Per essere felici va innanzitutto immaginato di esserlo

Luigi Oliveto

27/10/2022

Laura Imai Messina – scrittrice romana che da anni vive in Giappone – ci ha abituato a storie di sorprendente e rarefatta poesia. È ancora vivo il successo di “Quel che affidiamo al vento” (Piemme, 2020) dove è raccontato della cabina telefonica installata sul fianco verdeggiante di Kujira-yama, la Montagna della Balena. Un telefono da cui si chiama, ma dal quale nessuno risponderà mai. È a disposizione dei vivi per parlare agli assenti. Adesso Laura Imai Messina, con il suo nuovo libro “L’isola dei battiti del cuore” (edito ancora da Piemme) ci conduce in un altro angolo dell’incredibile Giappone (incredibile per come le anse di uno spirito millenario acquietino, talvolta, il flusso esagitato del progresso). In tal caso siamo a Teshima, remota isoletta nel sud-ovest del Giappone. Vi si trovano gli Archivi del Cuore creati dall’artista Christian Boltanski, il quale ha registrato e catalogato per anni il battito cardiaco delle persone nei posti più diversi del mondo. Lì è possibile ascoltarli e registrare anche il proprio battito per depositarlo in quell’archivio che pulsa di vita e della sua memoria. L’isola stessa – leggiamo nel romanzo – è diventata un cuore: “Si contrae al battito irregolare delle onde. Le maree allungano la pulsazione, talvolta ne perdono una o due. Ma poi riprendono sempre”. È su questa piccola isola che si incontrano Shüichi, quarant’anni, noto illustratore di libri e surfista, e Kenta, un pesce-bambino di otto anni. Per Shüichi è un ritorno. Qui ha trascorso la sua infanzia, cresciuto da una madre che per un distorto senso di protezione, anche dinanzi ai piccoli drammi che può vivere un bambino, gli ha sempre falsificato la realtà, impedendogli così le necessarie cicatrici che forniscono una memoria del dolore utile ad affrontare l’esistenza. Shüichi ha dunque ricordi vaghi e ingannevoli. Ha un cuore senza ferite, ma una ferita sul petto: è ossessionato dalla auscultazione del proprio battito cardiaco, perché da piccolo gli era stata diagnosticata una lieve aritmia. Attorno alla casa della sua infanzia vede aggirarsi il misterioso bambino Kenta, capace, in assoluta solitudine, di vivere prodigiose avventure. Tra loro nasce un’amicizia, una reciproca sollecitudine che, al di là della differenza d’età e d’esperienze, ha a che fare con qualcosa di primario: la felicità. Questa loro amicizia li porterà fino alla casa che conserva i battiti del cuore e dove quei battiti sono pronunciati in tutte le lingue del mondo: “Pam-pambam-bam, doki doki, thump thump. La collina pare vibrarne completamente. Il bambino poggia il palmo sul proprio petto, chiude gli occhi. Doef doefboum boumtu tump”. È il luogo giusto per ritrovarsi in sintonia con la vita e capire che “per essere felici serve innanzitutto immaginare di essere felici”.
 
