Cocci

Marisa Salabelle

21/04/2020

Mia madre mi piombò in casa senza preavviso, come sua abitudine. Menomale che non ho un amante, pensai mentre la invitavo ad accomodarsi in salotto.
«Uff!» sbottò lei, togliendosi il cappotto e sfilando le scarpette a punta che si ostinava a portare, nonostante soffrisse di alluce valgo.
«Tuo padre mi farà impazzire» disse, mentre seduta sul divano si massaggiava i piedi doloranti.
«Perché, che ha fatto?»
«Oh, lo sai! Sempre con quei cocci…»
 
Mio padre, ingegnere civile col pallino dell’archeologia, dopo aver casualmente rinvenuto qualche frammento di terracotta durante gli scavi per la costruzione di una palazzina in periferia, si era messo in mente di portare alla luce ogni più piccolo manufatto, di ferro o terracotta o di qualsiasi altro materiale, che si trovasse seppellito a un qualunque livello di stratificazione nel territorio della nostra città. Pistoia, come gran parte delle città italiane, è molto antica, le sue origini risalgono ai Romani, anche se c’è pure chi parla degli Etruschi: nelle sue viscere sono custoditi reperti millenari, non c’è che da scavare, se ne trovano quanti se ne vuole. E il babbo, a causa del suo lavoro, di scavi ne ha fatti, e di reperti ne ha trovati, al punto che i musei cittadini non sanno più che farsene, e i pezzi meno pregiati li ha stipati in casa, riempiendo scaffali e vetrine, cosa, questa, che dà particolarmente sui nervi alla mamma, che odia spolverare e che, senza averlo mai confessato al marito, è responsabile dell’ulteriore frammentazione di alcuni di quei preziosi frammenti.
 
«Non è una novità, mi pare!» risposi.
«Sai che la Cassa di Risparmio l’ha incaricato dei restauri al Palazzo dei Vescovi?»
«Sì, certo!»
«Gliel’hanno detto chiaro e tondo: un restauro veloce e non troppo dispendioso, giusto il minimo per rendere abitabili i locali… la banca ci vuol fare degli uffici, è in piena espansione, ha bisogno di spazio. Il presidente gli ha detto, mi raccomando, Natalino, perché lo conosce anche lui, eh! Non andare a cercare reperti archeologici, che ce ne sono sotto ogni pavimento. Fa’ solo i test necessari, per capire se le fondamenta reggono, se si può procedere coi lavori, e poi fammi un bello stabile moderno, tutto uffici e open space, che lo arrediamo con scrivanie e scaffali in stile svedese. E lui che ha fatto, invece? Al primo coccio che ha trovato, al primo frammento di terracotta ha perso il capo, chissà che gli è sembrato, che ne abbiamo la casa piena e anche il garage, e io non so più dove ficcarli!»
«Ha portato il reperto a casa?»
«Magari l’avesse fatto! Che gliel’avrei buttato nel monte degli altri e chiuso lì. No invece, è andato dritto dal presidente della Cassa di Risparmio a farglielo vedere…»
«E il presidente che ha detto?»
«E cosa doveva dire? S’è messo le mani nei capelli…»
 
La visita di mia madre e le sue chiacchiere mi fecero tornare indietro con la memoria a diversi anni prima. Era la primavera del 1971. Avevo sedici anni ed ero una scolta del clan Pistoia 1, con sede in vicolo del Sozomeno, una stradina che da via della Torre porta all’ingresso laterale del Duomo e lì finisce. In vicolo del Sozomeno c’erano due portoni: in uno, sul lato sinistro, abitava il sagrestano, nell’altro, a destra, c’era la sede delle scolte. Il nostro assistente era il cappellano della Cattedrale e ci aveva affidato un incarico: dovevamo aggiornare il censimento delle famiglie che abitavano nella parrocchia del Duomo, uno dei quartieri più suggestivi della Pistoia medievale, ma anche uno dei più scalcinati, con palazzi antichi in pietose condizioni di degrado, all’interno dei quali vasti saloni affrescati erano stati divisi da pareti in cartongesso per ricavarne appartamenti che i proprietari affittavano alle famiglie meridionali che da qualche anno avevano invaso il centro storico. Noi ne sapevamo qualcosa, perché facevamo servizio in parrocchia, catechismo e doposcuola, e in molte di quelle abitazioni c’eravamo entrate: corridoi male illuminati, scale ripide, pareti nere di muffa, pavimenti sconnessi.
 
