I silenzi dell’esilio. A Pienza la mostra fotografica di Nadia Berkani

il 01/04/2009 - Redazione

Saranno le sale di Palazzo Piccolomini a Pienza ad ospitare la mostra fotografica di Nadia Berkani “I silenzi dell’esilio”. Le opere saranno in esposizione da sabato 4 aprile (inaugurazione ore 16,30) a martedì 5 maggio.

La mostra - Nadia Berkani, artista visiva franco-algerina, ha passato un periodo di residenza (2007/2008) all’Istituto Francese per mettere a punto un nuovo progetto fotografico dedicato all’esilio. Ispirate al film di Tarkovskij “Nostalghia” (1983) e ambientate nelle campagne della Val d’orcia, intorno alla città di Pienza, le opere hanno subìto la contaminazione dalla pittura toscana, in particolare del cromatismo e dell'uso della luce di Beato Angelico e dell’Annunciazione di Botticelli, contenete la trinità. Il progetto, che si è sviluppato in una mostra fotografica con 9 opere di grande formato (107x160) stampate su alluminio, di cui tre raccolte in un trittico, è animato dalla figura di una danzatrice, che, con la sua presenza, anima il paesaggio e allo stesso tempo suggerisce una sensazione di solitudine e straniamento che rimanda al concetto dell’esilio.

La libertà melanconica di Nadia Berkani – “C’è nelle visioni di Nadia Berkani una virtù che più d’altre m’incanta. E m’avvedo ch’è la medesima – magari declinata in eloqui diversi, e però paralleli – sottesa alle mie predilezioni nei riguardi d’ogni espressione poetica. È quella che, per esempio, mi fa amare taluni pittori fiorentini che, pur impegnati in una figurazione naturalistica della realtà, riescono a trasfigurane le sembianze come fossero epifanie dietro veli di sensi o di memorie. Per quelle loro personali espressioni m’è occorso di parlare di sospensione d’affetti; o di silenzi lunghi; o di tempo assorto. Il fluire lento delle ore; quasi fosse possibile percepirne il flebile tragitto: fruscìo di refoli freschi tra le foglie. E i fondali che slontanano sotto cieli alti. Sono gli stessi caratteri che mi commuovono nelle pellicole dell’est europeo: le lande deserte e scabre dove Andrej Zvyagintsev dispone i taciturni attori del Ritorno. O nella cinematografia dell’oriente estremo: il muto calare di tempi interminabili nell’Arpa birmana di Kon Ichikawa. Oppure in quella italiana che si specchia nelle parole bisbigliate e nelle nebbie assorbenti dell’Albero degli zoccoli d’Ermanno Olmi, così come nel silenzio assolato della piazza che Michelangelo Antonioni si finge allo scadere di Professione reporter. È una condizione dell’animo capace di render consentanei uomini che potrebbero non incontrarsi mai, ma che lo stesso (in virtù d’essa) entreranno in una comunione di sentimenti forte come una catena. E sono proprio quei sentimenti che ho percepiti limpidi e netti al cospetto delle foto che Nadia Berkani m’ha mostrato in vista dell’esposizione attuale: poche immagini (altre poi sarei andato a cercarmene per una conferma) con aperture su terre verdi o fiorite, aspre di zolle in primo piano e perspicue di cromie fin verso l’orizzonte, tremulo invece d’alture dolci, sotto l’azzurro d’un etra ora sfibrato di vapori, ora turbato di nembi incombenti. In tutte: la figura d’una donna che, da sola si muove in una danza tutta sua, appartata e discreta; e, come per un risveglio (lo sboccio spontaneo d’una calla o la metamorfosi d’una falena), s’erge da una postura raccolta e ripiegata fin a levarsi in piedi, librandosi in una levitazione di quieta cadenza a spirale. Per poi sfilarsi la veste: ultima reliquia della creatura che era e non è più; ora che la nudità la restituisce, affrancata, alla natura; libera, d’una melanconica libertà. Al luogo della sua nuova stagione, la donna perviene traversando campi di fiori gialli a distesa; ma così pudico è il suo transito, e lieve, che quasi non ne resta un’orma. Li trascorre ancora coperta d’una veste leggera, impreziosita da decori carpiti agli abiti d’un figurante uscito dalla calca d’una tardogotica sequela di magi. Mai ci concede il volto; che solo nell’attimo effimero d’uno scatto del corpo (a tal segno fugace e inavvertito che l’obiettivo ne sfoca i contorni, e i capelli svaporano nel volo) lascia trapelare il profilo pensoso. Con invenzione lirica, poi, su in alto, s’allunga appena percettibile, in cima al prato (defilata), una lingua d’azzurro, dove mite si stampa la chioma d’un pino solitario. E di colpo traluce l’evenienza d’una felicità inattesa."
Testo critico di Antonio Natali, direttore Galleria degli Uffizi di Firenze

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