A colloquio con Filippo Nibbi, il poeta che Rodari “infettò” con la parola

Massimiliano Bellavista

29/01/2021

Franco Loi, che ci ha lasciato di recente, teneva sul comodino una copia del suo poema, Parlando di mio nonno Polifemo pubblicato nel 1973. Rodari lo considerava un prezioso collaboratore, tanto che curò il suo ultimo libro, uscito postumo. Lui è uno scrittore insolito, imprevedibile, difficile da incasellare in un genere. Stiamo parlando di Filippo Nibbi.

Strana opera Parlando di mio nonno Polifemo. Scritta in decasillabi, un verso piuttosto raro. Ancora più raro è ascoltare qualcuno che ancora sa leggere (leggere, non declamare) una poesia. Siamo nel suo appartamento, nel centro di Arezzo, una casa ricca di memorie, libri, quadri e fotografie.
Filippo, in questo pomeriggio invernale, mi legge il Polifemo a volte quasi sussurrando, a volte battendo il tempo con il piede sinistro.  Le parole corrono, si fermano, tornano a fluire e (come dovrebbe essere) il suo canto aggiunge alle loro frequenze timbri e significati che non sono sulla carta, ma tra le righe.  Dice che non c’è niente da fare, le mie poesie le devo leggere io.

Matematico e fisico di formazione, Nibbi è poeta nel senso più autentico del termine; dice, rifacendosi a Dante, che ogni Poeta è una Sibilla (Così la neve al sol si disigilla, / così al vento nelle foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla”). La sua scrittura si potrebbe definire probabilistica, quantistica, nel senso che nasce, per certi versi come quella di Rodari, dallo scontro di parole che, come particelle elementari, da questa collisione liberano qualcosa di nuovo e sconosciuto. È questo in breve Filippo Nibbi. Qualche anno più degli ottanta (non vogliamo subito dire quanti) portati con grandissima lucidità, creatività e vivacità intellettuale. Nella stanza che ospita la sua biblioteca, nel centro di Arezzo la letteratura si respira. Si tocca. Si sente.  La sua lettura galoppa e si riverbera sui muri, sulle finestre, sui tavoli ingombri di carte.

La mia terra conosce i bei volti
e i dolori coperti di vigne.
I paesi le stanno a ridosso
come tante pietruzze celesti:
la mia terra conosce quei sassi
che non hanno potuto riempirla.
 
Veglieremo su tutti una volta:
i cipressi ne sanno qualcosa.
La mia terra lo disse ai suoi morti,
e i suoi morti le danno ragione:
c'è chi vive imbiancando di dentro
catapecchie ridotte a presepi.
 
Chi avvicina i paesi di notte
può trovare le pietre al suo posto.
(…) Molte case finiscono in niente
perché l'alba non crede più a loro.
Le finestre rimangono chiuse
anche quando la luce ci batte.

Le parole per Nibbi sono importanti. Cita Vico e le sue picciole metafore. Vico che per primo affermò che la metafora è la forma originaria del linguaggio, ciò che è necessario ad afferrare e sedimentare la conoscenza, umanizzandola con immagini come il sole ride.

Vede, mi ricordo che una volta, con Rodari, un bambino osservando la pancia della mamma, in dolce attesa, disse ‘Toh, un panciullo’.  I bambini, dice, sono fantastici, perché possiedono innata questa capacità metaforica alla base del linguaggio, questa abilità di creare che poi col tempo viene sviata, repressa e a volte frustrata da una scuola e da una società che ci vuole ‘razionali’. Ma lui stesso è in questo senso ancora bambino, un ‘acceleratore di parole’ che fa scontrare di continuo. Mi esorta anche qui, ora a giocare con lui. Del resto anche il termine che inconsapevolmente ho scelto, ‘bambini fantastici’ è anch’esso in qualche modo figlio della razionalità e dell’Illuminismo. Prima dell’Illuminismo avrei forse detto ‘bambini meravigliosi’, perché per gli uomini di quel tempo l’immaginario, l’irreale’ era o poteva essere a buon diritto parte della realtà. Solo dopo, con la parola ‘fantastico’, abbiamo imprigionato e relegato la nostra fantasia su di un altro piano, come si fa con un ospite tollerato ma imbarazzante, sottolineando con ciò che eravamo diventati ‘razionali’, e forse anche un po’ più tristi e disillusi.

Sta bene sembra dirmi Nibbi, non c’è problema. Lui in fondo con le parole ci gioca da una vita. Rodari, nella primavera di quel lontano 1979, quando fece visita in una scuola di Arezzo per parlare della sua idea di scrittura, lo ha ‘infettato con la parola’. È proprio questo il termine che usa. La parola è un virus, ma di quelli buoni. Nibbi dice di sé stesso di sentire nelle sue vene sangue contadino ma in lui c’è anche la fierezza della nobile bisnonna. Nasco in casa Angori, dove la capocasa è la bisnonna Emilia Ugurgieri, di Siena. Era giunta a Camucìa con un paggio, Generoso. La sua famiglia apparteneva a quella Magistratura di Siena che aveva costretto Carlo V a entrare in città appiedato Gli piace parlare del suo passato, ma sempre in senso non retorico ma costruttivo, per pescarvi quanto serve ad illuminare un angolo di futuro.