«Capite, ragazze» aveva detto don Umberto, «in quelle vecchie case le famiglie si ammassano, specialmente da quando abbiamo quest’ondata di immigrazione dal Meridione: quelli che sono qui già da un po’ di tempo fanno venire i parenti e gli amici, i proprietari affittano abusivamente, qualcuno si insedia in locali che dovrebbero essere chiusi… insomma, capisco che verificare l’abitabilità degli alloggi non è affar vostro, e nemmeno stabilire se chi ci sta è in regola con l’affitto, ma c’è una cosa che potete fare, ed è aggiornare l’elenco delle famiglie che, in un modo o nell’altro, vivono nella nostra parrocchia. Questo ci permetterà di stabilire se ci sono bambini che devono frequentare il catechismo, anziani in condizioni di disagio, situazioni di indigenza verso le quali indirizzare le dame della San Vincenzo.»
 
Così formammo delle coppie e ci dividemmo il territorio della parrocchia. A me e a Mary, una brunetta grassottella, toccò la zona delimitata da via della Torre, piazza del Duomo, via Tomba di Catilina, via Filippo Pacini. Quel pomeriggio avevamo fissato alle cinque: il sole era alto, la temperatura era tiepida e noi, di ottimo umore, sbucammo da via Roma in piazza del Duomo cantando a squarciagola Ora sì, che prima no, una parodia improvvisata della famosa canzone di Charles Aznavour, Ieri sì.  Ah, la gioventù! Facevamo una strana coppia, io alta e spigolosa, lei piccola e tonda come una pallina, ma ci divertivamo insieme, e non c’importava se la gente scuoteva la testa sentendoci ridere e cantare ad alta voce. Il tratto finale di via Roma era occupato da un grande e brutto edificio, che confinava direttamente col fianco sinistro della Cattedrale: era il Palazzo dei Vescovi, una costruzione molto antica ma piuttosto malandata, che era stata rattoppata più volte e si presentava allora nel suo aspetto peggiore. Il pianterreno, su due lati, era occupato da una farmacia, l’Antica Farmacia de’ Ferri, sovrastata da una tettoia di tegole rosse: la farmacia era bella, all’interno la volta a crociera era affrescata e le pareti erano tappezzate di scaffali in legno su cui erano esposti vasi che dovevano contenere farmaci dalle miracolose proprietà. Il resto del palazzo invece era in cattivo stato, sulla facciata si intravedevano archi e portoni accecati, finestre con persiane mezze rotte si affacciavano sulla piazza, solo una piccola decorazione ad arco in marmo bicolore abbelliva la facciata, in ricordo dei tempi in cui il palazzo era stato un edificio prestigioso, la residenza del vescovo della città.
 
Proprio sotto l’arco si apriva un portoncino che immetteva in un andito buio, nel quale ristagnava un odore sgradevole. Muffa, salsa di pomodoro, urina e candeggina formavano un mix non esattamente allettante.
«Permesso?» disse Mary.
Nessuno rispose; salimmo una rampa di scale che conduceva al piano superiore. Sul pianerottolo, davanti a una porta sprangata, giaceva un solitario bidet.
«Buongiorno, siamo della parrocchia» disse Mary, che quel giorno sembrava avere particolarmente voglia di giocare. «Stiamo facendo il censimento: lei abita qui? È il signor… Bidet Giuseppe, se non sbaglio?»
Scoppiai a ridere. Quando era in vena, Mary era davvero divertente. Bidet Giuseppe, che idea! Stavamo ridendo fino alle lacrime quando la porticina si aprì e si affacciò un uomo in canottiera e pantaloni da lavoro, coi capelli folti e ricci e la barba mal rasata. Si piantò sulla soglia a gambe larghe, guardandoci con espressione accigliata.
«Buongiorno» ripeté Mary, cercando di reprimere la ridarella. «Siamo della parrocchia, stiamo facendo il censimento. Lei abita qui, giusto? Ed è il signor…»
«Guido La Vespa» disse l’uomo.
Mary aveva tirato fuori il blocchetto su cui annotava i dati che via via ci venivano forniti e stava cercando di fare la persona seria, ma la risposta dell’uomo la spiazzò.
«Guido La Vespa, è certo che questo sia il suo nome?»
«Vuoi che non sappia come mi chiamo, ragazzina?»
«Ci mancherebbe, signore, solo che è… un po’ bizzarro, ecco.»
 
