Dai miti greci a Babbo Natale. I «programmi di verità» secondo Paul Veyne

Duccio Rossi

14/12/2020

Il Natale si avvicina e le restrizioni anti-covid hanno fatto tremare anche i più piccoli, spaventati dall’eventualità che Babbo Natale potesse essere impossibilitato a portare i regali ai tutti i bambini del mondo. Infatti, come ci ha raccontato il giornalista Gabriele Bassani in un articolo pubblicato su «La Nazione» di venerdì 13 novembre 2020, un bambino di cinque anni, il piccolo Tommaso, non ha esitato a scrivere – con l’aiuto di babbo e mamma – una lettera al Presidente del Consiglio per sincerarsi che le restrizioni del lockdown non impedissero a Babbo Natale di recapitare i tanto attesi regali. E come spiga ancora Bassani, il presidente Conte ha prontamente risposto alla lettera del piccolo Tommaso, assicurando al bambino che Babbo Natale possiede un’autocertificazione internazionale, che usa la mascherina e che mantiene la distanza di sicurezza. Insomma, il piccolo Tommaso e tutti i bambini non hanno di che preoccuparsi: Babbo Natale arriverà anche al tempo del covid.
 
La vicenda è una di quelle che fanno tenerezza, non c’è dubbio, ma se la analizziamo da un punto di vista più profondo scopriamo aspetti tutt’altro che “infantili”, specialmente se guardiamo al concetto di «verità relativa» in essa contenuto. Parlando dei miti greci, il celebre storico e archeologo francese Paul Veyne, nel suo libro I greci hanno creduto ai loro miti? (Il Mulino, 2005), inizia appunto la sua trattazione con un paragone col Natale. «Come si può credere a metà o credere a cose contraddittorie? I bambini credono, nello stesso tempo, che sia Babbo Natale, attraverso il camino, a portare loro i giocattoli e che questi giocattoli siano stati messi sotto l’albero dai loro genitori; allora credono veramente a Babbo Natale?» (Paul Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti?, Il Mulino, 2005). Secondo Paul Veyne la verità, intesa come credenza, non è un dato oggettivo ed univoco bensì soggettivo e «plurale». Non esiste una sola verità ma molti «programmi di verità» che cambiano in base all’epoca, al contesto sociale e addirittura, all’interno di uno stesso individuo, in base alla necessità richiesta dal contesto. Sarebbe stato dunque questo l’atteggiamento intellettuale, tutt’altro che ipocrita, che permise ai Greci di credere ai loro miti, poiché il focus sta tutto nel definire correttamente cosa significhi «credere».
 
«La molteplicità delle modalità di credenza è in realtà molteplicità dei criteri di verità» ci spiega Veyne nel suo libro. «Questa verità è figlia dell’immaginazione. L’autenticità delle nostre credenze non si misura a seconda della verità del loro contenuto. Dobbiamo ancora comprendere il motivo, che è semplice: siamo noi a costruire le nostre verità e non è la realtà che ci porta a credere. Poiché essa è figlia dell’immaginazione costituente della nostra tribù». Di fronte al mito, i Greci e i Romani non sono mai stati capaci di dire che esso è completamente falso perché non ha alcun fondamento; e questo perché l’immaginario collettivo non è mai stato rifiutato. Anzi, l’immaginario del mito era una preziosa testimonianza remota delle generazioni del passato che aveva dignità storica pari a quella degli eventi militari e politici. Come ci ricorda Tito Livio, lo storico antico non era tenuto né a credere né a rifiutare il mito (fabula), ma semplicemente a riportarlo, a tramandarlo. E questo non era un atteggiamento ambiguo per “lavarsi le mani” davanti ad una questione spinosa; era semplicemente il «programma di verità» richiesto dal mito stesso, il quale non era sentito né come vero né come falso, ma semplicemente come un tertium quid. La verità storica era tradizione e «vulgata» e il mito aveva dignità storica poiché testimonianza del passato da sempre tramandata.
 
Circa i «programmi di verità», Veyne sottolinea come gli imperatori romani, dopo la loro morte, venissero considerati veri e propri déi per mezzo della così detta apoteosi. I ritrovamenti archeologici dimostrano però che un romano, quando doveva fare un’offerta ad un dio per chiedere un’intercessione, non sceglieva mai di offrire ad un imperatore defunto ma sempre ad un dio “tradizionale”. Dunque, viene da chiedersi, i Romani credevano veramente all’apoteosi degli imperatori oppure ci credevano soltanto a metà? La risposta di Veyne è che ci credevano veramente ma per mezzo di un «programma di verità» diverso da quello che era necessario per offrire agli déi. I Greci credevano che gli dèi vivessero in cielo ma sarebbero rimasti sorpresi di vedere realmente un dio tra le nuvole. E quindi? Similmente riguardo al rapporto tra fede e miracoli: un evento miracoloso è ciecamente credibile se verificatosi in un passato lontano; ma se lo stesso evento si verifica nel nostro presente, esso divine invece fonte di incredulità, di scetticismo o, ancor peggio, di sospetto di imbroglio. Dunque, ipocrisia o necessità di due «programmi di verità» che rispondano a due esigenze diverse? Forse semplicemente il secolare arrocco della fede. Singolare l’esempio, riportato ancora da Veyne, del medico omeopata che, per quanto creda fermamente nella medicina alternativa, releghi l’utilizzo di quest’ultima soltanto ai casi più lievi o a quelli terminali, curando invece le malattie con la medicina tradizionale. Questo brusco cambiamento di verità fa dunque del medico omeopata un ipocrita? Assolutamente no: il medico risponde soltanto a due «programmi di verità» diversi a seconda del contesto.
 
Tornando alle preoccupazioni del piccolo Tommaso e alla risposta epistolare del Presidente Conte, la vicenda ci appare adesso decisamente più significativa. L’infanzia, una delle stagioni della vita, applica un proprio «programma di verità»: in questo caso quello della personificazione simbolica del Natale. Un «programma di verità» né più vero né più falso di quello applicato dagli adulti, ma semplicemente diverso. I due «programmi di verità», quello degli adulti e quello dei bambini, incorporano entrambi la reale preoccupazione che la pandemia blocchi la ritualità natalizia: un timore tutt’altro che infantile. Così come tutt’altro che infantile è stata la risposta di Palazzo Chigi che, per mezzo della simbologia di Babbo Natale, ribadisce a grandi e piccini le norme anti-covid necessarie per uno scambio di regali in tutta sicurezza.
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