La vita addosso

Lucia Esposito

02/01/2024

Come sarebbe bello indossare la vita. Sentirsela addosso aderente e setosa avvolgere le forme. Definirle, accarezzarle. Ma non sempre la vita è un bel vestito fatto su misura e di quel colore che ci piace tanto. A Sara era successo proprio questo: la vita le era caduta addosso come quei chicchi di grandine che colpiscono il suolo all’improvviso e lo fanno rabbrividire. Con il tempo, si era arresa al freddo che sentiva dentro e a quella coltre bianca che spolvera le vesti e colora d’argento i capelli e inganna il cuore che precipita in un torpore arido e senza senso. All'età di dodici anni, era andata in visita all'acquario della sua città che era stato rinnovato di tutto punto, ingrandito con altre vasche per contenere un maggior numero di specie di pesci e accogliere due tartarughe verdi abbandonate sulla spiaggia. Fu in quell'occasione che l'adolescente Sara, capì che non avrebbe mai voluto essere un'aragosta né tanto meno avere una vita come un'aragosta.
 
Erano le sette del mattino ed era suonata la sveglia. Tutte le mattine Sara si alzava alla solita ora, tranne il martedì quando le avevano proposto di andare al lavoro due ore più tardi e, quindi, poteva fare colazione al bar sotto casa leggendo il quotidiano dove scriveva il suo ex: Leo, un giornalista di cronaca nera. Tutte le mattine, Sara, tranne quindi il martedì, scendeva a passo sostenuto le scale che la separavano dal garage per sedersi comodamente nella sua auto e infilava la chiave nel cruscotto.

Il rombare del motore le procurava un piacere misto a tensione e chiudeva gli occhi. Perfetto. Quel suono non dava adito ad alcuna stranezza. La giornata poteva cominciare. La sua Opel viola metallizzata rappresentava un motivo per sopravvivere. Almeno per il momento. L'aveva arredata con due cuscini bordeaux, un piccolo carillon e numerosi CD degli anni Ottanta. Sparse qua e là caramelle e una piccola scorta di cibo sopravvivenza, come amava definirlo: biscotti, crackers, noci e una bottiglia di acqua naturale. Aveva anche una pochette con alcuni trucchi di base: rossetto, matita nera, mascara, fondotinta, cipria. Infine, non potevano mancare un ombrello e le salviette umidificate per ogni evenienza.
 
Insomma, un'auto comfort che avrebbe rappresentato la sua via di fuga. Tutte le mattine, con la solita tranquillità faceva retromarcia, imboccava il viale del condominio e poi le mani e i piedi all'unisono, raggiunta la strada, liberavano l'adrenalina accumulata nella notte e con tocco leggero ma deciso, facevano vibrare l'abitacolo, l'alberello di Arbre magic e la scatola di Tic Tac nel vano dell'accendino. La mano destra gestiva il movimento del volante assecondata dalla sinistra e il piede destro premeva sull'acceleratore. L'asfalto ogni volta gli appariva più luminoso. La prima marcia. La seconda. La terza. La quarta. Infine, la sua marcia preferita: la quinta, che da professionista le offriva la prestazione migliore. Sulla strada provinciale il limite di velocità era 90, poi 110. Ma il piede seguiva il ritmo vivace che aveva dentro e premeva sempre un po' di più sull'acceleratore 120, 130, 140. Il brivido della fuga si palesava in lei e la pelle si ricopriva di piccoli aculei. Come quella volta in barca con Leo, quando il mare giunse inaspettato a lambirle le dita che fuori dai bordi della imbarcazione si lasciavano dondolare a fior d'acqua e all'improvviso le venne la pelle d'oca.
 
Da piccola aveva assistito alla muta di un'aragosta rimanendone affascinata e preoccupata.  Povero esserino indifeso!  È esposto al peggio proprio in quel particolare momento in cui il guscio si spacca e la parte molle fuoriesce idratandosi velocemente ed aumentando di dimensioni. La muta rappresenta un periodo molto delicato per i crostacei che rimangono privi di protezione e pertanto si ritirano in luoghi nascosti della grotta in attesa che il loro guscio, detto anche esoscheletro, o carapace, non si ricostruisca. L'abitacolo dell'auto era il suo luogo nascosto! Invisibile. Mimetizzato. Efficace per raggiungere l'obiettivo. Durante il tragitto, Sara guardava il cielo dal parabrezza e si ripresentava a lei la stessa prepotente voglia di andare altrove e la sua vita si riempiva di possibilità. 
 
