Dimmi che non puoi finire, mica facile correre il rischio della felicità

Luigi Oliveto

05/11/2020

“Dimmi che non puoi finire”, il titolo è struggente, ha in sé un affanno, un patema; perché allude alla felicità, ma più che altro al pensiero di poterla perdere. Di questo parla Simona Sparaco nel suo ultimo romanzo pubblicato da Einaudi Stile Libero. La protagonista Amanda (nome affatto casuale, sta per ‘colei che deve essere amata’) fin da piccola vive nella consapevolezza che ogni situazione di felicità che la riguardi è destinata a finire, e sa (crede di sapere) persino il giorno in cui ciò accadrà grazie a una suo innato talento per la matematica: “Se i numeri mi venivano incontro, lo facevano sempre in serie per formare una data, e per avvertirmi che una felicità appena scoperta sarebbe finita per sempre.” Dunque, per scongiurare che questo accada, Amanda si premunisce, inibisce in sé qualsiasi sogno, progetto o scelta che possa farla sentire appagata. Non ha affetti, vive con la mamma che non chiama mamma, ma solo per nome, Emma. Il padre non c’è. Era piccola quando, condannato per bancarotta fraudolenta, fuggì in Sud America e per lei non è più esistito. Gli unici rapporti umani sono quelli con una vicina di casa, sua psicoterapeuta, e una soubrette, bòna, impudente, effimera. Amanda ha perso pure il lavoro e, così, accetta di fare la baby sitter a un bambino, Samuele. Non ama i bambini, dunque non potranno esserci coinvolgimento e gratificazione: è una garanzia affinché il lavoro possa durare. Ipotesi, però, presto smentita, perché Samuele la rispecchia in tutto: è un bimbo asociale, orfano di madre, con un padre completamente preso dal lavoro, in cerca di affetto. Inizia così un rapporto con il bambino e con suo padre che va a scalfire quell’approccio minimale, controllato, su cui Amanda aveva impostato una vita tutta in sottrazione (“Potevo imparare a guardarmi con i loro occhi, e lasciare la mia tana una volta per tutte. Ero pronta a incendiare la notte e anche il giorno”). Peraltro si sta avvicinando una scadenza, e nuovamente i numeri si fanno insidiosi. Questa volta Amanda dovrà scegliere. Correre il rischio di poter essere felice.
 
