Andrea Pomella: se un padre lascia il figlio, e il figlio lascia il padre

Luigi Oliveto

04/06/2020

Brutta cosa il conflitto padre/figlio. Odio, frustrazione, accuse, sensi di colpa, desiderio di essere amati e compresi, una vita segnata per sempre. In letteratura la testimonianza più celebre si ha nella “Lettera al padre” di Franz Kafka. Oggi il tema (e il dramma) torna in un libro di Andrea Pomella, “I colpevoli” (Einaudi), romanzo quasi inscindibile dal precedente “L’uomo che trema”. Anche ne “I colpevoli” è con una lettera che un figlio giovanissimo ripudia il padre in modo inappellabile: “condannandoti all’estinzione, rinnegandoti come padre, come radice, come principio di vita.” E a distanza di trentasette anni da uno strappo tanto feroce e traumatico cosa può restare di quel legame? E’ ciò che racconta Andrea Pomella. La ricostruzione di un rapporto che deve riempire il vuoto di tredicimila giorni, da quando, cioè, il padre del protagonista se ne andò di casa lasciando lui, la sorella, la madre per un’altra donna. Ma è pur vero che con quella lettera anche il bambino aveva abbandonato il padre: “Non voglio più vederti”, vi si leggeva. Ora il figlio è diventato a sua volta padre, il padre nonno (sarà proprio il nipotino Mario a voler conoscere il nonno). E il figlio di un tempo cerca di riconnettere un legame, capire gli sbagli, dare un senso a quanto accaduto, fino a voler considerare la parte della propria colpa: «Ho appreso la lingua dei colpevoli e ho attraversato la terra dei traditori. Così ora le nostre parti sono condannate a rovesciarsi incessantemente. Siamo due corpi in lotta, avvinti nell’abisso perpetuo del vuoto gravitazionale». A rischio di farsi male, senza infingimenti, il protagonista avvia uno scavo dentro di sé, per capire cosa significhi veramente tradire, abbandonare. Solo da qui può muovere una pacificazione. O forse qualcosa di più: il perdono.
 
