Il libro dell’amore impossibile. La storia di Giulia Spinelli e Giovanni Battista Pergolesi

Luigi Oliveto

23/05/2024

Salti di tempo (dagli anni Ottanta del Novecento ai Trenta del Settecento), alternarsi di luoghi (Torino, Parigi, soprattutto Napoli), sconfinamenti di genere (romanzo, metaromanzo, auto-fiction, saggio). Tale è “Il libro dell’amore impossibile” di Giuseppe Culicchia, che, per prevenire lo spaesamento di chi legge, subito nelle prime pagine avverte di come questa sia sì “la storia tragica di un amore impossibile”, ma che per giungere al cuore della vicenda occorra “procedere un poco alla volta” seguendo l’autore in digressioni che lui non considera “davvero tali”. Dunque un po’ ci vuole per giungere a Napoli – la Napoli che trasuda storia e storie, mistura magica di sacro e profano – fino a Palazzo Zevallos Stigliano, in via Toledo, davanti a una tela ottocentesca che ritrae una ragazza "con il capo coperto da un velo, le mani giunte e gli occhi tristissimi". Costei è Giulia Spinelli, sedicenne di nobili origini, così giovane e già condannata allo sconforto. Sconforto per amore. Si era innamorata del suo maestro di musica, Giovanni Battista Pergolesi, un amore giustappunto impossibile, perché lui non poteva vantare blasoni nobiliari. I fratelli di Giulia erano stati quanto mai espliciti: o quella tresca veniva troncata o Pergolesi sarebbe stato ucciso. Lei, per salvarlo, sublima il proprio amore facendosi monaca nel monastero di Santa Chiara. Esige, però, che durante la cerimonia dei voti sia lui a suonare l’organo. Leggenda vuole che entrambi sarebbero morti per lo strazio della loro separazione. Giulia solo dopo un mese dall’ingresso in clausura. Giovanni Battista a distanza di un anno, ma non senza avere completato il suo celebre Stabat Mater. Le ultime pagine della partitura mostrano la fatica, la pena e la fretta di concludere la musica di quella preghiera il cui tormento avrebbe significato per il giovane compositore (morì che aveva ventisei anni) totale simbiosi con il proprio dolore. Anche Giuseppe Culicchia a tratti sembra procedere per simbiosi, altre volte con studiato distacco, piglio dialettico. Molti temi vengono assunti a pretesto l’uno dell’altro: musica, fede, cinema, letteratura, la seducente Napoli. Il risultato (voluto?) è una lettura che, pagina dopo pagina, mai può dirsi appagante. Almeno fino a quando, chiuso il libro, non si riascolti quella sublime cosa che è lo Stabat Mater di Giovanni Battista Draghi detto il Pergolesi.
 