***
 
Il giorno in cui scoprii di avere una specie di superpotere era il 12 giugno del 1990. Il muro di Berlino era caduto da pochi mesi e i mondiali di calcio quell’anno si disputavano nel nostro Paese, ma io non seguivo né il mondo né il calcio, perché avevo dieci anni e mi interessavano soltanto due cose: un cucciolo di cane spelacchiato che dormiva ogni notte nel mio letto, e i numeri.
In matematica ero di gran lunga la più brava della classe. Con i numeri era stato amore a prima vista. Nelle prove scritte e nei tornei che organizzava la scuola, sembrava quasi che mi aspettassero, impazienti e ostinati, per essere sistemati al loro posto. Si fidavano di me, come io di loro.
Mio padre non avrebbe potuto dire lo stesso riguardo ai numeri del bilancio: la sua impresa edile stava fallendo. Non sapevo che la casa dove vivevamo fosse già in mano alle banche, ma dalla mia stanza, quell’autunno, avevo sentito i miei genitori gridare l’uno contro l’altro e, oltre ad aver appreso nuove e irripetibili parolacce, avevo capito molte cose, troppe.
Poco dopo lui se ne era andato, e non c’era stato un momento solenne, come un saluto o una promessa.
«Tuo padre starà via per un po’», si era limitata a dirmi Emma, mia madre, senza più chiamarlo «papà» come aveva sempre fatto. Al telefono, con i nonni o con le amiche, la sentivo parlare di processi e di fughe, come nei film che non mi faceva vedere e di cui non coglievo mai i risvolti delle trame. Anche la trama della mia vita si stava facendo oscura.
Mio padre doveva essersene andato una mattina in cui ero a lezione, e doveva averlo fatto in fretta, perché molte delle sue cose erano rimaste nell’armadio, come le scarpe di pelle nera e il maglione azzurro che odorava di pane. Cercavo di ricordare la consistenza delle sue spalle larghe che l’avevano riempito, o l’ultima volta che mi aveva permesso di giocare con la sua barba, ma era come quando Emma mi chiedeva di prenderle delle calze dal suo cassetto, gliele portavo, lei ci infilava la mano dentro e, trovando subito una smagliatura, scuoteva la testa: «Non ti si può mai chiedere niente». La trama della mia vita non era solo oscura, ma anche piena di buchi.
Anche se non ero più tanto certa della sua esistenza, avevo chiesto a Babbo Natale un cucciolo di dalmata. La sera della vigilia mi ero ritrovata a mangiare una pasta scotta da sola con Emma che fissava il vuoto. Aveva gli occhi gonfi e arrossati e di tanto in tanto mi sistemava i capelli dietro le orecchie ripetendomi che, bella com’ero, da grande li avrei «mandati tutti a stendere».
Guardavo la sedia dove avrebbe dovuto sedere mio padre. Non che fossi abituata alla sua presenza a quella tavola, però era la prima vigilia che non cenava con noi e non si lamentava della cottura dei gamberi o della consistenza della maionese. Vedere quella sedia vuota mi faceva pizzicare gli occhi. Avrei voluto dire qualcosa, ma avevo capito che chiedere di lui sarebbe stato come camminare a piedi nudi su un vetro rotto, e quel vetro rotto era mia madre.
La mattina dopo, sotto l’albero che lei non aveva avuto la forza di decorare, avevo trovato uno scatolone del supermercato con dentro un cucciolo di meticcio con quattro peli spettinati che sembrava più allibito di me.
Nei giorni di Capodanno non eravamo andate in montagna come l’anno prima. Io ed Emma avevamo trascorso le vacanze chiuse ognuna nella propria stanza. Io giocavo con le mie Barbie, e per incanto mi ero ritrovata in camera il televisore del tinello, che ero improvvisamente libera di accendere in qualunque momento. Il cucciolo, che avevo battezzato Billo, dormiva nel mio letto, faceva la pipì sulla moquette e la riempiva di chiazze che non sarebbero andate più via.
Qualche volta, durante il giorno, mi sembrava di sentire il rumore della porta che si apriva e la voce roca di papà che rompeva il silenzio, ma quando correvo all’ingresso era tutto spento e non c’era nessuno, come nei film di paura che Emma non si preoccupava più di non farmi vedere alla tv. Soprattutto quando la sera s’imbottiva di gocce. Non di rado capitava che, per non doversi svegliare presto la mattina, le somministrasse anche a me.
In quel periodo cominciarono ad apparirmi ripetutamente il 12 e il 6: dagli adesivi dei prezzi, mentre ero in fila con Emma al supermercato, o nei risultati delle espressioni. Li vedevo di continuo e non riuscivo a spiegarmi il perché.