Intanto erano venuti sull’uscio tre o quattro bambinetti, i suoi figli, immaginai: cenciosi, mingherlini, con delle faccette serie serie e occhi troppo grandi, non davano l’idea di passarsela troppo bene. Infine comparve una donna, che ritenni essere la moglie: era magra, spettinata, con profonde occhiaie e una vestaglietta da casa a fiorellini. Nessuno di loro disse una parola e anche noi ci eravamo intimidite, la ridarella c’era passata del tutto.
«Non ho tempo da perdere, bambine, sarà bene che andiate, ora» disse l’uomo.
«Ma don Umberto…» azzardai.
«Di’ a don Umberto che può andare a prenderlo in quel posto» disse l’uomo e chiuse la porta.
 
Qualche giorno dopo la visita di mia madre andai a trovare il babbo allo studio. Avevo sempre avuto un debole per lui.
«Allora, papi» gli dissi, «hai fatto delle scoperte al Palazzo dei Vescovi?»
«Ah, Titti! Non immagini quello che ho trovato! Una vera miniera! Pensa che c’è un pozzo, nelle cantine del palazzo. Nessuno l’aveva notato perché era murato dietro una parete. Devi sapere che le fondamenta del palazzo risalgono all’undicesimo secolo! Quel pozzo, probabilmente è da attribuire a un periodo posteriore… devo ancora completare gli accertamenti, capisci. Quel che è certo è che è stato destinato per secoli a deposito delle terraglie danneggiate. In poche parole, quando un vaso o una ciotola si rompeva, i cocci venivano buttati nel pozzo.»
«Chissà quanti ce ne saranno, allora! Avrai un bel daffare a catalogarli tutti!»
«Non me ne parlare, Titti! Ho dovuto chiamare la soprintendenza, capisci, perché io sono solo un dilettante, non ho la competenza… I frammenti devono essere portati alla luce con estrema cautela e classificati in base al tipo di cottura, alla presenza o meno di vetrificazione, ai colori e ai motivi decorativi… L’antichità si stabilisce in base alla profondità del ritrovamento, ovviamente, quelli che si trovano sul fondo del pozzo sono i più antichi, e poi naturalmente c’è l’esame del carbonio 14…»
Come ho detto, adoravo il babbo, ma quando iniziava a parlare dei suoi preziosi cocci facevo fatica a seguirlo. In certi momenti, giuro, potevo capire l’insofferenza di mia madre.
«E il presidente della Cassa di Risparmio come l’ha presa?»
«Be’, ecco… sulle prime era piuttosto contrariato, perché ho dovuto sospendere i lavori, e a lui interessava avere i nuovi locali al più presto, ma poi l’ho portato a vedere gli scavi e ha capito l’importanza della cosa. Mi ha detto, Natalino, puoi contare su di me, la Cassa di Risparmio si prenderà a cuore le sorti di questo patrimonio inestimabile!»
Patrimonio inestimabile… per qualche scodella sbreccata e qualche brocca mi pareva un po’ eccessivo: anche se antiche di secoli, erano pur sempre stoviglie di uso comune, e rotte, per di più.
 
Nelle settimane seguenti alla nostra sfortunata visita al Palazzo dei Vescovi, ci capitò più volte di incontrare qualcuno di quei bimbetti: li vedevamo uscire di corsa dal portoncino, attraversare piazza del Duomo, aggirarsi tra i banchi del mercato in piazza della Sala, sudici, straccioni, con quegli occhi troppo grandi e un’aria affamata.
«Titti, guarda quella bambina. Non è una delle figlie di Guido La Vespa?»
Lo chiamavamo così, tra noi, ignorando quale fosse il suo nome.
«Ehi, piccola! Come ti chiami?»
«Avvicinati! Non aver paura!»
Pareva strano che la piccina potesse aver paura di noi due, eppure era così. Quando mi chinai e allungai la mano per farle una carezza nascose il viso dietro un gomito, quasi temesse di vedersi arrivare uno schiaffone. Mi tirai indietro e lei ne approfittò per scappare via: solo dopo svariati incontri casuali e altrettanti nostri goffi tentativi di approccio un giorno acconsentì a dirci il suo nome. Si chiamava Nunzia, aveva otto anni, sua sorella Enza ne aveva cinque, suo fratello Sebastiano sette, e poi c’era Pino, che aveva solo un anno. Venivano da Napoli, papà era muratore, mamma stava a casa, era malata, non usciva mai, ed era lei, Nunzia, che pensava a tutto, faceva la spesa, cucinava, rigovernava i piatti, lavava i panni, aveva la famiglia sulle spalle, disse.
«E a scuola non ci vai?»
«’A scola è furnuta, signurì, nunn‘o sapete?»
 