***
 
«Lo senti?» chiede il bambino voltandosi verso l’adulto.
Nel preciso momento della domanda, l’uomo ha quarant’anni e le valvole del suo cuore si sono aperte e chiuse circa un miliardo e quattrocentosettanta milioni di volte. Da trecentotrentatré giorni ha ricominciato a chiamare le cose con il loro nome, di nuovo gli importa il mondo dove andrà a finire, chi vincerà le elezioni in Giappone, quanto impiegheranno gli uomini a riempire di plastica il mare. Di nuovo ha paura di morire.
«Lo senti?» ripete il bambino. Ed è come una preghiera perché, se lo sente anche un adulto, significa che è reale.
«Non ancora.»
È dopo essere usciti dal sentiero che sguscia tra piccole case fatte di legno e lamiere, quando il paesaggio di Teshima si spacca in due, e a destra e sinistra si aprono verdi risaie, è lì che l’aria prende a vibrare più forte.
Il bambino non ripete la domanda ma osserva l’adulto intensamente.
L’uomo questa volta annuisce. Ora lo sente.
Per contenere la propria emozione si piega sulle ginocchia, raggiunge l’altezza del minuscolo uomo che ha di fronte, fermo come un Mosè nell’atto di aprire le onde.
Se prima non sentivano nulla, ora non c’è che quel rumore. Pam-pambam-bam, doki doki, thump thump. La collina pare vibrarne completamente.
Il bambino poggia il palmo sul proprio petto, chiude gli occhi.
Doef doefboum boumtu tump.
«Siamo vicini.»
Quest’isola è un cuore. Si contrae al battito irregolare delle onde. Le maree allungano la pulsazione, talvolta ne perdono una o due. Ma poi riprendono sempre.
Nei mesi che precedono questo giorno, l’adulto e il bambino hanno imparato che le cose che agli esseri umani sono più care, una certa musica, il montaggio di un film, un determinato rumore, risuonano del ritmo interno alla loro mente. La chiamano fluttuazione 1/f ed è la stessa che regola il battito del cuore delle persone. Qualcosa che pare continua, ma in realtà è lievemente incostante.
Il bambino si piega a terra, preme l’orecchio sul sentiero tra le risaie.
L’uomo lo lascia fare: d’un tratto ricorda quando a sei anni si era sdraiato per strada per capire il punto di vista delle formiche. La sensazione apparente di non lasciare tracce. Tutto doveva partire – pensava – da quel guardare le cose dal basso. Anche sua madre, accanto, lo aveva lasciato fare. «Serve capire quante più creature per capire se stessi, persino le più diverse» diceva sempre e lui, per sfidare la verità di quell’affermazione, giustificava ogni azione bizzarra affermando che voleva capire. L’adulto ora ricorda come lì, nel bel mezzo della città, avesse sentito per la prima volta una vertigine forte, quasi una conferma dell’incessante ruotare del pianeta che di solito gli pareva immobile.
È la stessa sensazione che ora prova il bambino, solo che lui sente l’aria pulsare.
Il piccolo si rialza in piedi: «Ho fame. Posso mangiare?».
«Sì, certo.» L’adulto tira fuori dallo zaino due onigiri. Si siedono sul bordo delle risaie.
Dopo un numero imprecisato di colpi nell’aria, il ritmo si interrompe. Segue un lungo momento di silenzio, e poco dopo riparte.
È una staffetta: un cuore che cede la parola a un altro.
È ottobre. I campi friniscono di tutta l’estate che, in due giorni di inatteso caldo autunnale, pare tornata a trovare il sud-ovest del Giappone. Ha illuso le libellule che hanno ripreso a volare; a Teshima alcune cicale, anch’esse imbrogliate dalle temperature, hanno bucato la terra, sono spuntate.
Qui e là il bambino si inginocchia e infila i polpastrelli nei fori.
«Manca pochissimo. La cartina parla di poche centinaia di metri in linea d’aria.»
«È lì?» il bambino punta l’indice.
«Sì, andiamo.»
L’adulto non sa ancora cosa troverà davvero oltre la collina. Sospetta qualcosa, ma in realtà non sa niente. Come non si sa niente del tempo mentre lo si vive. Anche il bambino non sa niente ma è abituato a non capire. In compenso si innamora più facilmente – di quel viaggio improvviso, dell’affetto dell’adulto, dell’idea che il rumore del cuore delle persone abbia un posto nel mondo – e questo soltanto lo rende felice.
Si arrampicano lungo la salita che porta al santuario Karato Hachiman, poi virano a destra come indica la mappa; scostano con le braccia le fronde. Il mare è a sinistra.
A mano a mano che si avvicinano all’Archivio, il suono dei battiti si fa più forte.
L’adulto e il bambino poggiano i passi con la cautela di chi sa che sotto di sé c’è una terra stracolma di mine: pare a entrambi di camminare sull’orlo di un ordigno pronto a scoppiare.
«Eccolo» esclama l’adulto non appena tra l’azzurro turchino del cielo e il bianco grezzo della sabbia scorge un edificio basso e squadrato di cedro nero. Sembra un pezzetto di Lego dimenticato in spiaggia.
È allora che il ritmo nell’aria cambia di nuovo, inizia a vibrare di un battito che l’uomo non riconosce.
Mentre spingono la porta dell’Archivio, l’adulto avverte forte la sensazione che tutta la strada, tutto il tempo impiegati per affrontarsi in questi trecentotrentatré giorni, e tutti gli anni subito precedenti usati per evitarsi, lo abbiano condotto fin qui.
Non lo saprà mai ma, nel preciso momento in cui fa un piccolo inchino al ragazzo in camice bianco che li accoglie all’ingresso, si espande nell’aria il ritmo di un cuore che un tempo conosceva alla perfezione.
 
[da L’isola dei battiti del cuore di Laura Imai Messina, Piemme, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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