Per tutto l’ultimo quadrimestre non ero quasi mai andata a scuola. «Tanto sei brava», diceva Emma, tirando su la serranda della mia camera quando era già quasi ora di pranzo. La maggior parte delle volte mi ritrovavo a fissare il Paperino disegnato sull’orologio della sveglia che, guarda caso, proprio in quel momento segnava le 12.06.
«Amanda, avevi promesso che te ne saresti occupata in tutto e per tutto», si lamentava Emma, strofinando il muso di Billo contro l’ennesima chiazza di pipì.
La mattina del 12 giugno mi portò a scuola. Era anche l’ultimo giorno e non avrebbe potuto fare altrimenti. Nel cortile dell’ingresso la maestra m’incoraggiò, dicendomi che le lezioni che avevo perso per via della mononucleosi – era la scusa che Emma aveva inventato per giustificare le mie assenze, ottenendo l’effetto di crearmi il vuoto intorno – non mi avevano lasciata troppo indietro. Era certa che avrei sostenuto gli esami senza difficoltà.
Il sole era alto nel cielo e i colori del giardino più accesi che mai. I miei compagni avevano, come me, le maniche della divisa arrotolate, ma il loro più grande cruccio era che cosa scegliere per merenda al bar, dove avevano il conto aperto e illimitato, quando Emma aveva già cominciato a fare la spesa al discount. L’appartamento in cui ero cresciuta era pieno di scatoloni e avremmo impiegato i mesi successivi a trasferirci a casa dei nonni e svendere i vecchi mobili d’antiquariato che avevano arredato la mia infanzia. Guardavo il parco dove facevamo ricreazione, chiedendomi in quale scuola diroccata sarei finita alle medie.
Contai 12 caramelle nel pacchetto che avevo appena comprato e 6 margherite disposte a cerchio nel tratto d’erba vicino al muretto su cui quel giorno me ne stavo appollaiata come un piccione. In classe, sulla lavagna, la maestra aveva scritto un’equazione che cominciava con 12 x 6. 12 era il numero che appariva in rosso sul calendario e 6 il mese di giugno. Al suono della campanella mi avviai all’uscita insieme alla mia migliore amica di allora e, mentre lei fantasticava sulla gita in barca che avrebbe fatto quel fine settimana, io mi domandavo in quali condizioni avrei trovato Emma oltre il cancello dell’ingresso.
L’ultima volta si era presentata con il pigiama sotto uno spolverino scamosciato. Quel giorno la vidi spuntare fuori dalla vecchia utilitaria grigia – che aveva comprato quando la Mercedes della società era finita tra i beni in liquidazione – con indosso una camicia bianca e un paio di jeans. Portava gli occhiali tigrati di quando era di cattivo umore e i capelli unti e accroccati con un mollettone di plastica fucsia, ma aveva fatto passi avanti.
Il muso di Billo comparve dietro il finestrino alle sue spalle. Era cresciuto molto nelle ultime settimane. Le orecchie rizzate per l’eccitazione di rivedermi. Emma era uscita per venirmi incontro e aveva inavvertitamente lasciato lo sportello aperto. Accadde tutto in modo così rapido che non ebbi neanche il tempo di reagire.
Quando mi accorsi della macchina che stava arrivando, serrai gli occhi. Avvertii solo un tonfo, sordo, inequivocabile. Poi, la mia amica del cuore che sibilava: «Ohh-mioo-Dioo».
Riaprii gli occhi e lo cercai. Era come un vecchio pupazzo abbandonato sul ciglio della strada. I quattro ciuffi di pelo ancora più scomposti, le zampe immobili. Non era più lui. E non c’eravamo più noi.
Era il 12 giugno. 12-06. Dodici come le caramelle che tenevo in tasca, sei come le margherite disposte a cerchio nel prato della scuola. E quel giorno finiva la mia vita piena di infinite possibilità.
L’anno successivo fui perseguitata per mesi da un 16 e da un 5, e guarda caso il 16 maggio si ruppe la tv e non potei vedere l’agognato bacio tra Terence e Candy che aspettavo con ansia; poi arrivò anche il mio primo bacio, e altri numeri a comporre la data della fine della mia prima storia d’amore. Decisi di ignorarli, senza mettere in conto quanto avrei potuto soffrire.
Molte altre epifanie si avvicendarono prima che capissi il senso di quel potere assurdo e ridicolo che mi era capitato, ma era stata la morte del mio cane a sancirlo.
Se i numeri mi venivano incontro, lo facevano sempre in serie per formare una data, e per avvertirmi che una felicità appena scoperta sarebbe finita per sempre.
 
[Da Dimmi che non puoi finire di Simona Sparaco, Einaudi, 2020)
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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