Certo che lo sapevamo, era giugno e la scuola era finita anche per noi, e così una mattina, pensando che il temibile capofamiglia sarebbe stato al lavoro, tornammo a bussare alla porticina del Palazzo dei Vescovi. Avevamo visto giusto, Guido La Vespa non era in casa. Ci aprì la piccola Nunzia, tenendo in collo Pino: dietro a lei si nascondevano gli altri due, mentre la madre dall’interno ci invitò ad entrare con voce lamentosa.
«Mamma sta in camera, ‘ngopp’o lietto» disse Nunzia. «Trasite, signurì.»
Gliel’avevamo detto più di una volta di non chiamarci signurì: io ero Titti, la mia amica era Mary, eravamo due ragazze, non due signore, ma non c’era stato verso: signurì eravamo e signurì restammo per tutti e quattro i bambini e per la loro mamma.
L’appartamento nel quale Nunzia ci fece entrare, se appartamento poteva chiamarsi, era composto da un unico stanzone, diviso in due da una parete di cartongesso che non arrivava al soffitto, molto alto. In fondo alla stanza c’era un vano nella parete che sembrava un vecchio forno a legna, di quelli dove si fa la pizza, e tutto il muro da quel lato era annerito. Sulle pareti laterali, ugualmente affumicate e sporche, si intravedevano pezzi di figure dipinte, probabilmente resti di affreschi a tema religioso. Eh già, era il Palazzo dei Vescovi, no? Dunque quel locale una volta, magari, era stato una cappella… Da una parte, una stufa, del tipo che mia nonna chiamava “cucina economica”, col tubo di alluminio che finiva in un foro praticato sulla parete e il piano in ghisa sul quale bolliva una pentola, fagioli, a giudicare dall’odore; dall’altro lato, a un filo teso in un angolo era stesa ad asciugare della biancheria. La donna era al di là del tramezzo, in una sorta di alcova dove al letto matrimoniale con la testata in ferro erano affiancate due brandine sulle quali, immaginai, dormivano i bambini. Servizi igienici non se ne vedevano, a parte il bidet, che era ancora sul pianerottolo: in una visita successiva scoprimmo che un gabinetto c’era, sul retro, una semplice turca in un bugigattolo buio e puzzolente. Sembrava impossibile che nel 1971, in pieno boom economico, nel centro di una città capoluogo di provincia, in una delle piazze più belle d’Italia, potesse vivere in condizioni tanto miserabili una famiglia come quella del sedicente Guido La Vespa, il cui vero e più banale nome, venimmo a sapere, era Esposito Antonio. Tornammo più volte a far visita alla madre e ai bambini, portando di volta in volta generi alimentari e capi di vestiario usati che le famiglie benestanti davano in beneficenza.
 
Il telefono squillò proprio mentre ero nella vasca da bagno. Un classico. Uscii fuori gocciolante, mi avvolsi alla bell’e meglio in un accappatoio e andai a rispondere.  La voce di mia madre mi investì, stridula.
«No, guarda, Titti» fece, come proseguendo un discorso che aveva già iniziato prima che io alzassi la cornetta. «Io con quell’uomo non ce la posso fare. Io do fuori di testa, ti avverto.»
«Cos’è successo, mamma? Altri cocci?»
«Magari! Peggio, molto peggio. Figurati che a furia di scavare ha trovato degli scheletri!»
«Scheletri? Ma che dici? E dove, poi?»
Mamma stava esagerando come al solito. Era proprio tipico, da parte sua, fare una tragedia di ogni piccolezza. Scheletri, saranno stati al massimo i resti di qualche gatto rimasto intrappolato nelle cantine del palazzo…
«Ha continuato a scavare nelle cantine, oltre il pozzo ha trovato una parete, e lui giù a demolire, ed ecco che a un certo punto vengono fuori delle ossa!»
«Saranno state di qualche animale…»
«Sì, macché! Resti umani, e di più persone, anche. È tornato a casa tutto agitato, è convinto di trovarsi di fronte a un ritrovamento archeologico importante, ossa di persone vissute secoli e secoli fa, un’intera famiglia, addirittura. Ha già convocato una perizia, per accertare l’età dei reperti, non fa che fantasticarci su, e non ti dico il presidente della Cassa di Risparmio, gli stava per venire un infarto quando l’ha saputo.»
«Be’, mamma, può essere importante, chissà cosa potranno rivelare quei resti, e il babbo potrà scriverci su uno dei suoi libri.»
«Mi farà morire! Lui e i suoi ritrovamenti! Cocci, ossa, cos’altro deve venir fuori da quel benedetto palazzo? Io non ne posso più, ti avverto Titti, io non rispondo più di me!»
Riattaccò bruscamente mentre io, ancora fradicia, coi capelli gocciolanti, iniziavo a starnutire. Lei sarebbe andata fuori di testa, ok, e io, allora?
 