- Non hai capito nulla!
- Non è così! Non intendevo questo! Ma perché non ascolti quando parlo? Cosa ti ho fatto per essere trattata in questo modo?
 
Thomàs stava lì di fronte a lei, sembrava ascoltasse, ma i suoi occhi erano assenti e la sua mente altrove. Ogni volta che lei alzava il tono della voce lui si trasportava nel suo luogo preferito: il mare. Su una canoa sedava le onde, anche le più alte e impetuose. Thomàs era un bravo surfista. Se la cavava. Aveva partecipato ad alcune manifestazioni. Non aveva mai vinto, ma ci era andato vicino e questo lo feriva, nonostante non lo desse a vedere. Era sempre sorridente e solare, tono della voce basso, un tenebroso apparente. In casa tirava fuori le sue irregolarità caratteriali.
 
- Vai via!
 
La canzone preferita di sottofondo la rassicurava, riportandola al qui e ora.                                                                                         
I will survive. Oh as long as I know how to love. I know I will stay alive
 
Poteva farcela, la sua aragosta, come l'aveva ribattezzata ci era riuscita. Certo c'era voluto tempo. Un tempo lento e lungo, perché l'aragosta muta per tutta la sua vita e a un ritmo sempre più lento. Anche lei, per metà donna e per metà aragosta, sarebbe riuscita ad allontanarsi da quella situazione, avrebbe sciolto quel cappio d'argento che la teneva legata lì, tra quelle mura, tra le braccia di quell'uomo da cui ogni giorno cercava una breve fuga per fare scorta di ossigeno. Ci sarebbe voluto tempo. Un tempo lungo e lento in quanto la muta è per la vita. E, il lavoro le offriva un'opportunità.
 
L'aragosta è un animale molto particolare. Vive sui fondali marini rocciosi o cosparsi di alghe caratterizzati da tane e cunicoli. Si trova sia nel Mar Mediterraneo che nell'oceano Atlantico. Le piace vivere tra altri simili e possedere una casa in cui ritornare dopo le escursioni notturne in cerca di cibo. Sara se ne era innamorata quel giorno. Mentre le sue compagne si raccontavano di Mario, il biondino della scuola o di Alessandro il più bravo della classe o dell'ultimo dramma amoroso di Margherita, lei se ne stava con il naso ad un centimetro di distanza dalla vasca in cui un'aragosta e si stava liberando piano piano di quel peso che la proteggeva con uno sforzo nascosto e consapevole. Non un gemito. Eppure, era stata la sua pelle. Il suo corpo. Lo lasciava andare così con una sofferenza leggera. Pensandoci bene, l’aragosta è un animale che cresce per tutta la sua vita attraverso il fenomeno della muta. L'abbandono del guscio serve per costruirne ogni volta uno più grande. Ma la muta richiede molta energia e più grande è l’esoscheletro, maggiore è lo sforzo che l’aragosta deve fare per uscirne.
 
Trenta chilometri per raggiungere il suo ufficio. La sua stanza: la sua scrivania. Quaranta minuti di orologio senza traffico. Quaranti minuti in cui, nell'abitacolo di quella macchina, avveniva la magia. La donna indipendente che era, affiorava e si riappropriava del suo modo di essere: giovane, luminosa, ardente. Sentiva il bisogno impellente di sorridere mentre la sua canzone preferita, in sottofondo, lavorava sulle sue sinapsi e la serotonina si metteva in moto. La trasformazione iniziava dentro, con uno straniamento, una scintilla che si propagava al di fuori, nell'inquietudine mondana che la circondava. Camion della raccolta del vetro. Clacson. Urla di passanti senza freni. Ambulanze. Macchina dell'asfalto per il rifacimento della corsia. Perforatrice. Tg alla radio con le notizie perturbanti.
 
Quella camera su quattro ruote aveva un potenziale. E allora, Sara sorrideva a sé stessa, mangiava un bacio Perugina e cantava agitando le braccia, prima una e poi l'altra, muovendo il busto a destra e a sinistra e scuotendo un po', solo un po' la testa. Era una donna di quarantacinque anni, di aspetto gradevole, magra, quasi filiforme. Nonostante tutto gli uomini la notavano. Anzi facevano di più. Ci provavano. Di solito erano i colleghi di lavoro con cui trascorreva più tempo. Di solito erano i fattorini che rifornivano l'azienda di materiale d'ufficio. Di solito qualche signore di mezza età che avrebbe voluto rivivere frenesie giovanili. Valentino di quasi ottant’anni aveva provato a baciarla! Lei con grazia lo aveva respinto sussurrandogli: - Ma Valentino via non è da gentiluomo!
 