***
 
Dopo trentasette anni di silenzi, di reciproca indifferenza, di rancore, da qualche mese ci rifrequentiamo. Sappiamo ancora poco l’uno dell’altro. Ricominciamo da zero, come due esploratori delle terre vergini. Tu hai sessantotto anni, io quarantaquattro. Sono solo numeri, ma il nostro è stato un cataclisma di portata massima, e in questi casi i numeri, meglio di ogni altra cosa, rendono l’idea del lavoro di ricostruzione che c’è da fare.
Nelle pagine che sto per scrivere troverai cose che non hai mai saputo. Riguardano ciò che stiamo vivendo ora e ciò che abbiamo vissuto in un tempo remoto. Perché non sempre si sa ciò che si è vissuto. Quel che una volta era vita concreta, oggi è una sostanza fragile e vaga, impalpabile come la neve in un globo di vetro.
Ora nel globo vedo una sequenza antica: ci sono io bambino che ti scrivo una lettera, mentre aspetto che passi a prendermi, come ogni giovedì, nei tempi e nelle modalità stabilite dal giudice divorzista. Ci sono le venature del tavolo in cucina, la piega che do alla carta, la tua macchina che spunta oltre la siepe del giardino, il suono del citofono, mia madre che dice: – Sei proprio sicuro di volerlo fare? Perché non ci pensi ancora un po’? –, io che le rispondo che sono sicuro, sicurissimo, e apro la porta e m’incammino, con mia madre che mi scruta dalla soglia, e camminando dissolvo la mia minuscola vita, scendo in guerra con te, venendoti incontro mentre mi aspetti in piedi accanto alla macchina, e mi sorridi ignaro, e io non dico neppure ciao perché sento tutta la forza concentrata in un punto, un piccolissimo punto nella mia coscienza che cattura tutta l’energia, tutta l’angoscia, tutta la commozione, e con un gesto risoluto ti consegno la lettera, condannandoti all’estinzione, rinnegandoti come padre, come radice, come principio di vita.
In quella lettera ci sono scritte quattro parole: «Non voglio più vederti».
Avevo sette anni, e vivevo con la costante sensazione di essermi automutilato, di non possedere più un arto e di rivolerlo con tutte le forze; desideravo di poter tornare indietro nel tempo e riconsiderare la scelta che avevo fatto, di avere a disposizione ancora del tempo per riflettere su quale fosse la cosa giusta, come se l’automutilazione rientrasse nel novero delle cose giuste.
Così una notte ho pensato al contenuto di quella lettera e alle conseguenze che aveva avuto, tenendomi la testa tra le mani, sotto le coperte, per ore. Finché mia madre dalla sua camera non ha udito i miei singhiozzi ed è venuta a sedersi sul bordo del letto cercando di consolarmi.
Ma avevo paura a confessarle il motivo della mia disperazione. Mi vergognavo. E il sentimento amaro della vergogna m’impediva di ammettere la paurosa sensazione che provavo: l’impressione di precipitare in una voragine nera e senza fondo, la consapevolezza improvvisa e definitiva di aver condizionato il resto della mia vita.
– Ti manca tanto? – mi ha chiesto.
La sua era la traduzione del mio sentimento nella lingua prediletta dagli esseri umani, una lingua semplice e patetica che sfrondava il problema di tutte le sue innumerevoli complicazioni, riducendolo a qualcosa di comprensibile a chiunque. La faccenda in questo modo si limitava a una semplice mancanza di affetti. Mi mancava il padre.
Ma no, a me non mancavi tu. Come potevo dirle che dentro di me infuriava una lotta più vasta? E che il futuro mi appariva adesso come un flusso di luce accecante? Un futuro di concreta desolazione, un cupo tempo a venire di cui ero l’unico e diretto responsabile.
Mi sono limitato a risponderle: – Sì, mi manca.
Lei si è grattata la testa e ha guardato l’ora. Era mezzanotte passata. Si è alzata dalla sponda del letto e senza dire una parola ha raggiunto il telefono. Ha alzato la cornetta e ha composto il numero. Ho udito la sua voce roca di sonno che mormorava in corridoio. Poi è tornata e ha annunciato: – Tra poco verrà a prenderti.
Sono uscito dal portone all’una di notte, sotto il giubbotto invernale indossavo il pigiama e un paio di scarpe da ginnastica. Tu mi aspettavi con la faccia stravolta. Non sapevi dove andare. Hai fermato la macchina davanti al cancello della scuola e siamo rimasti in silenzio per molti minuti, col motore acceso che tratteneva il calore.
Tutto ciò che ricordo è che è durato poco. Ho dettato le mie condizioni con freddezza, ti ho comunicato senza mezzi termini che volevo che ritornassi con noi, che non sopportavo più niente e ogni giorno mi sembrava una condanna da scontare. E tu con altrettanta freddezza mi hai risposto che non era possibile, che avevi fatto una scelta e che era meglio così per tutti. Le solite parole. Era passato un anno, durante il quale non ci eravamo visti né sentiti, e ora potevo constatare che non era cambiato niente.
Ho smesso di piangere e ho sentito le lacrime negli occhi trasformarsi in minuscole schegge di ghiaccio. Ti ho detto che allora non avevamo nient’altro da dirci. Ti ho chiesto di riportarmi a casa. Hai opposto una fievole resistenza, mi hai detto che avresti voluto parlare ancora, poi hai rinunciato.
Quando sono sceso dalla macchina non mi sono voltato neppure per salutarti. È stata l’ultima volta che ti ho visto. Nessun contatto negli anni a seguire, in tutti gli anni che sono intercorsi da allora, in tutta la vita che c’è stata in mezzo, in tutta questa rabbiosa quantità di tempo. Trentasette anni, tredicimilacinquecento giorni, trecentoventiquattromila ore. Se è vero che ogni sette anni il corpo umano rinnova il proprio apparato cellulare, io da quella sera mi sono incarnato per cinque volte in cinque esseri umani differenti, e da allora su questa terra sono passate cinque versioni di me. Di questi cinque me, tu non ne hai conosciuto nemmeno uno.
Tu hai perso cinque figli, e io cinque padri.
 
[da I colpevoli di Andrea Pomella, Einaudi, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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