Golem. L’isola della vita nuova

Giuseppe Burschtein

21/03/2011

Ellis Island è un’isola fra New York e il New Jersey, grande come la pianta di qualche palazzone. È qui che dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento i mille e mille bastimenti che lasciano l’Europa consegnano all’America milioni di creature in cerca di sogni e di speranza. Emigranti che abbandonano per sempre il tanfo di un passato senza futuro in cambio di un avvenire incerto ma fragrante e tutto da costruire. Che di sicuro sarà migliore. Sono italiani, irlandesi, scandinavi, greci, polacchi e poi ebrei da tutte le province dell’Europa continentale. A bordo, popolano la terza classe; quella fatta di panche di legno, dove i corpi e i destini sciabordano più dell’Atlantico in burrasca. Rosari e Shemà, litanie, suppliche; ognuno si affida a chi, dall’alto, possa concedere un viaggio sicuro e senza vento. Prega in latino Maria che ha lasciato Palermo e prega in ebraico Chaje che ha lasciato la Russia. Il porto di Anversa, dove si erano imbarcate, sembrava la Sinagoga centrale di Łodz in un giorno di festa, dal via vai di ebrei che si agitavano per trovare un passaggio a vita per l’America. Chaje ha quarantotto anni, il viso minuto e una chioma fulva che sembra messa apposta per far risaltare gli occhi azzurri. Insieme a lei, la figlia Henje, di diciannove anni bionda e con lo sguardo di mamma e il piccolo Abram, sette anni, coi capelli castani come gli occhi, che fanno sembrare ancora più smorto il volto già pallidino di natura. Con i 50 dollari obbligatori per entrare negli Stati Uniti, raccolti dai parenti e dagli amici ce l’avevano fatta. La motonave Vaderland, battente bandiera inglese, con destinazione New York, spinta dal vapore e dalla voglia d’arrivare dei suoi occupanti, era finalmente attraccata a Ellis Island per la regolare quarantena ed il disbrigo delle pratiche per l’immigrazione. È il 3 agosto 1908 e la famiglia avrebbe raggiunto finalmente il padre Rubin Burschtein, che aveva predisposto per loro un’esistenza nuova di zecca, al numero 83 di Orchid Street a Chicago. Almeno così risulta dall’archivio digitale di “ellisisland.org”.

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