Non si adirava mai. Si compiaceva e andava avanti. Talvolta però si concedeva un caffè e delle occhiate d'intesa con il suo interlocutore. Nulla di più. Otto anni. Otto anni che viveva in uno stato di non belligeranza. Lei e lui si erano impegnati a non attaccarsi come quegli stati nemici che sanciscono un accordo o provano a far finta di stipulare un'amicizia rimanendo in attesa dell'imprevisto o dell'inevitabile. Lo odiava Thomàs per come era cambiato, per come non la guardava più, per come si inventava le cose urlando per farle apparire più vere oppure per come non si prendeva più cura di lei. Anzi per come aveva cambiato la loro vita.
 
Otto anni in cui nella testa si riproduceva la frase della zia Pina, anno 1920, zitella, sorella della nonna paterna, maestra di scuola elementare. Ognuno ha ciò che si merita. Otto anni in cui quella situazione le era caduta addosso prima soffice e leggera come fiocchi di neve. e poi come coltre plumbea tanto da impedire al suo cuore di battere. Come se poi il cuore dovesse chiedere il permesso per farlo! Lì incastonato nel petto custodito da una gabbia d'oro. Nemmeno quel calcio giù per le scale del pianerottolo l'aveva fatta desistere. E, poi, quello schiaffo a cena. E, poi, quell'occhio nero. Ancora si lasciava sedurre da quello sguardo da cucciolo bastonato. Ancora cedeva a quell'abbraccio frettoloso e leggero che sembrava consolarla. Se Leo avesse saputo. Se Leo fosse stato lì. Ma Leo non c'era e lei da sola avrebbe dovuto andare avanti aggrappata all'idea che prima o poi le cose sarebbero cambiate. La sua aragosta era sempre lì ad incitarla a fare quello sforzo. A lasciar andare il peso di quella relazione che nel suo caso la proteggeva dalla solitudine e dalla paura di non avere nessuno una volta tornata a casa.
 
- Un pensiero tossico - lo aveva definito lo psichiatra qualche anno prima -; disturbo dell'attaccamento.
 
Una modalità innata nel bambino che ricerca vicinanza e protezione da parte della madre, ma in un adulto? Beh, le cose cambiano un po'. Sara nel passare dei giorni, dei mesi, degli anni, comprese che quella relazione d'amore le faceva male. Tutto si complicava. Anche un semplice Come è andata la giornata? a cena diventava una manifestazione di indifferenza, freddezza. Una morsa al petto le intrappolava il respiro e annaspava. Soffocava. Affondava sotto il peso della sua inettitudine.
 
Le capitava spesso di pensare a questo suo bisogno di sentirsi protetta, di essere al centro dell'attenzione di qualcuno. Era sempre giunta alla conclusione che la colpa era del rapporto conflittuale con sua madre la classica donna degli anni Cinquanta di ceto medio, sottomessa, casalinga, con la quinta elementare. Inconsapevolmente frustrata.
 
Per molti anni Sara pensò che la muta dell'aragosta rappresentasse un serio problema per il prezioso e indifeso animale. Non è semplice disfarsi, ad ogni periodo della crescita, del proprio carapace. Se non lo avesse fatto sarebbe morta!  Dove era finita la possibilità di scegliere? Questa immagine l'aveva sempre tormentata e anche ora a 45 anni la rammentava con una certa ansia.
 
- Sara - le diceva lo specialista - sua madre è una scusa per non affrontare il problema.
Ma quale problema! Lei non aveva nulla! Sapeva di avere un carattere particolare, intenso. Sensibile. E con questo si era etichettata per la vita.
 
Era stata una bambina irrequieta e poi una donna irrequieta. Bambole smontate. Trenini deragliati e fatti atterrare sul letto, sul tappeto accanto alla finestra, sulla mensola. Peluche chiusi nell'armadio. Pareti acquarellate. Un giorno all'asilo ricoprì tutti i banchi di colore rosa e sua madre dovette scusarsi con la direttrice che era andata su tutte le furie. Bambini maleducati! Aveva detto tra le labbra.  Da adulta, invece, oltre al lavoro, si dedicava alle pulizie domestiche, a preparare omelette, sushi, contorni di verdure fresche, torte salate, pasta al pomodoro. Il ciambellone della nonna.
 
