Boccaccio e le novelle di ambientazione senese. Il testamento conservato all’Archivio di Stato

Luigi Oliveto

22/01/2013

Settecento anni fa, sul finire del 1313, forse a Certaldo (forse a Firenze) nasceva Giovanni Boccaccio, figlio naturale di Boccaccio di Chelino, commerciante ricco e ambizioso (successivamente finito in malora) che provò a fare di quel figlio illegittimo prima un uomo d’affari, poi un uomo di legge. Tentativi falliti, perché il ragazzo, fin dall’adolescenza, mostrò spiccati interessi per le lettere. E se ne videro i risultati, tanto da divenire il maggiore narratore europeo nel panorama letterario del XIV secolo. Giovanni, dopo una vita non certo esaltante, sarebbe morto a Certaldo il 21 dicembre del 1375, in modeste condizioni economiche, pressoché in solitudine (l’unico vero amico, il Petrarca, era deceduto nel luglio del ‘74) accudito da una devota e buffa domestica. Il poderetto, da cui ricavava lo stretto necessario per campare, lo lasciò in eredità ai figli del fratellastro Jacopo. mentre destinò la sua biblioteca a Martino da Signa, monaco di Santo Spirito, con l’obbligo di permettere la copiatura dei volumi a chi lo avesse desiderato.

Boccaccio a Siena - Il testamento è custodito presso l’Archivio di Stato di Siena, ma non è il solo documento che incrocia vita ed opere del certaldese con la città del Palio. Si deve a lui, ad esempio, la notizia su una visita senese di Dante e sull’aneddoto ad essa collegato. Boccaccio, infatti, nel suo “Trattatello in laude di Dante” – opera talvolta d’impronta leggendaria, ma anche ricca di notizie autentiche sulla biografia dell’Alighieri – racconta che Dante “essendo una volta tra l’altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d’uno speziale” gli fu fatto vedere un libro di notevole interesse. Non essendoci spazio nella bottega per poterlo sfogliare comodamente, si sedette fuori su una panca “e, messosi il libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere”. La lettura rapì talmente Dante da renderlo estraneo al baccano della “general festa de’ Sanesi” che si stava svolgendo per strada con assembramento di gente, schiamazzi, “balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani”. Imperterrito, l’Alighieri tirò di lungo fino “ad ora nona, prima fu passato vespro” sorprendendo tutti per come avesse ignorato “quella gran bella festa” e soprattutto per come fosse riuscito a rimanere concentrato in mezzo a tanto frastuono. Sempre a proposito di richiami danteschi in Siena, si dice che Boccaccio avrebbe svolto alcune “lecturae dantis” nella chiesa di San Vigilio (quella originaria, fatta erigere probabilmente dagli Ugurgieri nel XII secolo). Letture commentate della “Commedia” sul tipo di quelle che lo stesso Giovanni, negli ultimi anni della sua vita, tenne a Firenze presso la chiesa di Santo Stefano della Badia.

Le licenziose novelle - Ma veniamo al capolavoro di Boccaccio, il “Decameron”, l’opera fondante la prosa in volgare italiano, che, per stile, poesia e umanità, quasi prelude al Rinascimento. Su quelle pagine in cui brulica un variegato universo di uomini e donne, ambienti, situazioni, paradossi diversi, incontriamo più di una volta luoghi e personaggi senesi. Ciò avviene, peraltro, nei capitoli che riportano i racconti più salaci e licenziosi, quelli che hanno contribuito maggiormente a dare fama scandalistica alla letteratura del Boccaccio. Si inizia con la “Settima giornata”, nella quale “si ragiona delle beffe, le quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte a’ lor mariti, senza essersene avveduti o sì”. Qui troviamo frate Rinaldo (“… in Siena fu già un giovane assai leggiadro e d’orrevole famiglia”) che, mentre giaceva a letto con la vicina di casa, fu sorpreso dal marito cornuto, ma riuscì a fargli credere che si trovava lì perché “incantava i vermicini al figlioccio”. Il buon uomo ci credé, a tal punto che andò a prendere vino e confetti per ringraziare Iddio e frate Rinaldo che aveva guarito dai vermi il figlioletto. Incontriamo poi Tingoccio e Meuccio, due amici (abitavano nei pressi di Porta Salaria) percorsi da un dubbio di non poco conto: se nell’aldilà ci sia veramente un giudizio divino. Stabilirono che colui fosse morto per primo sarebbe tornato dall’altro a riferire circa i destini delle anime nell’oltretomba. Un giorno divennero padrini di battesimo del figlio di Ambruogio Anselmini. Ma soprattutto si invaghirono entrambi della donna di Ambruogio, la comare monna Mita con casa in Camporegio. Tingoccio, il più intraprendente, riuscì a portarsela a letto; Meuccio, pur accorgendosene, fece finta di nulla. Arrivò il giorno che Tingoccio morì e, fedele alle promesse, tornò dall’aldilà a far visita a Meuccio, che subito gli domandò quale pena stesse scontando per aver copulato addirittura con una comare di battesimo. Tingoccio rispose che lui, giunto nell’altro mondo, aveva posto la questione (“Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giàcquivi tanto che io me ne scorticai”) ma che era stato rassicurato, poiché “di qua non si tiene ragione alcuna delle comari”. Comprensibilmente rammaricato, Meuccio pensò a quante occasioni avesse lasciato perdere. Ironia e giocoso erotismo non mancano nemmeno nella vicenda (Ottava giornata) dei due giovani senesi di Camollia, Spinelloccio Tavena e Zeppa di Mino, i quali danno vita ad una situazione da ‘scambisti’: “… l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che l’uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l’un dentro, l’altro con la moglie dell’un si giace”.