Rodari quel 23 marzo di molti anni fa incontrò e lavorò alacremente circondato dall’entusiasmo di quei bambini che ora sono cinquantenni, e allora formavano gli alunni di una classe quinta elementare e una prima media. Rodari in quegli anni girava l’Italia, vedeva quel suo modo speciale di narrare e scrivere come una missione, la missione di divulgare la fantasia. Per quegli incontri poneva due sole condizioni: la prima era quella di non lavorare con nessun altro che i bambini e qualche insegnante, la seconda era quella di non registrare alcunché di quegli eventi. Condizioni rispettate senza eccezioni, almeno fino a quella primavera del ’79, quando invece si registrò tutto su nastro.  A me lo permise perché intuì che sapevo lavorare con le parole, mi dice Nibbi. Nibbi capisce che quella esperienza potrebbe diventare un progetto, un ideale complemento operativo della Grammatica della fantasia. A gennaio del 1980 in questo senso Rodari scrive a Nibbi ma sfortunatamente poco dopo, nell’aprile 1980 lo scrittore muore. Ed ecco che quelle sbobinature diventano preziosissime, costituiscono quel contributo che confluisce nel libro Esercizi di Fantasia, che esce grazie al lavoro di Nibbi appena un anno dopo, nel 1981.

Mi trovo qui perché sono rimasto colpito dall’articolo comparso su un quotidiano qualche giorno prima, che a un certo punto recitava: Filippo Nibbi cambia casa e regala una buona parte della sua biblioteca. Una lunga lista di libri, di ogni genere, dalla quale scegliere per arricchire il proprio bagaglio, basta fare una telefonata. Una cosa inusuale, un atto di generosità e di fede nella lettura e nella cultura; mi chiedevo come gli fosse venuta l’idea, e se qualcuno avesse raccolto l’invito. Gli telefono e il giorno dopo sono da lui. Ci sono tre giovani a piano terra. Aspettano con pazienza. A quanto pare non sono gli unici, i libri di Nibbi forse popoleranno molte e varie biblioteche, come scintille che si propagano di focolare in focolare. È una cosa confortante saperlo.

I libri del resto sono essi stessi una metafora. Secondo Nibbi, una metafora della propria ignoranza. Sulle prime non capisco, ma poi afferro tutta l’originalità di quel punto di vista. Più sono, dice Nibbi, più evidentemente c’era bisogno di colmare dei vuoti. È vero, non ci avevo pensato. Ma sono anche la prova di una incolmabile curiosità che mantiene tuttora Nibbi entusiasta e assetato ricercatore di tutto e su tutto. La gente viene, e si ferma a parlare con lui, che gli legge brani delle sue opere alternandoli in modo inscindibile ad episodi della sua vita. Sembra lui la Sibilla di cui parlava e forse in quei libri che ora viaggeranno chissà dove c’è da qualche parte un suo personalissimo oracolo.

Anni prima, anche Rodari come Loi aveva letto quel suo poema, Parlando di mio nonno Polifemo. Per cui tutto il gioco ad Arezzo fu strutturato come nonsense, iniziò con “Ho conosciuto un tale/un tale di Arezzo/ che mangiava sua nonna/ e provava ribrezzo”. Ma sono molti e assai diversi gli scritti di Nibbi, figli di varie epoche, ma sommamente di un’Italia in cui ogni libro nasceva tra la gente e svolgeva una precisa funzione portando valore nel contesto sociale. E tutti sono particolari, interessanti e leggibili i suoi testi, su più piani sensoriali e temporali. Come del resto le sue letture e riletture, ad esempio quella dell’Alice di Carrol ne Il Cappellaio matto.  Tanto materiale è disponibile online, ad esempio sul suo sito personale, http://filipponibbi.altervista.org/
Gli auguriamo di proseguire il suo lavoro e di continuare a spiazzarci, continuando a cavare storie originalissime e parole nuove dove gli altri vedono solo linguaggio comune routine, come scintille dalle pietre focaie.
 
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Massimiliano Bellavista

Massimiliano Bellavista
Massimiliano Bellavista è consulente di direzione, blogger (www.thenakedpitcher.com) e docente di Management strategico presso l’Università di Siena. Vincitore di premi letterari, suoi racconti e poesie sono pubblicati su riviste e antologie. Scrive una rubrica fissa per la rivista stroncature.com. Tiene regolarmente seminari di scrittura e in merito alla valorizzazione ed alla comprensione del libro antico come bene letterario e culturale. A Siena anima la scuola di scrittura Recensio. Riguardo alle sue opere di narrativa, poesia e management, pubblicate in italiano ed in inglese, tra le più recenti ricordiamo: Le reti d’impresa (Franco Angeli, 2012); Anatomia dell’invisibile (Tabula Fati, 2017); L’ombra del Caso (Il Seme Bianco 2018) e The Naked Pitcher (Licosia 2018); Dolceamaro (Castelvecchi 2019); Marketing e management degli impianti sportivi (Azzurra 2019); Vertical Farming (Licosia 2019)
 
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