Fuori casa amava il trekking, la bicicletta, il mare, le serate estive, le canzoni degli anni 80, lo shopping, il gelato: quello artigianale alla crema e pistacchio di Nina. Come lei non lo faceva nessuno. Era una gelateria in stile vintage di fronte al mare, con un bel giardino sul retro. All'interno c’era un bancone un po' più alto di quello degli altri bar e sgabelli colorati, lo spazio esterno arredato con tavolini tondi e sedie di ferro battuto con uno schienale floreale su cui poneva sempre lo sguardo per l’effetto giocoso che i suoi occhi carpivano. Un muretto definiva il giardino del locale su cui spesso si sedeva per ammirare un tramonto o ascoltare il brontolio di un mare agitato. E finiva per rimanere intrappolata in quel quadro di Van Gogh che tanto amava Marina a Saintes Maries de la Mier per quei colori, quelle trasparenze, quei riflessi di luce e per quel tocco leggero in cui lui, il mare, si univa alla spiaggia in un amplesso delicato.
 
Cercava da sempre di dare voce a quell'inquietudine che faceva gonfiare il suo petto impedendole di respirare come se dei tentacoli l'avvolgessero per stritolarla. Vorrebbe urlare e invece piange. La vita le era caduta addosso come un carapace dismesso e piovuto da chissà dove.
 
– Lei ha un problema da affrontare - parole dello specialista che le risuonavano nella testa e a cui si opponeva puntualmente.
 
Lei non aveva nessun problema da affrontare. Ogni volta che sentiva quella frase le narici le fumavano e gli occhi si riempivano di rivoli rossi. Era solo stressata. Era così difficile da capire? Thomàs, ad esempio, la stressava. Non era più il ragazzo che aveva incontrato. E dopo il matrimonio non fu mai più quello di prima. Il suo sorriso era svanito. Le sue parole rilassate erano diventate concitate, sacrileghe, severe. Un alieno di quelli mutanti che vengono da chissà quale pianeta di chissà quale galassia in guerra con gli umani.              
                                                                                                                                
 – Scusi! Scusi! Perché questo traffico stamattina? - chiese ad un operaio che fermava le automobili con una paletta rossa e poi girandola con il verde dava l'ok a muoversi in maniera alternata per le automobili dell'altra corsia.
- Signorina c'è stato un incidente al chilometro 21.
- Ci mancava anche questo - pensò Sara.  
                                                                                
I suoi pensieri si palesarono baldanzosi. Quale occasione poteva essere migliore! Ma un clacson insistente la fece sobbalzare. Abbassò il finestrino.
- Ehi! Che modi? Ma ...
L'uomo brizzolato alla guida di una Mini Cooper blu le fece il gesto di andare a quel paese.
- Non lo vedi che la paletta è verde? La solita donna al volante. Lo conosci il detto, vero? - esclamò.
- Cosa? Ma come ti permetti? - pensò senza che sillaba uscisse dalla bocca: il solito maschilista. Meglio lasciarlo perdere.

Così fece una sgommata e si allontanò. Era leggermente in ritardo, ma aveva già pronta una giustificazione. Un cretino le aveva bloccato la strada. Aveva appena segnalato con la freccia la sua uscita a destra che dallo specchietto retrovisore vide la Cooper seguirla. Da quando aveva messo gli occhiali per un astigmatismo miopico capitava a volte di perdere alcune sfumature nella visione globale e non si era accorta che il tipo al volante gesticolava qualcosa. Al parcheggio dei dipendenti, Sara si guardò nello specchietto retrovisore, si sistemò il rossetto, la matita un po' sciolta sotto l'occhio destro, una spazzolata ai capelli e scese. Chiavi in mano, valigetta con computer personale e alcuni appunti per un progetto.
 
- Sara!

Si girò, lo guardò, lo riguardò e non riusciva a bloccare quel susseguirsi di scene che il cervello le stava proiettando davanti agli occhi. 20 anni. I primi brividi d'amore. Le biciclette portate a mano fin alla spiaggia e poi abbandonate per un rapido tuffo in mare. L'asciugamano sulla sabbia e giù stesi a guardare il cielo e indovinare le sue forme bianche o grigie definirsi con una certa fantasia.
 
Leo. Che dire? Il cuore a poco a poco accelerò. Non così tanto come quando i loro corpi erano stati uniti o come quando una piccola scossa elettrica li percorreva al solo lanciarsi sguardi complici. Comunque, era accaduto tanto tempo prima. E come mai la delusione, la rabbia, non erano ancora acqua passata? I mesi trascorsi. Gli anni ognuno a raccontarsi la sua storia. A viverla quella storia. Lei lo aveva amato. Era stato così.
 
