05/03/2012
Sulla strada che da Gerusalemme attraversa il deserto della Giudea e scende verso la depressione del Mar Morto non ci sono molte luci e quando ti lasci alle spalle le ultime case fuori Hebron il buio è nero cieco. Il cielo, felpato di stelle, si fonde coi ciottoli aridi e con le rocce sabbiose fino a diventare un unico pezzo di stoffa scura stesa sul mondo. La prima volta che arrivai al kibbutz di Ein Gedi era la fine di luglio. I bagliori gelidi del neon all’ingresso furono, credo, l’ultimo pensiero che si sarebbe potuto associare al “freddo”. Da lì in poi sarebbe stato caldo come può essere caldo solo il Mar Morto in estate. L’insediamento, costruito su una collinetta, è kibbutz dal ’53 e salvo pochi, pochissimi kibbutzim – come si chiamano i suoi abitanti – che allevano galline da uova, ormai è un bel residence per turisti affogato nei fiori di ibisco e i baobab. Ma il suo valore simbolico è immutato. Questo è il luogo ideale della proprietà comune; questo è il posto delle regole egualitaristiche. Questo è il kibbutz. Una forma sociale che compirà un secolo il prossimo anno; un po’ fattoria e un po’ istituzione; di sicuro uno dei simboli di Israele e originale forma di associazionismo agricolo di stampo socialista. Estremizzazione delle forme cooperative, nei kibbutz non esiste la proprietà privata. A partire dalla terra. Bene comune, viene coltivata e fatta rendere al fine di procurarsi vitto, alloggio, studio, vita e vestiario. Niente più di quanto occorra. I primi ad arrivare, furono i pionieri della società futura, i chalutzim come si dice in ebraico; donne e uomini che dall’inizio del secolo hanno popolato questi villaggi agricoli che spuntavano di giorno in giorno. Chi scappava dall’Europa infiammata dai pogrom, dalla segregazione, dall’antisemitismo e chi invece inseguiva il sogno sionista di una nazione ebraica, chi col fazzoletto rosso al collo voleva costruire una società collettiva e chi semplicemente, non avendo proprio niente, avrebbe di sicuro migliorato la propria condizione. Per tutti, ad attenderli, la stessa futura Eretz Israel, la terra di Israele. Fatta di ideali, di pietre riarse, di costruzione, di sabbia, di cielo e di lavoro duro. Per tutti, ad aspettarli lo stesso deserto. Un meraviglioso niente, caldo asfissiante, che brucia nel naso e taglia il respiro come il Mar Morto in estate.
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