“Siena è una Venezia senza l’acqua. Valdarbia come in Cornovaglia e Radicofani è dimora di fantasmi”. Parola di Charles Dickens

Luigi Oliveto

14/02/2012

Lo scorso 7 febbraio l’Inghilterra ha ricordato con varie iniziative il bicentenario della nascita di Charles Dickens. Il principe Carlo, insieme a Camilla duchessa di Cornovaglia, ha varcato il solenne portale dell’Abbazia di Westminster con il cipiglio consono all’evento e ha deposto una corona di fiori sulla tomba dello scrittore che riposa nel Poets’ Corner accanto ad altre celebrità quali Shakespeare, Browning, Chaucer, Kipling. L’attore Ralph Fiennes ha letto alcune pagine del popolare romanziere il cui successo fu legato a storie come quelle di “Olivier Twist” e “David Copperfield”. Tanta, appunto, la sua popolarità, inversamente proporzionale ai giudizi della scorbutica critica a lui contemporanea che ebbe a catalogarlo come autore di feuilleton, rimproverandogli una scrittura poco vigilata, fatta di eccessi, cadute di gusto, moralismo, insistenza su registri patetici e ad effetto. Tuttavia Dickens resta il maggiore narratore inglese (e non solo) del suo secolo. Creò il cosiddetto romanzo sociale, nel quale seppe far confluire e sviluppare due filoni della narrativa inglese: la tradizione picaresca di Defoe, Fielding e Smollett e quella sentimentale di Goldsmith e Sterne. E non a caso, proprio durante la cerimonia dei giorni scorsi, il reverendo John Hall, decano di Westminster, ha ricordato “lo straordinario impatto che ebbe nell’età vittoriana l’umanità e la compassione dell’autore verso il mondo della povera gente”.

Una Venezia senza l’acqua
- Dickens fu anche viaggiatore attento e curioso. Tra il 1844 e il 1845 soggiornò a lungo in Italia, visitando diverse città tra cui Siena. I resoconti di quel lungo soggiorno furono raccolti nel libro “Pictures from Italy” pubblicato nel 1846. Turista-fai-da-te con famiglia al seguito, transitò in terra senese proveniente da Pisa e alla volta di Roma. Giunse nella “bella e vecchia città di Siena” in una sera di Carnevale, ma a suo dire la festa consisteva esclusivamente nel continuo andirivieni, lungo la via maestra, di malinconici individui “che indossano comuni maschere comprate alla bottega”, e in considerazione del fatto che costoro gli appaiono “più malinconici, se ciò è possibile, dei loro confratelli inglesi”, altro non annota di quel mesto e monotono struscio sul Corso. Il giorno successivo mister Charles fa il percorso di rito tra piazza del Campo e il Duomo. I suoi canoni artistici di riferimento sono tali da lasciarlo un po’ disorientato dinanzi alla Cattedrale che definisce “oltremodo pittoresca, sia all’esterno che all’interno, specie all’esterno”; e pure della “Piazza grande” si limita a osservare la presenza di “case gotiche e strambe”, oltre ad “un’alta torre quadrata in mattoni, al di fuori della cui sommità pende – curiosa caratteristica di certe viste italiane – un’enorme campana”. Della visita senese, il taccuino di Dickens non registra, insomma, niente di esaltante, se non una efficace immagine che sintetizza la visione di Siena “come un pezzo di Venezia, senza l’acqua”. Felice connotazione che nel secolo successivo sarebbe stata ripresa anche da altri scrittori tra cui il veneziano Diego Valeri, il quale, citando a sua volta Franco Sacchetti, afferma che “Venezia è ‘in acqua sanza mura’; Siena è ‘in mura’ senz’acqua”. Nei primi decenni del Novecento si diffuse talmente la similitudine fra le due città coniata da Dickens, che un anonimo fotografo si divertì a realizzare gustosi fotomontaggi, stampati poi in cartolina, dove l’acqua sciabordava su porta Camollia, le gondole erano ormeggiate sotto gli archi della Galluzza e i palazzi Buonsignori, Piccolomini, Tolomei sembravano affacciarsi sul Canal Grande.

