Se nell’isola dove nulla accade sbarcano i barbari

Luigi Oliveto

07/12/2022

Solo 90 pagine, ma ha il respiro del grande romanzo. Questo è “Paura dei barbari” del macedone Petar Andonovski, pubblicato da Crocetti Editore con la pregevole traduzione di Milena Trajkovska. Siamo in un’isola a sud di Creta, al punto estremo dell’Europa, un luogo remoto fuori dal tempo e dalla storia («Qui le persone vivono dimenticate per anni, la storia le aggira ripetutamente, persino la lebbra e la fame sono passate oltre…»). C’è così tanto mare attorno che le vicende del mondo si risparmiano la fatica dell’attracco. E qui, con provenienze e vicende diverse, sono giunte due donne: Oksana, ucraina sopravvissuta al disastro di Chernobyl; Penelope, greca, cresciuta in un convento di suore, costretta a un matrimonio senza amore. Per Oksana l’isola (i suoi colori, le case, gli alberi, il mare che si vede in fondo a ogni vicolo) è realtà che trasfigura in sogno. Per Penelope ha il cielo basso, l’aria opprimente di una prigione. In entrambe è presente un sentimento riconducibile a quella ‘isolitudine’ coniata da Gesualdo Bufalino per dire come un’isola protegga, rassicuri, ma al tempo stesso segreghi, renda mutili. Ecco allora – diceva lo scrittore siciliano – come si venga presi, insieme, da claustrofilia e claustrofobia. Andonovski dà voce alle due donne componendo con sapiente drammaturgia i loro monologhi che, pronunciati su quella scena intrisa di una malinconia arcaica, toccano ancora di più le corde del rimpianto e della nostalgia. Oltre a Oksana, i barbari cui allude il titolo sono due uomini, Igor e Evgenij, anch’essi sopravvissuti all’esplosione della centrale di Chernobyl. Il loro arrivo sull’isola era stato un avvenimento non privo di inquietudine: «Spiros è entrato nella taverna e ha urlato a squarciagola: “Sono arrivati! Eccoli, si stanno avvicinando al porto!” E senza chiedere chi fossero, tutti si sono diretti verso il porto di Karave. È allora che, sotto forma di barca sul mare calmo, la paura ha cominciato ad avvicinarsi a loro. […] Il pescatore che li aveva portati ha detto che erano venuti sull’isola per guarire. Ha anche detto che erano russi.» Erano, appunto, arrivati i barbari, i diversi, gli stranieri; peraltro contaminati, e chissà se non pure essi contaminanti. L’autore introduce così il tema dell’extraneus, dell’essere umano che è sempre e comunque straniero a qualcun altro, talvolta anche a sé stesso. Del resto, bene diceva Arthur Rimbaud: “Io è un altro”.
 
***
 
Ho sognato che cercavo un ufficio postale per inviare una cartolina. Prendevo un vicolo, poi un altro, sai, di quei vicoli che si trovano solo intorno al Mediterraneo, stretti, con le case di pietra e, ogni volta che arrivavo in fondo, il mare mi appariva davanti, grande, così grande che non si sa dove finisce e dove inizia il cielo. A un certo punto, capisco che non sono a Gavdos, che questa è un’altra isola. Provo a ricordare come sono arrivata qui, provo a ricordare almeno un dettaglio che mi porti al punto di partenza, mi ricordo la cartolina, forse c’è il mio indirizzo sopra, ma non solo non c’è nulla, è una vecchia cartolina scolorita in cui l’immagine si distingue a malapena, una vecchia casa di sassi, ma non si riconosce né il bianco delle pareti né il blu delle cornici e delle gelosie, così invisibile che sembra quasi che non ci siano finestre. L’albero di limone è vecchio e asciutto, con un solo limone giallo appeso, a ricordare che questo albero una volta era carico di frutta, tanta frutta.   
Sono stata svegliata dalla forte tosse di Evgenij. In mano teneva un fazzoletto insanguinato. Terrorizzata dal sogno e dalla tosse di Evgenij, sono andata a cercare Igor, ma non era in casa. Evgenij mi ha chiesto di portargli un bicchiere d’acqua. La caraffa in cucina era vuota e dovevo prendere l’acqua dal pozzo. Era la mia prima uscita da tre giorni. Dopo il nostro arrivo, Igor mi aveva detto che era meglio non uscire per un po’, finché gli abitanti dell’isola non si fossero abituati a noi. Lui e Evgenij uscivano ogni mattina all’alba, camminavano in riva al mare, pescavano il pesce che poi mi portavano perché preparassi il pasto. Era la prima mattina che Evgenij non usciva con lui.
Fuori soffiava un vento caldo. L’odore del sale mi ha solleticato le narici, se almeno fossi potuta scendere a riva per sedermi su una roccia e guardare l’infinito del mare! Quando siamo arrivati a Creta, Igor ci aveva portati ad Aghìa Rumeli dicendo che avremmo trovato un pescatore che ci avrebbe portati a Gavdos. Le barche vengono raramente qui. Siamo rimasti ad Aghìa Rumeli quasi un mese, neanche un pescatore voleva portarci a Gavdos, bisognava aspettare la primavera, ma Igor aveva offerto più denaro a uno di loro e alla fine si sono messi d’accordo.
Non sapevo esattamente dove fosse il pozzo, ho fatto diversi giri intorno alla casa senza trovare niente. A circa un centinaio di metri c’era un’altra casa, è un piccolo villaggio con solo tre case. Igor mi ha detto che ce n’è un’altra fuori dal villaggio, questa zona la chiamano il villaggio delle donne perché ci vivono due donne anziane. Una volta raggiunta l’altra casa, ho visto una donna che attingeva l’acqua dal pozzo. Quando mi ha visto, il secchio le è caduto dalle mani. L’acqua le è colata sui piedi. È rimasta ferma dov’era a guardarmi, aveva gli occhi azzurri – come il mare, non c’era paura nel suo sguardo, piuttosto sorpresa, volevo dirle qualcosa, ma non riuscivo, la mia voce era improvvisamente svanita, ho aperto le labbra, invano, non ne usciva nulla. Non so per quanto tempo siamo rimaste così, lei con lo sguardo fisso, io con la bocca aperta da cui non usciva nulla. Una bambina è uscita dalla casa. Ci ha guardate con curiosità, poi si è avvicinata alla donna, l’ha presa per mano e sono rientrate in casa. Io sono rimasta lì, con la bocca ancora aperta, fissando la porta attraverso la quale erano scomparse, la donna ha guardato dalla finestra e quando ha visto che non mi muovevo, si è ritirata. Non so per quanto tempo sono rimasta così. Quando mi sono girata verso casa nostra, ho visto Igor che mi fissava, con uno sguardo carico di rimprovero.
 
[da Paura dei barbari di Petar Andonovski, trad. di Milena Trajkovska, Crocetti Editore, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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