita dispari di Paolo Colagrande, Einaudi, 2019]

 
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Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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