Golem. L’ultimo ebreo di Kabul

Giuseppe Burschtein

01/02/2012

Quando lo vide sdraiato immobile sul pavimento gli apparve più piccolo, come se la morte lo avesse rattrappito per portarselo via con più facilità. Ishaq Levin, meraviglioso vecchio diabetico e bisbetico, scaccino della piccola sinagoga sefardita, gran giocatore di scacchi se ne era appena andato, lasciando bel gatto certosino, due tappeti Turkmeni, una confezione aperta di dolcetti al sesamo che per lui erano come il veleno, e l’incombenza al suo amico Zebulov Simentov di rimanere l’ultimo ebreo di Kabul. Allora era il 1995 e da quel giorno Zebulov mantenne l’impegno e si inchiodò, ovvio in modo figurato, alle mura di quel tempio ebraico pur con tutte le difficoltà che ci si può immaginare a provare a vivere da ebreo in mezzo ai talebani. E poco alla volta prese ad occuparsi della sua insolita solitudine e a sostituire il povero Ishaq – pace all’anima sua – nella preparazione della sinagoga per lo Shabbat, e nei colloqui con Lui che come gli raccontava sorridendo il vecchio amico – aveva sempre un occhio di riguardo – per chi lo rappresentava in terre ostili. E prese anche ad accendere due candele e a benedire il vino come si fa nel kiddush per santificare il Sabato. La forza della propria coscienza, immersa in questa solitudine rituale, gli dette anche la capacità di imparare cose mai provate prima e il pane che ormai sfornava prima che si accendessero le prime stelle del Venerdì sera era diventato soffice e fragrante come quello dello Levine. Anzi, a dire il vero i semini di papavero che ora ci metteva, lo rendevano ancora più appetitoso e profumato. Un vero e proprio trionfo di un solipsismo gastro-religioso sviluppato nel tempo. Ogni giorno, quando si accendeva il giorno, indossava la kippà, lo zucchetto da ebreo che non poteva indossare fuori, appoggiava le spalle alle pareti rosate dello stanzone che faceva da sinagoga e rifletteva sulla sua vita. Lui Zebulov Simentov, nato a Herat da una grande dinastia di Rabbini, commerciante di tappeti, aveva fatto bene a trasferirsi a Kabul e rimanere lì. E aveva fatto bene anche a convincere la moglie e i figli a trasferirsi a Tel-Aviv perché era meglio aver paura che buscarne. Guardava l’Arca Santa che un giorno aveva ospitato i rotoli della Torah più preziosi d’oriente e così pregando era arrivato fino ad oggi. Il gatto di Ishaq gode ancora di buona salute e la scacchiera sembra essere cristallizzata su un’apertura inconsueta che pare arrivare da un altro mondo.

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