Dino Buzzati, appuntamento all’ottavo piano

Massimiliano Bellavista

11/12/2019

Si dirà, Dino Buzzati non è stato dimenticato: è stato ed è tuttora certamente sottovalutato per quella che è la sua reale complessità.  È soggetto ad una lettura frammentaria, rituale e disordinata. Invece non se ne dovrebbe buttare via nemmeno una goccia, anzi, una parola. Buzzati non era per niente uno scrittore poco (o meno) dotato rispetto ad altri della sua generazione. Parlava poco di sé perché aveva tanto da raccontare e in forme molto moderne. Pirandello, Bontempelli, Landolfi, Calvino, Buzzati: si dice di sovente che questa potrebbe essere una ideale linea di grandi scrittori nostrani che privilegiavano il fantastico, l’assurdo, anche il mistero; certo il nostro amava assai meno di Calvino parlare del proprio lavoro, voleva che i lettori si concentrassero sul risultato. Ma non è da meno perché non era da tutti prendere e risollevare da solo un genere, quello del racconto fantastico e del mistero, e ripotarlo in auge con l’equivalente letterario di un pugno di ferro in un guanto di velluto, cioè la forza brutale di parole che solo a prima vista paiono asciutte, pulite, “educate”, ma sono in realtà capaci di lasciare un ricordo indelebile. Giorni fa mi soffermavo con degli studenti sulla complessità di piani di lettura e di stratificazioni semantiche che caratterizzano la “vera“ letteratura, dove i significati manifesti sono spesso assai meno numerosi dei messaggi coperti, dei wormhole che connettono ad epoche letterarie diverse e (apparentemente) distanti.

Prendete il poco conosciuto “Sette piani”, uscito nel 1937 e poi inserito nei “Sessanta Racconti” che conquistarono lo Strega: capirete quello che si intende. La trama descrive la distopica odissea dell’avvocato Giuseppe Corte (Corte non Conte), il quale in un giorno di marzo si fa ricoverare in un moderno ospedale di una grande città italiana, specializzato nella cura del male che lui crede di avere. Un male di cui non si parla mai fino in fondo. Perché ancora non c’è. L'ospedale, strutturato in 7 piani, colloca i sani all'ultimo e poi gli altri nei piani inferiori. Ogni livello inferiore corrisponde ad un aggravamento del male. Corte inizia un apparente iter verso la guarigione, ma una serie di cause concatenate fa sì che venga trasferito, anzi trascinato, nei piani più bassi. Prima il ricovero di una donna che vorrebbe, al settimo piano, tre camere (per lei e i 2 figli), poi gli scrupoli di un medico allarmista, successivamente un eczema da stress che gli appare su una gamba e lo fa scendere addirittura di due piani, poi un errore amministrativo, infine le ferie dei manager del nosocomio. Conte scende all’ultimo piano e lì, ormai abbattuto e vinto, si fa le ultime fatidiche domande, incontrando la fine del racconto: In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel precipizio? Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce. Non pensate che sintetizzare la trama del racconto possa in alcun smodo sminuire il piacere di leggerlo.

I racconti di Buzzati sono così, ad ogni lettura si scoprono nuovi particolari e ognuno contiene il DNA completo in grado di rigenerare il tutto. Se fossero una pianta, sarebbero in grado di rigenerare le parti mancanti semplicemente immergendole in acqua come si fa con una talea. Forse era proprio questa la sua ambizione. Del resto ogni scrittore è in fin dei conti un narciso e un esibizionista, Exegi monumentum aere perennius, ci dice Orazio. Ora, capita che questo autore sia forse uno dei più bravi a creare piccoli racconti che come lettori siamo portati a sottovalutare, a inghiottire come una briciola di pane. Salvo poi scoprire che non siamo noi a nutrirci di quella briciola di pane, ma una volta entrataci dentro è lei a nutrirsi di noi come un virus, imbevendosi di tutte le nostre sensazioni. Saziandoci. Insomma, se volessimo giocare al gioco del “se fosse” e parlassimo di canzoni, Buzzati sarebbe il perfetto prototipo del creatore di tormentoni estivi, quelli che ti restano nella mente anche se il vinile dove erano incisi è già morto e sepolto da un pezzo. Quei racconti sono spesso scritti come pièce teatrali, come soggetti per il cinema, ed infatti è proprio quello che è successo a più riprese a Sette Piani.
Questo viaggio dimensionale nell’infinitamente piccolo inizia con un uomo che è bloccato in una prigione senza sbarre, a cui si è spontaneamente condannato.  È quel senso del nulla, quello state of nothingness alla Poe, in cui, guarda caso, sempre si precipita.  Gli archetipi della caduta, del buio ricordano molto “Il pozzo e il pendolo”, ispirano paura al lettore poco a poco perché dietro vi è uno studio profondo delle percezioni sensoriali e la paura più forte e duratura è proprio quella che parte da una goccia di sudore, da un leggero brivido lungo la schiena. L’ultima cosa che il protagonista del racconto di Poe ricorda del mondo reale sono le parole dei giudici; poi lo svenimento e il nulla: qui questo terrore si rinnova ogni volta, perché i giudici sono sostituiti ogni volta da un medico diverso. Che ogni volta pronuncia incurante una fredda sentenza di morte.

