Come le foglie d'autunno

Lucia Esposito

06/08/2021

Ci sono dei giorni in cui andare avanti diventa più urgente. La priorità. E allora sono i nostri ruoli a prendere il sopravvento. I ruoli che rivestiamo si fanno avanti, ci sostituiscono amorevolmente e proseguono sul cammino alternandosi senza litigare, senza disturbare il vicino. La mamma. L'impiegata. La figlia. La moglie. L'amante, ruolo scomodo in tutti i casi. E poi c'è quello della benefattrice, della consolatrice dell'amica! E soffochiamo quella parte di noi che nella nostra invisibile prigione urla, si dispera, lotta per lasciarsi andare. Senza versare lacrime marcia sul sentiero impervio dell'anima offesa dalle bombe dei dubbi, delle incertezze, dei sensi di colpa per sé stessa, della mancata forza di volontà, dell'uso e abuso permesso agli altri, macigni di un presente che rende oltremodo preoccupante il domani. Anzi, lo rende nero, talvolta grigio. Quella parte di noi sente la stanchezza, si dispera. Una lacrima potrebbe generare un fiume in piena che straripa e inonda il terreno dell'anima, salvando quel che resta o annegando ogni forma di vita. Le lacrime purificatrici, assolutrici, sono riservate a pochi eletti e solo in situazioni di disperato bisogno. Per cui si fa a meno anche delle lacrime e si va avanti. Il fronte non è lontano. La trincea è una possibilità di ripresa. L'avanzata, però, è temeraria ma assolutamente non avventata. E rischiosa soprattutto. Il più delle volte occorre avere una ragione per andare avanti o una scelta. Non importa!
 
E così Irene andava avanti. Aveva messo da parte sé stessa, aggrappandosi alle sue giornate e alle sue notti insonni. Tra le due preferiva le notti. A volte erano illuminate dai suoi sogni, a volte dalla luna, a volte dalle stelle, lucciole di cuori infranti sparse per dare coraggio. La notte era calda. La notte era la parte di sé che nessuno conosceva. Nel suo nido Irene si coccolava, ma al mattino tutto ricominciava come se nulla fosse accaduto. Come se quell'attimo blu di tepore e considerazione si fosse dissolto e lei, fosse diventata la madre, l'impiegata. Da qualche tempo, mesi, forse anni, non riusciva più a tacere. Sembrava che la testa le scoppiasse. Aveva bisogno di parlarsi. Aveva bisogno di chiarirsi: quali erano quelle priorità che l'avrebbero riportata in auge? Quali erano i suoi desideri? Che cosa la feriva maggiormente del comportamento altrui? In che cosa lei stava sbagliando? Più di tutti la scontentava il suo rapporto con Mattia. Non riusciva a liberarsi da quell'uomo che per anni l'aveva usata. Almeno lei sentiva così!  E, a detta della psicologa era così! Mattia era un uomo! Un uomo con una sua storia e con una compagna di vita. Ma Irene si era abbandonata a lui con il cuore pieno di purezza, con la spontaneità di una bambina, incredula che potesse essere amata, considerata avvolta come era da quella nebbia donatrice di illusioni. Irene era sorda ai richiami della coscienza, alle folla di quei pensieri sconosciuti che le sussurravano, recitavano, quasi urlavano di non lasciarsi andare, di non rivelare quanto bello fosse il sorriso del suo cuore, di non aprire quelle stanze dove era custodita la chiave magica che le permetteva nei momenti cupi di aprire la porta della compassione e dell'amor proprio e di rialzarsi. Irene era adulta e consapevole; sapeva e aveva messo in chiaro alcuni particolari tra sé e sé. 
 
Mattia non aveva invece chiaro il suo rapporto con Irene. Era spaventato da un cotanto sentire, ma non agiva di conseguenza. Tradiva ogni sua azione di bontà con distanze e silenzi lunghi; con assenze piene di sensi di colpa, con priorità solo sue. E lei non era mai una delle sue priorità. Mai! Nemmeno nel giorno del suo compleanno! Nemmeno nei sogni di lui! Così, dopo aver ceduto, si era allontanata non una, ma due, tre e poi tante volte. Lui l'aveva sempre ricercata. E, tutti i percorsi di crescita personale, di riequilibrio emozionale e spirituale, non erano serviti a un granché. Lei che credeva di farcela sempre, costatò che le forze le venivano meno. Il coraggio! Dove aveva nascosto il suo coraggio? Era scappato insieme alla sua volontà di emancipazione femminile? Ricordava con orgoglio quella volta della manifestazione nazionale a Roma per denunciare le molestie sul lavoro fatte contro le donne. Si era sentita così: parte di un gruppo solido e giusto. La prima volta che si era allontanata da casa dicendo una bugia ai suoi genitori. La prima volta di emozioni nuove, esuberanti, eccitanti. Quel senso di libertà la inondava di un sottile benessere. Per gli slogan urlati a squarcia gola perse la voce. Ma il fine giustifica i mezzi. No? Che cosa serve per risalire dalle profondità del mare dopo un naufragio?
 