Ma, Sara! Cosa? Qualcuno le stava tirando un brutto scherzo, pensò. Leo? Dei flash le fecero perdere l'equilibrio. Quello schiaffo. Uno solo in tutto il loro rapporto. Uno schiaffò e delle scosse telluriche nel torace. Frattura del setto nasale. Lo guardò con occhi vitrei. Non un sorriso. Si allontanò per sempre. Ora le appariva tutto chiaro. Troppo risentimento ancora fresco sulle pareti del cuore. Come quella volta che aveva dipinto la camera e dopo giorni per un errore nella diluizione della tempera i muri trasudavano ancora di color azzurro e la forma della mano si era fissata sul muro. Anche il suo dolore si era fissato nello stomaco, nella pelle. Sepolto e risorto. Con la terapia. però, i suoi idoli si stavano dissacrando. La terapia stava funzionando. In ritardo, ma meglio tardi che mai.
 
Una mattina si svegliò con un urlo bloccato in gola. Con dolori ovunque. Thomàs le russava accanto. Aveva dormito male. Tutta la notte si era girata e rigirata nella parte di letto che era solo sua. I suoi genitori deceduti le erano apparsi in sogno: suo padre, sua madre. Quanto le mancavano! La guardavano con disappunto amorevole.
- Parlate una buona volta! Cosa volete dirmi? State immobili come i colossi di Memnon?
Polvere e magia.
-Va bene, lo farò. Così sarete contenti…                                                                                                                                                                                                                                    
Trascorse la giornata nel solito succedersi dei fatti. Tornò dal lavoro un po' prima. Thomàs non era in casa. Prese il trolley. Lo riempì confusamente. Le lacrime si affacciarono agli occhi annebbiandole gli oggetti e i ricordi. Finì col prendere meno di quello che avrebbe voluto. Si stava compiendo la sua muta.  Nausea. Non poteva più tornare indietro. Non aveva scelta.

Nel XXI secolo basta alla violenza gratuita sulle donne. Non era uno slogan. Voleva uscire indenne da quell'incidente che era stato il suo passato. Certo l'assicurazione non avrebbe coperto quei danni, non quelli di un cuore calpestato, di un corpo violato o di arti percossi. Leo? Un dramma adolescenziale. Un copione. Una nebulosa. Thomàs l'inferno. Una roulette russa.
 
Chiuse la porta blindata e la sua vecchia vita dentro. Sul pianerottolo, sentì le lacrime rigarle il viso, abbassò lo sguardo per non darsi spiegazioni e abbozzò un sorriso. Conosceva la paura della sconfitta, del giudizio, dei pettegolezzi, degli insulti. Pensò all'aragosta e tutto le fu chiaro. Non avrebbe fatto la sua fine. Stare in quella casa e in quel rapporto l'avrebbero condotta alla morte.
 
- Sara dai andiamo! Ci sono altre vasche da vedere. Guarda quella laggiù dei cavallucci marini - le disse l'insegnante. E scoprì dopo pochi passi una meraviglia: creature incantevoli, apparentemente fragili, stavano compiendo la danza del corteggiamento e si stavano accoppiando. Che spettacolo! La delicatezza di un movimento sinuoso, il fluire nell'acqua insieme avvinghiati per la coda, un danzare sulle onde dei loro suoni, un librarsi su nella vasca per poi scendere insieme e cullarsi.
 
- Il mondo è questo: una meraviglia dietro ogni angolo. Basta fare qualche passo. Osservare. Prestare attenzione. Non restare nello stesso posto - le sussurrò la professoressa.
Quell'uscita con la classe, la dodicenne Sara non la dimenticò mai.
 
A volte nel vivere la vita succede che una musica lisergica possa confonderci e condurci nelle braccia sbagliate. Sara era stata una vittima. Da qualche parte nel mare ci sono sempre le aragoste che ci mostrano le difficoltà per quello che sono: una crescita per andare avanti e scoprire proprio lì dove non stavamo guardando i cavallucci marini. Così Sara si licenziò, si allontanò dalla sua città natale, comprò con alcuni risparmi un bilocale all'asta con qualche lavoretto da fare non avendo a disposizione molti soldi. Non disse a nessuno di questo colpo di testa. Voleva che la sua muta le portasse un cambiamento reale. Una rinascita. Aveva paura? Un po'. D'altronde le cose difficili si fanno da soli.
 
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Lucia Esposito

Lucia Esposito, toscana d'adozione da quasi trent'anni, è insegnante di lettere a Livorno, nonchè formatrice presso la propria scuola. Si occupa da sempre di ragazzi adolescenti. E' riuscita ad unire il suo lavoro al suo interesse principale: insegnare la passione per lo studio attraverso la creatività, la ricerca e la tecnologia. Ama ritirarsi tra il verde a prendersi cura delle piante e dei suoi racconti.
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