«Ti sei accorta che Enzina aveva un occhio nero?» mi chiese Mary.
«Sì… mi ha detto che Bastino l’ha spinta e ha urtato nello spigolo della stufa.»
«Hmmm…»
«Che pensi?»
«Nunzia è piena di lividi… dice che è scivolata sul pavimento umido, mentre passava lo straccio, ma non sono convinta. Hai visto Pino? È sempre spaventato, e se ti avvicini troppo si mette le manine davanti al viso, come se volesse proteggersi.»
«Secondo te sono bambini maltrattati?»
«Temo di sì.»
«E chi è che li picchia? La mamma?»
«Via! Che vuoi che possa fare quella larva, lo vedi che non s’alza dal letto! Quella donna è in depressione cronica… È quell’energumeno del marito che mena le mani!»
«Che si fa?»
«Dobbiamo parlarne con don Umberto!»
Don Umberto si mostrò interessato alla nostra storia, alla maniera dei preti: ci disse che avevamo fatto bene a parlargliene, che se si dovesse far caso ai lividi dei bambini si manderebbero in galera tutti i genitori, che molto probabilmente si era trattato di piccoli incidenti facilmente spiegabili, che comunque sarebbe andato a far visita alla famiglia Esposito e che non ci allarmassimo. Noi però ci allarmammo lo stesso, ormai eravamo entrate in un film in cui Guido La Vespa, che avevamo intravisto altre due o tre volte in piazza del Duomo o nelle viuzze circostanti, ma al quale avevamo evitato accuratamente di rivolgere la parola, era un padre violento, la moglie, Concetta, una sciagurata in preda alla depressione e forse all’alcol, e i figli delle povere creature abbandonate. Moltiplicammo le visite al misero appartamento, portando scorte sempre più consistenti di cibarie e biancheria, aiutammo Nunzia a dare una vigorosa pulita, convincemmo due nostri amici scout a tinteggiare le pareti dell’alloggio, contribuendo all’estinzione definitiva di quel che restava dei presunti affreschi.
 
Un giorno di luglio organizzammo una spedizione per portare i bambini in piscina, con l’aiuto dei nostri amici scout: noi non avevamo la patente, eravamo ancora troppo giovani.
«Come son magri questi bimbi!» commentò Filippo quando li vide spogliati, con indosso i costumini che gli avevamo comprato per l’occasione.
«E pallidi!» aggiunse Marco.
«Sono pieni di lividi: qualcuno li piglia a botte, questo è sicuro!»
Poi, un giorno, tutt’all’improvviso scomparvero. Era la fine di luglio, la città era deserta e faceva un caldo insopportabile. Avevamo una proposta per la famiglia Esposito: avremmo portato i tre bambini più grandi in campeggio con noi, per qualche giorno. I genitori di Mary avevano una roulotte al Camping Riva Etrusca, a Cecina. Se Concetta avesse accettato di tenere con sé Pino, troppo piccolo perché noi ce ne potessimo prendere cura, e se Guido La Vespa avesse dato il suo consenso, eravamo pronte a partire entro pochi giorni. Immaginavamo già la felicità di Nunzia, Enza e Bastino, li vedevamo correre sulla spiaggia e tuffarsi in mare, spensierati, per una volta almeno nella loro vita. Non era molto, ma era tutto ciò che potevamo offrirgli: eravamo due ragazzine, in fondo.
 