Immaginava spesso e riviveva nella sua mente la scena di lei che sta annegando. È nel mare della sua città natale, quel mare che l'aveva vista bambina e in solitudine. Si era trasferita al nord per lavoro e poi quel luogo era diventato suo, come tutto ciò con cui conviveva dopo un po'. Ebbene, in quel mare natio, lei ci era caduta dentro arrendendosi e sintonizzandosi al suo respiro. Dopo un primo momento in cui il suo corpo si era ribellato alla nuova situazione di mancanza di aria, l'adattamento. La quiete. Qualcuno la chiamava con patimento dalla banchina: una voce lontana, familiare. Allora, riaprendo gli occhi, la lotta tra il riemergere e l'abbandonarsi ha durata breve. La spinta per la sopravvivenza è forte. Il respiro alla vita. La sensazione di meraviglia. Questo uno dei suoi sogni ricorrenti e perseveranti.
 
Irene comunque aveva la possibilità di distrarsi in ufficio. Quel posto di lavoro le assicurava il sorriso, la leggerezza, la capacità di azione, la capacità di pensare, di essere. Il ruolo era di responsabilità. E lei la sentiva tutta. Studiava. Leggeva riviste specializzate. Frequentava ambienti di un certo spessore culturale per confrontarsi, conoscere novità. Scriveva su giornali locali. Faceva la volontaria in ospedale. Praticava regolarmente la palestra. Amava la camminata sostenuta e tutti i fini settimana cercava di non deludere il suo desiderio di verde e di stare all'aperto. Una vita apparentemente normale. Una donna solare, attiva, positiva. La notte invece Irene si trasformava e l'altra parte di lei prendeva il sopravvento. La sua storia con Mattia, anzi il ricordo di quella storia, la faceva retrocedere in un tunnel che conosceva già, familiare, per cui nemmeno tanto spaventoso. Quel tunnel l'aveva arredato. Si era costruita un suo angolo: l'angolo della lettura, l'angolo dei ricordi, dei pasti. Insomma, l'aveva reso casa. Una parete blu. L'altra gialla.  C'erano persino dei quadretti dalla cornice verde con gli animali del cuore. Il suo gatto. Il coniglio rosa. Il suo canarino. E, più distanti, quasi alla fine del tunnel, degli oggetti cari, una bicicletta, un piccolo tornio, un piatto decorato della nonna. Sarebbe stato impensabile abbandonare quel luogo. Prima o poi ne sarebbe uscita. Il momento sarebbe giunto come una sorpresa: gratificante, gradito, leggero, dolce, ma anche forse scomodo, scontato, atteso, amaro. Lei avrebbe accolto tutto. Sì proprio così! Con stanchezza, nostalgia, gratitudine. A un certo punto, appare chiaramente che certe cose non si possono realizzare e che è meglio dedicarsi ad altro, semplicemente. L'orizzonte ha mille sfaccettature che non possono essere colte se non da angolature differenti. Allora, come le foglie d'autunno, occorre lasciarsi andare, cullare dal vento, dal più impetuoso come dal più flebile. Lasciare che il non senso si appropri di noi e ci prenda per mano.

Irene si era opposta con tutte le sue forze a quella passione che le si era presentata come il più bello e profumato biglietto da visita. Non era certamente una storia da condividere, da raccontare, ma era la storia che l'aveva fatta rinascere offrendole il dono di conoscere sé stessa, la sua forza, i suoi desideri. Ora l'avrebbe lasciata andare con tanta tristezza, con il caos che si generava ogni volta nel momento di un addio. Lui? Dissolto nei silenzi sinuosi della vita. Quelli in cui senti l'altro ridere mentre tu piangi.
 
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Lucia Esposito

Lucia Esposito, toscana d'adozione da quasi trent'anni, è insegnante di lettere a Livorno, nonchè formatrice presso la propria scuola. Si occupa da sempre di ragazzi adolescenti. E' riuscita ad unire il suo lavoro al suo interesse principale: insegnare la passione per lo studio attraverso la creatività, la ricerca e la tecnologia. Ama ritirarsi tra il verde a prendersi cura delle piante e dei suoi racconti.
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