Allergia

Clelia Pettini

25/05/2020

Ha parcheggiato a pochi metri dalla casa della sua infanzia. È uscita dalla macchina diretta in ufficio, a una traversa di distanza dalla via dove è cresciuta, e subito, intenso, è arrivato il profumo un po’ rancido delle susine rosse cadute sul marciapiede, pestate da passi pesanti, alcune, da piedi che invece si muovono veloci, altre. L’aria è ancora fresca, ma si sente, in potenza, il calore della giornata estiva e quella sensazione sulla pelle, quell’odore nelle narici ancora un po’ chiuse dall’allergia, la riporta a mattine di trent’anni fa. Niente sembra cambiato nel circondario: non la luce, che prorompe sicura nella via spaziosa, né le facciate delle case, che hanno stinto i loro colori ma sono sempre là, con finestre aperte e chiuse, persiane abbassate, qualche tenda che svolazza fuori dalle ante di legno chiaro nel palazzo dove viveva Alessio, prezioso compagno di scorribande. Percorre i pochi metri che la separano dal cancello di casa e le sembra di riconoscere ogni crepa della pavimentazione. Sarebbe tentata di riprendere il vecchio gioco (salta le crepe con il piede destro, salta i tombini con il piede sinistro, senza rallentare il passo), solo che al suo fianco non c’è la nonna, né la sorella Irene che trotterella dietro di lei.
 
Butta uno sguardo al piccolo cortile di cui conosce ogni angolo. Alle finestre cieche delle cantine che erano le stanze delle sue bambole nei lunghi pomeriggi di giochi con le amiche del palazzo, ai mattoni che incorniciano le due aiuole, e decide che l’ufficio in questo suo ultimo giorno di lavoro può aspettare ancora qualche minuto. Pensa che se ripercorrerà il “tragitto della spesa” si sentirà meglio e così fa: come se le botteghe fossero sempre le stesse e offrissero gli stessi prodotti alle solite persone. Parte dal cancello di quella che era la sua casa, svolta a destra e ancora a destra costeggiando le villette liberty di via Gorizia. Di nuovo a destra e si trova di fronte la porta del generi alimentari di Sandro, che non è più un uscio all’inglese, di legno chiaro, ma un moderno portoncino di vetro oscurato e acciaio grigio, che si apre su un’agenzia immobiliare quasi sempre deserta, da quando è iniziata la crisi del mercato. Prosegue ancora e sfila accanto al negozio di estetica, che un tempo era la cartoleria Banfi, dove ogni mattina comprava una sorpresina - una penna, un lapis, di norma, i begli animaletti della Maricart quando la nonna risparmiava qualcosa in più sulla spesa. Svolta di nuovo a destra, ignora il fondo d’angolo, oggi sfitto, che vede ancora pieno di macchine da cucire, rotoli di filo di scozia e lana colorata e arriva alla Frutta e Verdura. Che è sempre là, esattamente, come era, ma Norbertina, adesso che il negozio di alimentari ha chiuso, tiene anche qualche scopa e prodotti per la casa.
 
Sarebbe tentata di entrare e comprare una mela. Ma dovrebbe farsi riconoscere dalla titolare e oggi, lo sa, non resisterebbe alla commozione. Prosegue quindi per tornare a casa - attraversa ignorando le strisce, passa la villa di Beatrice, con il bell’arco di rose che sovrasta l’inferriata - e si ritrova davanti al cancello in ferro che un tempo era bianco e oggi è ridipinto di un grigio chiaro. Le piacerebbe poter entrare almeno nell’androne, certamente fresco come lo ricorda anche nella calura estiva, prendere la porta a destra, sedersi al tavolo nero della cucina e addentare la pizza di Baccinello, unta e croccante, che è stata la colazione per centinaia di mattine della sua infanzia. Ma la scelta di ripercorrere a ritroso il tempo - e la strada - non è stata poi così felice: la malinconia è ancora più forte, così come il senso di stordimento, e l’unica cosa che percepisce chiaramente sono i tonfi ritmici del cuore nel torace. Pensa che nonna certamente si è accorta che non stava bene quando è passata a casa sua due giorni fa. Si pente di non aver saputo mascherare… ma non riesce a nascondere mai le emozioni, che le escono in faccia e si posano sulle guance, si riconoscono nelle pieghe che prende la bocca, nelle dita che stuzzicano i cristalli di vetro alle orecchie. E oggi è la chiusura di un ciclo e l’apertura di infinite possibilità. La fine di un percorso che non le dà più modo di crescere, ma svilisce la sua fantasia. Eppure i cambiamenti, anche quelli positivi, non li ha mai saputi affrontare bene e la sensazione di precario che sente sotto ai piedi non aiuta. Sarà per questo che ha ripercorso una strada tanto nota: per cercare in quel che è familiare gli appigli per stare meglio.
 