Arrivate sul pianerottolo, il silenzio ci colpì. Non si sentivano le voci e gli strepiti dei bambini. Suonammo e suonammo il campanello, bussammo con le nocche al portone, chiamammo. Nulla. Nell’androne, quella era l’unica porta: c’erano altri appartamenti nel palazzo, ma vi si entrava da altri accessi. Il portoncino sotto l’arco di marmo bicolore era l’unico che si affacciava sulla piazza del Duomo.
«Andiamo a sentire se ne sanno qualcosa alla farmacia» disse Mary.
Niente. Il farmacista e sua moglie non vedevano i bambini da qualche giorno, e quanto ai genitori, praticamente non li conoscevano, dato che la madre non usciva mai di casa e il padre faceva orari incompatibili con i loro, usciva di casa la mattina presto, prima che la farmacia aprisse, e rientrava verso le due, le tre del pomeriggio, quando loro erano in pausa pranzo.
Girammo per la Sala, dove Nunzia e i suoi fratellini erano conosciuti dai commercianti del mercato e dagli esercenti dei bar: erano giorni che non si vedevano, e avevano anche dei conti non indifferenti da saldare.
Andammo a parlare con don Umberto ma facemmo acqua anche con lui.
«Mi ripromettevo di far visita a quella povera famiglia uno di questi giorni, mie care ragazze, ma non ho avuto il tempo… vi prometto che stasera o domani ci farò una scappata. Non vi preoccupate, saranno andati a trovare i parenti, mi avete detto che vengono dal Meridione, no? È estate, e sicuramente sono partiti per passare un po’ di vacanze dai nonni. Voi bimbe siete troppo suggestionabili…»
 
«Allora, papi» dissi, entrando nello studio ingombro di carte e cocci. «Ho saputo che hai trovato degli scheletri antichi di secoli!»
«No, macché! Non sono assolutamente antichi. Lo credevo, ma l’esame del patologo ha dimostrato che si tratta di corpi risalenti a non più di dieci anni fa.»
«Dieci anni fa? Come hai potuto sbagliarti tanto?»
«Non so… forse l’entusiasmo della scoperta mi ha fatto perdere la lucidità. Erano murati tra il pozzo medievale e una parete di calce, ma le infiltrazioni di umidità provenienti dal sottosuolo hanno accelerato la decomposizione… anche gli stracci che avevano indosso, tutti strappati e scoloriti, praticamente disfatti, mi erano parsi molto vecchi. L’esame dei tessuti tuttavia ha rilevato la presenza di fibre sintetiche, la stratigrafia ha dimostrato che la parete di calcio è stata alzata in tempi molto recenti e i corpi, sottoposti all’esame radiologico, hanno cancellato ogni dubbio.»
«Di che si tratta, allora?»
«Be’, gli accertamenti sono ancora in corso, ma direi che si tratta di un’intera famiglia. La madre e quattro bambini, uno dei quali molto piccolo. Probabilmente abitavano in uno degli appartamenti in cui era suddiviso il palazzo. A un primo esame sembrerebbero morti per le esalazioni di una vecchia stufa a gas, sai, una di quelle cucine economiche alimentate a cherosene… Qualcuno poi ha portato i corpi in cantina e li ha murati tra il pozzo e la parete. Le fondamenta del palazzo, capisci. Un lavoro maldestro, ma che nessuno aveva scoperto, fino a ora. Un incidente, o forse un delitto, chi può saperlo.»
«Mio Dio! Che orrore! E chi può aver fatto una cosa del genere?»
«Be’, visto che in questa famigliola manca il padre, direi che si dovrà indagare in quel senso. Non sono un investigatore, ma immagino che sarà difficile rintracciarlo. Chissà dov’è finito, dopo tutti questi anni!»
 
II racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus".
 
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Marisa Salabelle

Marisa Salabelle è nata a Cagliari il 22 aprile 1955 e vive a Pistoia dal 1965. È laureata in Storia all’Università di Firenze e ha frequentato il triennio di Studi teologici presso il Seminario vescovile di Firenze. Dal 1978 al 2016 ha insegnato nella scuola italiana. Nel 2015 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu (Piemme). Nel giugno 2019 ha pubblicato il suo secondo romanzo, L’ultimo dei Santi, presso l’editore Tarka. Entrambi i romanzi sono stati finalisti al Premio La Provincia in Giallo, rispettivamente nel 2016 e nel 2020. Nel settembre 2020 è uscito il romanzo storico-famigliare Gli ingranaggi dei ricordi (Arkadia Editore) e nel 2022 Il ferro da calza (Tarka), un giallo con ambientazione appenninica. Suoi articoli e racconti sono apparsi su riviste online e antologie cartacee.
 
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