"Operai e periferie, così racconto una classe sociale dimenticata". Intervista a Silvia Avallone, autrice di "Acciaio"

il 02/08/2010 - Redazione

E’ al suo romanzo d’esordio ma ha già vinto il Premio Campiello Opera Prima 2010. Silvia Avallone, autrice di Acciaio (Rizzoli), ha scelto di raccontare la provincia e la vita dimenticata delle periferie operaie.

Su "Acciaio" sono state sono state dette e scritte molte cose. Qualcuno lo ha definito un romanzo di formazione permeato di pessimismo cosmico. E’ d’accordo con questa definizione?
“Assolutamente no. Il mio romanzo si limita semplicemente a raccontare la vita dei giovani operai in una cittadina di provincia. Ho parlato di Piombino, ma avrei potuto sceglierne un’altra tra le tante che ci sono in Italia. Sicuramente chi vive in queste realtà deve scontrarsi con molti problemi, di cui bisogna parlare. Secondo me, se si parla solo di veline si va poco lontano. Denunciare le difficoltà non vuol dire arrendersi, semmai è un modo per cercare di risolvere le cose”.
Esistono ancora grigie realtà di periferia come quella descritta nel suo libro?
“La sfida che mi sono posta era proprio quella di parlare di un soggetto del lavoro dimenticato a torto. Gli operai esistono ancora, anche se le fabbriche sono in crisi. Il giovane operaio di oggi però non è più quello di una volta. C’è stato un mutamento, che però non si vuole registrare. Finita l’epopea degli anni sessanta e settanta, si fa fatica a parlarne”.
In che cosa consiste questo mutamento?
“Gli operai non si sentono più una classe sociale distinta, né si sentono più rappresentati politicamente in modo forte. Col venir meno delle ideologie, sono cambiate anche le loro aspirazioni”.
Cosa desiderano oggi i giovani operai in fabbrica?
“Semplicemente una vita felice, il più possibile agiata, ossia quello che vogliono tutti i loro coetanei. Soddisfare queste aspirazioni è difficile per tutti, ma per loro lo è ancora di più. Sono i meno pagati e i meno considerati”.
Quanto è difficile crescere in un sobborgo industriale per le protagoniste?
“Anna e Francesca non sono le adolescenti rappresentate nelle fiction, quelle nate ai Parioli che vanno in palestra tutti i giorni e vivono una vita piena di stimoli. La provincia tutto questo non lo offre, al massimo si può sperare in un cinema scadente. Spesso poi, neppure la scuola e la famiglia sono in grado di dare punti di riferimento. Chi cresce in provincia si scontra molto prima con le problematiche sociali ed economiche degli adulti”.
Una realtà a cui è impossibile sfuggire, come una condanna senza appello?
“Al giorno d’oggi la maggioranza emigra verso le grandi città. Questo fatto però non è da prendere alla leggera. Non è detto che per questi ragazzi non sia doloroso dover abbandonare i luoghi della loro infanzia. Credo che sarebbe il caso di riqualificare la provincia, e renderla un luogo in cui si possono trovare lavoro e cultura”.
Anna e Francesca sono amiche per la pelle, e fra alterne vicende il loro legame non si romperà mai. Si può parlare di amore?
“Se non ne diamo una definizione troppo ristretta sì, si può parlare di amore. Certo nel mio romanzo non ho concepito un’amicizia che si sviluppa in modo saffico. Si tratta però di un amore senza limiti, perché include sia un rapporto di sorellanza che attenzioni materne. Il sentimento che lega Anna e Francesca supplisce i rapporti familiari mancanti e vince sulla durezza di quelli sociali e lavorativi”.
Quanto c’è di autobiografico in questo romanzo?
“Riguardo alla storia niente. Senz’altro però conosco i luoghi presi a paradigma. Ho vissuto a Piombino e sono cresciuta con coetanei che lavorano alle acciaierie Lucchini”.
Con Acciaio ha vinto il Premio Campiello Opera Prima 2010, e ha quasi portato a casa il Premio Strega. Si aspettava un simile successo?
“Non me lo aspettavo. Volevo solo raccontare queste storie, storie popolari, che mi hanno sempre affascinato. Volevo testimoniare certe vite contro la predilezione dei media per le esistenze patinate a Porto Cervo. Quando scrivi pensi ai personaggi, e non al successo che potrà avere il libro”.
In un pezzo scritto per il Giornale, Luigi Mascheroni dice che i veri intellettuali sono scomparsi, e che “i riconoscimenti più prestigiosi, dallo Strega al Campiello, ormai sono assegnati a esordienti giovani e carini dotati di maggior appeal rispetto ai venerati maestri della scrittura”. Cosa gli risponde?
“Rispondo che contano i libri. In Italia si dovrebbe parlare più dei nuovi libri scritti, che sono molti e belli, e dare importanza ai contenuti”.

Matteo Leoni


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