***

Era una sera d’estate, e la città si era svuotata come accadeva di norma in quegli anni – quando la Grande Fabbrica chiudeva e i suoi dipendenti tornavano ai luoghi d’origine oppure andavano in villeggiatura, o si tappavano in casa se non potevano permettersi né l’una né l’altra delle due opzioni – e in tasca avevo giusti giusti i soldi occorrenti per andare al cinema. In una sala del centro proiettavano Amadeus, il film di Miloš Forman dedicato a Wolfgang Amadeus Mozart. Io allora non avevo alcuna dimestichezza, se così si può dire, con la musica colta: ero nel pieno del mio periodo scapigliato o, se preferite, ska-punk e il mio amore per Wagner e Beethoven e Bach e Purcell e Haendel e Bruckner e Monteverdi e Schubert era di là da venire. L’unico brano di musica cosiddetta classica che conoscevo e che in effetti adoravo era proprio di Mozart: il secondo movimento andante dal Concerto per pianoforte e orchestra n. 21 K. 467. L’avevo ascoltato per la prima volta da ragazzino quando su una delle prime tivù private mi ero imbattuto in un film intitolato Elvira Madigan, girato dal regista svedese Bo Widerberg e la cui protagonista, Pia Degermark, vinse la Palma d’Oro come miglior attrice nel 1967, pellicola di cui mi ero innamorato e in cui quel brano invero sublime faceva da colonna sonora. E fu insomma il ricordo a me caro di quel film, che tra l’altro raccontava la storia vera di un amore impossibile, il solo motivo per cui quella sera me ne andai al cinema a vedere il lungometraggio di Forman. Una volta acquistato il biglietto, mi sedetti in sala e aspettai. A un tratto, le luci si spensero. Non sapevo che di lì a poco avrei incontrato Gesù.
Chi di voi ha visto Amadeus ricorda forse come a un certo punto Salieri, ascoltando la musica di Mozart, affermi che quella è la musica di Dio. Ebbene, io, come detto, all’epoca non credevo in Dio. E quando molti anni dopo, a un certo punto della mia vita, scrivendo un romanzo intitolato Il cuore e la tenebra, mi sono imbattuto nella Nona Sinfonia diretta da Wilhelm Furtwängler il 19 aprile 1942 e mi sono reso conto della grandezza di Ludwig van, non ho pensato che quella fosse la musica di Dio. Era semplicemente Beethoven, come Bach è Bach e Purcell è Purcell e Monteverdi è Monteverdi e Wagner è Wagner e Bruckner è Bruckner. E una rosa è una rosa è una rosa. Per cui quella sera, in quel cinema, nella musica di Mozart sentii Mozart, non Dio. E però incontrai Gesù. Tuttavia, non nelle note di scritte di suo pugno da Wolfie, come la moglie Constanze chiamava Wolfgang Amadeus, il quale così si firmava nelle lettere alla consorte.
Ma un momento. C’è differenza tra Dio e Gesù? C’è chi in passato ha discusso anche parecchio sulla questione, che in effetti è complessa e non del tutto chiara, e che ha visto posizioni diverse all’interno della stessa cristianità, tra liti, scomuniche, concili e roghi.
[...]
Comunque. Di tutte queste cose forse avrei dovuto eventualmente parlare con Gesù, quella sera in cui ventenne mi capitò d’incontrarlo nel buio della sala cinematografica. Ma non mi fu possibile farlo. Non perché con Gesù non si possa parlare: Gesù non è Dio e, come riportano le Scritture, sapeva ascoltare. Se non Gli parlai fu semplicemente perché Gesù aprì bocca Lui per primo, e io non potei fare altro che ascoltarLo. Gesù, quando ti parla, non è che Lo interrompi. Soprattutto quando ti parla come quella sera parlò a me. Con una voce di una bellezza inimmaginabile. Una voce pura, dolcissima e insieme dolorosa. Perché quali altre parole possono essere più appropriate nel riferirsi a Gesù? La purezza. La dolcezza. Il dolore.
Quella sera, nel buio di un cinema, Gesù mi parlò con purezza, dolcezza e dolore per mezzo di due frammenti dello Stabat Mater di Giovanni Battista Draghi, detto il Pergolesi: il Quando corpus morietur e l’Amen nella versione diretta da Sir Neville Mariner con il coro di voci bianche dell’abbazia di Westminster. Quella sera Gesù mi parlò per mezzo di un organo che suonava una melodia meravigliosa accompagnato dalle voci di bambini capaci di cantare in modo sublime le parole di quei brani composti a Napoli nel 1736 da Pergolesi quand’era appena ventiseienne. Eccomi, Gesù, pensai quella sera nel buio di quella sala, ascoltandoLo. Perdonami.
Perdonami per avere dubitato di Te.
[...]
Quando Gesù smise di parlare, il film ricominciò, anche se a dire il vero non si era mai interrotto. Uscito dal cinema, avevo ancora la sua voce nelle orecchie. Tornato a casa, restai a lungo con gli occhi spalancati nel buio della mia stanza, senza riuscire a prendere sonno.
Doveva essere quello l’effetto che faceva Gesù, se avevi la fortuna di incontrarLo. Questo almeno è ciò che pensai quella notte.
 
[da Il libro dell’amore impossibile di Giuseppe Culicchia, HarperCollins, 2024]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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