16/02/2011
Erodoto, considerato da Cicerone il padre della storia, è vissuto in Grecia durante il V secolo a.C. e ci ha lasciato una monumentale opera letteraria che tratta del conflitto greco-persiano. Nella narrazione delle sue Storie – questo il titolo dell’opera – Erodoto procede su due piani differenti e paralleli: quello storico-geografico, che coincide più o meno con la nostra idea moderna di storia, intesa come narrazione dei fatti politici e militari, e quello antropologico ed etnografico, ovvero una serie di interessanti digressioni sugli usi e costumi dei vari popoli barbari. Ed è proprio questo secondo piano narrativo che oggi ci può suggerire delle interessanti riflessioni riguardo al nostro tempo. Secondo Erodoto infatti ogni popolo possiede i propri "nòmoi”, ovvero le proprie usanze, norme e credenze; e non esiste dunque un sistema di valori assoluto: l’idea del bene e del giusto varia da paese a paese e da popolo a popolo. Riguardo a tale relativismo culturale Erodoto ricorda, infatti, gli antropofagi (mangiatori di uomini) che nel loro agghiacciante cannibalismo, finalizzato alla sepoltura dei defunti, non fanno altro che seguire la loro idea del bene e del giusto, ovvero i loro “nòmoi”. Questo relativismo culturale erodoteo può dunque indurci a riflettere su quel fenomeno a noi contemporaneo della così detta “esportazione della democrazia”. Questa espressione è stata spesso usata per descrivere l’impegno degli Stati Uniti d’America e della comunità internazionale per la risoluzione di difficili scenari politici quali quello afgano ed iracheno.
Ma la democrazia – ci viene da chiederci alla luce delle pagine di Erodoto – è veramente qualcosa di esportabile? Per l’occidente il sistema democratico è ovviamente un bene assoluto e nessuno potrebbe certo negarlo. Ma in tutti i paesi nei quali la democrazia è ben salda, essa è nata dal popolo, dalla volontà e dal sentimento comune. Per fare un esempio, l’Italia, prima di approdare alla democrazia, ha visto le guerre per l’unità, il regno, la dittatura e la resistenza. La nostra democrazia è figlia del sentimento popolare, degli eventi storici e dei molti caduti che hanno dato la vita per la libertà. È il risultato di un percorso lento, sanguinoso e fortemente voluto. E sono proprio gli avvenimenti internazionali di questi giorni che ci inducono a riflettere sul concetto di democrazia, intesa unicamente come necessità popolare veramente avvertita dalle masse. Le rivoluzioni attualmente in corso nel nord Africa sono la conseguenza di un bisogno endogeno di libertà e cambiamento realmente avvertito dai popoli. Realtà come l’Afghanistan, invece, si sono viste sostituire meccanicamente e in breve tempo il loro sistema tribale con quello democratico. Alla popolazione afgana, direbbe Erodono, al giorno d’oggi manca ancora il “nòmos” della democrazia, ovvero il suo stesso concetto, la sua stessa categoria di pensiero. Là dove dunque la democrazia non nasca dal sentimento popolare come esigenza veramente sentita, essa non è necessariamente un bene, poiché – come si legge nelle Storie – ogni popolo ha i propri “nòmoi”, le proprie norme ed una propria concezione del giusto e del bene, non esistendo affatto un sistema di valori assoluto che sia valido sempre ed ovunque.
Dario durante il suo regno, chiamati i Greci che erano presso di lui, chiese loro a quale prezzo avrebbero acconsentito di cibarsi dei propri padri morti: e quelli gli dichiararono che a nessun prezzo avrebbero fatto tale azione. Dario allora, chiamati quegli Indiani detti Callati i quali divorano i genitori, chiese, mentre i Greci erano presenti e seguivano i discorsi per mezzo di un interprete, a quale prezzo avrebbero accettato di bruciare nel fuoco i loro genitori defunti: e quelli con alte grida lo invitarono a non dire simili empietà. Tale è in questi casi la forza della tradizione, e a me sembra che Pindaro abbia fatto affermazioni giuste nei suoi poemi, dicendo che la consuetudine è la regina di tutte le cose.
Erodoto – Storie III, 38, 3-4
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