24/11/2011
Un grande cartello grigio con una scritta fatta col pennello. Pochi caratteri ebraici dal segno impreciso che scrivono la parola “shalom”. Pace. Trovarla a Gerusalemme o a Brooklyn non susciterebbe alcuna attenzione. Ma qui, nel nord dell’India, anche se la spiritualità la si respira come la polvere dei ciottoli intorno e i miracoli potrebbero compiersi in ogni secondo del giorno, quella iscrizione, in quella lingua, è inaspettata e forse sorprendente. A pochi chilometri da qui, verso sud, a Dharamsala, la capitale dei tibetani in esilio, i monaci accolgono i visitatori con calore ed elegante distacco. La tinta solare delle loro vesti, ha l’effetto di un evidenziatore colorato sul panorama ferrigno che anticipa il grigio assoluto dell’Himalaya. Dharamsala, una piccola Lhasa. E qui a Dharamkot, a Bhagsu, si vive come in una piccola Israele. Villaggi di un migliaio di contadini indiani che in questa stagione quasi raddoppiano grazie alle migliaia di ragazzi israeliani che ogni anno, zaino in spalla, raggiungono il Piccolo Tibet. Ormai è una tradizione. Come gli studenti americani di un tempo, che dopo il liceo conoscevano la vita attraverso un viaggio in Europa, i giovani israeliani dopo il servizio militare cercano pace e serenità quassù in cima all’Asia. Cinquantamila all’anno. Cuori che hanno visto la guerra e la paura e che adesso hanno necessità di essere mondati, sciacquati definitivamente attraverso una preghiera che non ha religione, una realtà pura che ha insidie. Sono andati per ritrovare una dimensione di tranquillità, di rinascita. Per tornare alla superficie attraverso un miracolo da “mikvè”, da bagno rituale: dove la luce appare al termine di un’immersione profonda nella propria ragione. Un fatto che si compie ogni secondo del giorno, qui nel nord dell’India; fra contadini dall’incarnato olivastro che parlano l’ebraico e preparano l’hummus e cucinano un meraviglioso cous-cous, Internet cafè che accettano dollari e shekel e venditori di tè che un giorno alla settimana tirano fuori il vino kasher. Perché shabbat è shabbat anche sull’Himalaya.
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