Cecco e Ghino
- Merita inoltre ricordare la novella (la quarta della IX Giornata) che vede protagonisti Cecco Angiolieri e Cecco Fortarrigo. L’Angiolieri, fattosi dare dal padre il denaro necessario, progetta di partire da Siena e stare per sei mesi da un amico cardinale. Il Fortarrigo si offre di accompagnarlo. Giunti alla prima sosta, a Buonconvento, Angiolieri va a riposare nella locanda, mentre Fortarrigo, durante la notte, si ubriaca e perde al gioco denaro e vestiti. Volendo rifornire la propria borsa, ruba il denaro all’Angiolieri sperperando nel gioco anche quello. La mattina seguente il derubato si rende conto di quanto accaduto, manda al diavolo l’amico e decide di ripartire da solo. Fortarrigo gli corre dietro facendo credere ad alcuni uomini che stavano lavorando in un campo che sia lui a inseguire un ladro. Così che i contadini si scagliano contro l’Angiolieri e lo catturano. Per estrema beffa, Fortarrigo priva l’amico anche dei vestiti e lo abbandona là in mutande. Sempre in terra di Siena ha teatro il racconto dove si narra di Ghino di Tacco, in tal caso, brigante-buonsamaritano. Allorché, nelle lande sotto Radicofani, derubò un certo abate di Clignì, prendendolo in ostaggio con tutto il suo seguito. Ma quando Ghino apprese che l’ecclesiastico era diretto ai bagni di Siena per guarire di un male allo stomaco, decise di curarlo lui stesso. Dopo diversi giorni il paziente fu risanato. Al momento della partenza, Ghino gli rivelò la ragione (l’altrui malvagità) per la quale si era visto costretto a scegliere il brigantaggio. Decise anche di restituirgli quanto gli aveva confiscato, chiedendo semplicemente una libera offerta per l’ospitalità. L’abate apprezzò il comportamento del suo medico-carceriere e decise di donargli tutto ciò che possedeva in quel momento, salvo lo stretto necessario per tornare a Roma. Una volta incontrato il papa gli raccontò l’accaduto e ottenne che Ghino venisse convocato alla corte pontificia per essere graziato, insignito dell’ordine di cavaliere dello Spedale, nonché amico e servitore dell’abate di Clignì e della Santa Chiesa.

Paura dell’inferno
- C’è, infine, un episodio inquietante che nella vita del Boccaccio fece risuonare ancora il nome di Siena. Nella primavera del 1362 un pellegrino, giunto a Certaldo, andò a bussare alla casa del poeta. Aveva da riferirgli un’importante ambasciata da parte di Pietro Petroni, monaco senese della Certosa di Maggiano, morto da poco in odore di santità. Ebbene, il pellegrino che si era presentato a Certaldo risultò essere Gioacchino Ciani, confratello del Petrone. Quest’ultimo prima di morire aveva lasciato a fra’ Gioacchino diversi messaggi da recapitare, tra cui uno destinato al Boccaccio: la fine del poeta era ormai prossima e perciò, gli sarebbe convenuto lasciar perdere la sua attività letteraria (contrassegnata, non di meno, da deplorevoli contenuti) pensando, piuttosto, a salvarsi l’anima dall’inferno. L’episodio turbò moltissimo Giovanni che si precipitò a scrivere all’amico Petrarca (anch’esso destinatario di un analogo messaggio) chiedendogli se fosse stato interessato ad acquistare la propria biblioteca di cui, ormai, intendeva disfarsi. Il Petrarca rispose con una lettera di argomentata saggezza e cultura filosofica (“Ma l’arte di adonestare imposture col velo della religione e della santimonia, è frequentissima e antica”) in modo che l’amico potesse tranquillizzarsi. Anche perché – sia detto – la vita del Boccaccio era stata e fu, per il resto dei suoi giorni, tutt’altro che… boccaccesca.

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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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