A proposito del drappellone di Ali Hassoun, dei significati e dei modelli iconografici della Madonna nel palio

Luigi Oliveto

30/06/2010

Il drappellone del 2 luglio 2010 dipinto da Ali Hassoun, oltre che farsi apprezzare per il suo pregio pittorico resterà iscritto nella storia del Palio per la sintesi culturale ed emotiva che vi è contenuta. Così antico nell’accurato figurativismo, quanto all’avanguardia nell’esprimere, appunto, l’unione di due universi (Oriente ed Occidente) o tantomeno il loro possibile, arricchente rapporto. E tutto ciò, senza nulla perdere dei significati e dei segni che la Festa senese intende tramandare lungo i secoli, compresi quelli di natura religiosa. Anzi, proprio riferendosi a quest’ultimi (e per rispondere alle scemenze lette nei giorni scorsi su La Padania) verrebbe quasi da dire che il musulmano Ali Hassoun con quella sua Madonna (che di una giovane madre possiede tutta la tenerezza, apprensione e luminosità) ha decisamente riparato al gesto sacrilego che, oltre quattrocento anni fa, un avvinazzato soldato spagnolo, presumibilmente cattolico, osò compiere (così vuole la leggenda popolare) nei confronti della “madonnina” di Provenzano. L’artista libanese ha, dunque, simbolicamente ripristinato quell’edicola con una immagine ancora più bella della Vergine, cogliendo bene l’archetipo di femminilità in essa rappresentato, ovvero la connotazione dell'essere donna come fonte di vita in senso lato (non a caso la teologia cattolica definisce la Madonna “nuova Eva”).

Chi vi scrive queste considerazioni, durante la presentazione del drappellone sedeva dietro alla moglie (la madonna dipinta ne è il suo ritratto) e alla bambina di Ali Hassoun. E nel vedere la concreta umanità di quegli affetti poi spiritualmente trasfigurati sulla seta a simbolo universale, è venuto spontaneo ripensare ai versi di Dante – sublime compendio poetico e teologico – quando nell’ultimo Canto del Paradiso pone sulle labbra di San Bernardo il noto inno: Vergine madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’eterno consiglio; / tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ‘l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura. Suggestioni personali a parte, resta il fatto che ad ogni Palio si accende il dibattito su come la rappresentazione della Madonna sia “corretta” o no. Poiché ai senesi, se per caparbia tradizione (o fede) è chiaro “cosa” la Vergine rappresenti nel drappellone, meno esplicito è “come” (con quali modelli iconografici) la si debba raffigurare. In verità il dibattito riguarda i moduli pittorici del dipinto paliesco nel suo insieme, perché più l’ambito drappo è divenuto, nel corso del tempo, pittura d’autore e maggiormente i contradaioli si imbufaliscono nel pretenderne una “riconoscibilità” secondo canoni pressoché immutabili. Dibattito che su tali presupposti si rivela piuttosto complicato e che – se volessimo davvero affrontarlo – andrebbe a coinvolgere tutti i diversi aspetti (civili e religiosi) di questo complesso e polisemico “oggetto” della Festa senese.
Così come, se dovessimo discutere della raffigurazione della Madonna, forse bisognerebbe ripercorrere tutto il dibattito sul rapporto tra teologia e arte, tra sacre scritture ed espressione artistica. Per secoli, infatti, questo binomio ha suscitato il maggiore repertorio simbolico ed iconografico espresso dall’umanità. Chagall parlava di “alfabeto colorato della speranza”, Eliot del “giardino dell’immaginazione”, Claudel delle “trasparenti vetrate della nostra apocalisse”.

A noi è sempre piaciuto pensare che la Madonna non debba avere un “proprio” volto, così che essa possa essere riconosciuta nei diversi volti dell’umanità. Ed allora potremmo dire che anche tutte le Madonne comprese nell’ormai vasta galleria dei palii, hanno avuto, ciascuna a suo modo, una pertinenza di significato. Tornano alla mente, solo per fare degli esempi, la Madonna adolescente di Manolo Valdes o quella, solenne nei suoi ori, di Igor Mitoraj o la compunta ascensione di stampo neoclassico dipinta da Tommasi Ferroni. Oppure certe immagini incorporee ed evanescenti, mistiche e fantasmagoriche, quali furono prodotte da Corrado Cagli, Aligi Sassu, Leonardo Cremonini.
Di contro a queste raffigurazioni dove Maria pare sfuggire alla terra a tutto vantaggio del cielo, ecco, invece, le terrene Madonne che della donna prorompono fisicità, temperamento, fascino. Pensiamo alla donna carnosa e scomposta di Guttuso; alla movenza altezzosa di quella sorta di veggente rappresentata da Alberto Sughi; all'afflitto tremore che percorre la Vergine posta da Mino Maccari a sovrastare la corsa delle dieci contrade. E, ancora, la donna enigmatica e distante di Gianni Dova, quella vaporosa di Renzo Vespignani, la ragazza sensuale di Domenico Purificato, la femmina consapevolmente allusiva di Bruno Cassinari (una improbabile Assunta col Bambino), la trasognante signora di Valerio Adami. Fino al capriccioso mezzobusto disegnato da Mimmo Paladino, alle bambine incantate e cicciottelle di Possenti e Bueno, al dolce donnone di Botero. Ecco, ognuna di queste “icone” ci ha comunque emozionato allorché, issata in gloria di cielo e di umani fremiti, veniva accesa sul Campo dalla luce sghimbescia del tramonto. Provvisorio tabernacolo a traguardare le passioni, le sconfitte, le vittorie umane; ad indicare dove la vita inizi e si concluda (mossa di partenza e bandierino d'arrivo). Nella guerreggiata giostra del Palio – maschia e mordace – è comunque un volto di donna (Nostra Signora) ad indicare il “compimento” dei forsennati atti che nel Palio si sono vissuti. Dunque chi vince la pretende, urlando, per grazia ricevuta; la strattona a sé, la guarda ad intercedere un ricongiungimento con gli assenti. Accadrà così anche il prossimo 2 luglio, quando il cencio “multietnico” di Ali Hassoun (stendardo di dialogo e universalità) solcherà la folla festante. Quella Vergine che nel dipinto di Ali sembra incoronare serenità ed amorevolezza, sarà cantata ancora una volta come “Maria madre di grazia”. Ma non c’è madre che non sia anche donna, anzi… Madonna.

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Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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