Mentre la confusione, data dalla malinconia mista a un po’ di ansia, l’assale, dalle sbarre del cancello si insinua un gattino rosso. Sembra il gatto randagio che viveva nel cortile interno del palazzo quando era bambina e che i bambini si divertivano ad accudire. E forse, in qualche modo, sarà un discendente di quel micione che chiamavano Marcolino. Il micio le si druscia contro un polpaccio e resta sorpresa perché i gatti, di solito, sentono che non c’è troppa affinità. A causa della sua allergia al loro pelo, crede, che scoperta durante l’adolescenza l’ha portata a capire il forte disagio che ha sempre provato nelle case vissute dai gatti. Le viene spontaneo, però, chinarsi e fargli una carezza. Starà attenta a lavarsi le mani appena entrata in ufficio e resistere dall’impulso di toccarsi il viso, gli occhiali, le labbra, nel breve tragitto. Si avvia lungo la strada appena percorsa per affrontare le ultime ore di lavoro in quel luogo. Il gattino le fa compagnia. Prova a fermarlo, cerca di distrarlo, di confonderlo cambiando strada, ma lui insiste, la coda sottile tesa, che ondeggia insieme alle piccole anche, mentre allunga il passo per tenere quello di lei. Si salutano davanti al portone di legno crepato. Lo invita a tornare a casa e le scappa un’altra carezzina su quella testa piccola. Entra in ufficio con una nuova carica: il micino rosso le ha restituito un po’ di serenità, ha placato con il suo incedere baldanzoso un po’ in contrasto con il corpicino esile, da micio giovane, quell’angoscia che sentiva dal risveglio.
 
La mattinata lavorativa scorre via lenta e malinconica. Finisce di scrivere una specie di memoriale, per il passaggio di consegne a chi arriverà dopo di lei, si accerta che il trasferimento delle migliaia di file dal suo computer al server sia andato a buon fine. Ogni tanto un collega si affaccia per un saluto e lei fa finta di non notare in molti di loro l’imbarazzo. L’imbarazzo del posto sicuro contro quello precario, o dell’umana soddisfazione che il contratto che finisca non sia proprio il loro? Un disagio che non vorrebbe che provassero, perché alla fine il cambiamento fa parte della sua professione, ormai, e l’idea del posto fisso l’ha sempre spaventata: quella immobilità del “per sempre” che non ha temuto nelle scelte personali di vita e che quando pensa a certi impieghi, invece, la fa sentire subito senz’aria.
 
Aspetta che quasi tutti escano per lasciare l’edificio. Non ha voglia di saluti approfonditi, i due o tre abbracci che ci sono stati le hanno fatto salire le lacrime agli occhi e il suo obiettivo, oggi, è non cedere alla tristezza. Sa che se aprisse la via alle lacrime, non riuscirebbe ad arrestarle, che mischierebbe questa sensazione di fine agli altri punti interrogativi che affollano la sua coscienza e arriverebbe sconvolta e sgradevole a casa. Apre il portone con cura – ha sempre paura che la maniglia si rompa o il legno si scheggi più di quanto già non sia – fa un passo sul selciato e, con un balzo leggero, vede il gattino arrivare. Era accucciato in un angolo, in attesa. Si avvicina allegro e di nuovo fa il gesto di accarezzarle, con tutto il suo esile corpo, la caviglia. Lei appoggia la borsa, pesantissima, a terra, e lo tira su con tutte e due le mani. Gli accarezza la testa, in mezzo alle piccole orecchie perfette, e vede un’espressione beata sul suo musino. E rapida arriva una certezza: “Il micio lo porto a casa”, pensa. Troverà il modo di educarlo a non salire sul letto, a non lasciare peli dove potrebbero darle fastidio. Toglierà i tappeti, ché tanto le sono venuti a noia. O troverà il modo di domare la sua allergia, le pare di aver letto da qualche parte che si può fare.
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Clelia Pettini

Clelia Pettini
Clelia Pettini è nata a Grosseto il 6 luglio 1982. Giornalista professionista è laureata in Scienze della Comunicazione e Teorie della comunicazione e tecniche dei linguaggi persuasivi all'Università degli studi di Siena.. Lavora come free lance, occupandosi di uffici stampa e comunicazione per enti pubblici, organizzazioni non profit e privato sociale. Scrive di sociale dal 2008, si occupa di comunicazione di eventi,  comunicazione istituzionale, per associazioni di categoria e sindacati. Collabora con riviste e quotidiani toscani. E' autrice del libro "Anime sospese. Storie di migranti e del loro percorso di accoglienza" (Edizioni Effigi).  Scrivere è la sua passione e da quando è diventata anche una professione non ha mai smesso di farlo.
 
 
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