In secondo luogo dicevamo: la paura del buio. Buio è distanza da ogni certezza percettiva, è incertezza, è tempo per sentire in modo angosciante, come in una camera anecoica, il rumore di noi stessi in un silenzio che fa impazzire. Ma il buio totale è anche metafora del degrado dei sensi, il non poter più osservare il paesaggio esterno, come Corte fa all’inizio del racconto: le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce. C’è anche molto umorismo in Buzzati. Certo, non ancora un’ironia istituzionalizzata, ma c’è davvero. Corte è un convinto ipocondriaco e, da quel punto di vista, trova quel che si merita. Però, ci siamo detti riflettendo sul racconto, non è che il paradosso è proprio che Buzzati affida ad un ipocondriaco il compito di rappresentare una intera categoria di malati, alle prese con un sistema curativo alienante? Se fosse così il racconto sarebbe una critica al sistema sanitario che vigeva negli anni Trenta. I grandi e un po’ disumani ospedali dove ogni paziente è un caso clinico da un lato.  I sanatori che in epoca pre-antibiotici ospitano pazienti affetti da TBC, spesso incurabili, emarginati dalla società, più detenuti ed esiliati che veri malati, dall’altro.

C’è però in Buzzati anche la precisa intenzione di divertire il lettore nel senso etimologico del termine, ovvero ingannarlo, sviarlo, portarlo altrove. Depistarlo. Dove andrà Corte? Arresterà una buona volta la sua caduta?  Uscirà da quella prigione? Ma il lettore oggi giorno già ne dubita: ha appreso la lezione da autori come Stephen King, sa bene che, in realtà, da certe ossessioni non ci si libera mai…. Se la prigione per nostra sfortuna è dentro la nostra mente non si riesce più a cogliere la differenza tra ciò che veramente accaduto e ciò che è solo suggestione, non ci si può liberare perché è il concetto di libertà stessa che è ormai irrimediabilmente compromesso. E qui si apre un’altra finestra, un’altra possibilissima chiave di lettura, quella della parabola storica, in un racconto scritto nel 1937, in piena dittatura. C’è sicuramente Kafka, cui Buzzati è stato accostato troppe volte in un modo che tra l’altro mal sopportava (in una famosa intervista del 1962 sul settimanale “Tempo”, Buzzati sbotta dicendo Kafka è Kafka, io sono io. Piantiamola con questa storia) e perciò, tralasciamo di citare i forti paralleli tra i due scrittori. Siamo infatti sicuri che ci sia un ottavo piano, proprio sopra il candido nosocomio che lo scrittore immagina, una sorta di elegante lounge dove al termine di queste righe lui ci riceverà per un drink, e non vogliamo irritarlo inutilmente.

E allora saltando Praga muoviamoci oltre e immaginiamo per un attimo che i sette piani siano gironi di un modernissimo e personalissimo Inferno. Gli infermieri non sono che dei traghettatori. I pazienti sono le anime dannate.  E Corte è Dante, solo, senza il suo Virgilio. Tanto, a che gli servirebbe? Non è previsto un Purgatorio, figurarsi un Paradiso. Ma Corte è anche Drogo: tutti e due figli del caso e dell’errore; Drogo nel Deserto dei Tartari era stato spedito alla Fortezza per un errore burocratico, così come Corte precipita di piano in piano per motivi assolutamente futili e casuali. Lo abbiamo detto, in ogni racconto delle raccolte di Buzzati c’è un assaggio di ogni aspetto della sua produzione letteraria; ciò che varia è solo bilanciamento e la proporzione reciproca di queste “spezie”. Corte però è anche un personaggio alla Fregoli: insomma un autentico trasformista che appena lasciato nei panni di Drogo ecco che ci attraversa la strada vestito da Alice.  Anche Alice «cade» in un modo altro. In fin dei conti il racconto è quello di una caduta soggetta a continue distorsioni temporali e fisiche: il tempo in “sette Piani” non si misura mai con la stessa unità, a volte sono ore, a volte giorni a volte settimane o mesi.

E come in una versione letteraria della teoria della relatività, anche il punto di osservazione del lettore cambia le carte in tavola: forse è una illusione credere che stiamo attraversando con Corte i piani di un ospedale, forse siamo stati solo ed eternamente con lui in sala d’aspetto in attesa di una cura che non ci sarà mai, perché non si può curare ciò che non esiste. Ma ciò che non esiste, a volte, è capace di uccidere perché basta immaginarlo.  E allora il tema di “Sette Piani” sarebbe null’altro che l’attesa. Come in Beckett dove Vladimir ed Estragon stanno aspettando un certo "Signor Godot". Non vi è nulla sulla scena, solo un albero dietro ai due personaggi che regola la concezione temporale attraverso la caduta delle foglie che indica il passare dei giorni. Ma Godot non appare mai sulla scena, Godot oggi non verrà, ma verrà domani. Che sia il professor Dati? È lui l’inventore della cura che qui si pratica, lui il progettista dell’intero impianto dicono a Corte. Ma di questa e altre illusioni di cui questo racconto è un incredibile e magico proiettore, chiederemo sicuramente conto all’autore: bisognerebbe solo che qualcuno di consentisse di raggiungerlo all’ottavo piano.
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Massimiliano Bellavista

Massimiliano Bellavista
Massimiliano Bellavista è consulente di direzione, blogger (www.thenakedpitcher.com) e docente di Management strategico presso l’Università di Siena. Vincitore di premi letterari, suoi racconti e poesie sono pubblicati su riviste e antologie. Scrive una rubrica fissa per la rivista stroncature.com. Tiene regolarmente seminari di scrittura e in merito alla valorizzazione ed alla comprensione del libro antico come bene letterario e culturale. A Siena anima la scuola di scrittura Recensio. Riguardo alle sue opere di narrativa, poesia e management, pubblicate in italiano ed in inglese, tra le più recenti ricordiamo: Le reti d’impresa (Franco Angeli, 2012); Anatomia dell’invisibile (Tabula Fati, 2017); L’ombra del Caso (Il Seme Bianco 2018) e The Naked Pitcher (Licosia 2018); Dolceamaro (Castelvecchi 2019); Marketing e management degli impianti sportivi (Azzurra 2019); Vertical Farming (Licosia 2019)
 
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