Arrosti, vino e briganti - Ma torniamo alle pagine dickensiane. La carrozza dei Dickens riparte da Siena verso Roma. Il brullo paesaggio della Val d’Arbia lascia nuovamente interdetto lo scrittore inglese. Parla di “campagna alquanto desolata”, di “luoghi sempre più selvaggi” che gli ricordano “i toni di squallore e di solitudine delle brughiere scozzesi”. Finché non si ferma, per la notte, alla locanda della Scala (probabilmente nei paraggi di Buonconvento), “una casupola assolutamente isolata, dove la famiglia sedeva attorno a un bel focarone in cucina […] grande abbastanza per arrostirci un vitello”. A giudicare dalla descrizione di mister Charles la struttura alberghiera non doveva essere proprio il massimo del comfort. Al piano superiore quattro stanzette buie fungevano da camere e in quella penombra sinistra si aggirava una cameriera che “somigliava alla moglie di un brigante da commedia”. Come se ciò non bastasse, fuori “i cani abbaiavano come matti” e “l’eco li ricambiava senza parsimonia”. I pensieri prima del sonno furono che “nel giro di dodici miglia non c’era altra dimora e qui le cose avevano un’aria fosca, da tagliagole”. La narrazione non è certo immune dal vezzo di romanzare la realtà o, forse, dai postumi di una cena che, dalla lista delle pietanze riferite dallo stesso Dickens, risulterebbe essere stata consistente: “minestrone di verdure, pollo, piccione in stufato con il ventriglio e i fegatini suoi e di altri volatili che gli fan da contorno, carne arrosto della misura di un rollè francese”, E per finire – ma probabilmente il viaggiatore inglese si aspettava qualcosa di meglio e di più abbondante – “una scheggia di parmigiano e cinque melucce raggrinzite aggroppate tutte assieme in un vassoino, l’una sull’altra, come se in questa maniera volessero sfuggire all’eventualità di essere mangiate”. Venne versato, ovviamente, anche del buon vivo, confermato dal fatto che il clima si era fatto allegro e ciarliero. A tavola furono evocati episodi recenti di brigantaggio accaduti da quelle parti, imboscate a danno di viaggiatori, assalti alla diligenza postale. Ma l’ultimo bicchiere prima del caffè e della buonanotte andò a lubrificare la frase più ovvia e rassicurante per tutti: “ciò non era affar nostro, visto che portavamo ben poco con noi da farci confiscare”.

La casa dei fantasmi
- Di buon mattino la famiglia Dickens si rimette in viaggio lungo l’antica Cassia. Cielo plumbeo, una campagna che continua a presentarsi “sterile, petrosa e selvaggia come la Cornovaglia”. Prossima tappa, Radicofani. E qui l’autore di “The haunted man and the gost’s bargain” (“Il patto col fantasma”) ha ancora di che sbizzarrirsi nel suo racconto, perché “la locanda è spettrale, fatta per i folletti”. Ciò che era stato casino di caccia dei Granduchi di Toscana, appariva ora come “un succedersi di anditi storti e di nude stamberghe”, tant’è che a giudizio dello scrittore era indubbiamente quella la dimora che “aveva dato origine a tutti i racconti di fantasmi”. Location perfetta, insomma: “frusciar di vento, cigolio continuo, brulichio, crepitio, aprirsi di porte, scalpiccio per le scale”. Sortito da quell’immaginoso incubo, Charles stipa tutti in diligenza e muove verso la frontiera dello stato pontificio. Il meteo annunciava brutte cose. Belle, comunque, per arricchire il suo quaderno di viaggio. Ecco, infatti, alzarsi un vento tremendo che spingeva su un fianco della carrozza in maniera così forte da poterla rovesciare. Non senza qualche risata la famigliola ridistribuì i pesi di persone e bagagli in maniera da controbilanciare la spinta. Il vento è gelido, il cielo cupo. Lo scrittore fa memoria di questa avventura con toni da tregenda, così che “la bufera poteva competere con una tempesta dell’Atlantico” riuscendone vittoriosa; “c’erano masse di bruma che veleggiavano a velocità incredibili”. Quindi conclude con piglio letterario: “Era buio, spaventoso, solitario al massimo grado; c’erano montagne su montagne, velate da colleriche nubi; e c’era ovunque una tale foga piena d’ira, rapida, violenta, tumultuosa, da rendere la scena indicibilmente grandiosa ed eccitante”.

Una paura vera
- Dickens scrisse fantasiosamente di aver temuto, in tale circostanza, che sollevati dal vento avrebbero potuto “essere trasportati al mare o nell’etere”. Purtroppo, vent’anni dopo, qualcosa di simile gli accadrà veramente. Il 9 giugno 1865 si ritrovò drammaticamente coinvolto nell’incidente ferroviario di Staplehurst. Sei carrozze del treno sul quale anche lui viaggiava precipitano da un ponte. L’unica a rimanere sospesa sul vuoto è quella di prima classe in cui sedeva lo scrittore di ritorno dalla Francia (era stato a trovare l’amante, l’attrice Ellen Ternan). Chissà se ripensando al terrore vero di quel frangente, gli saranno venuti in mente i precipizi di Radicofani o i più rassicuranti saliscendi della città di Siena, quasi “un pezzo di Venezia senza l’acqua”.

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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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