Emanuele Altissimo e i suoi giganti del dolore

Luigi Oliveto

28/02/2019

Il romanzo d’esordio di Emanuele Altissimo (“Luce rubata al giorno”) è una storia di notevole forza narrativa sul dramma della malattia mentale. Protagonisti sono due fratelli, Olmo e Diego, e un nonno che si ritrova ad essere genitore dei due ragazzi poiché i veri genitori sono morti. La vicenda si svolge d’estate, in una baita valdostana di proprietà della famiglia, dove i tre rifugiano per cercare quiete, ristrutturare il loro dolore. Ma, purtroppo, a un dramma se ne aggiunge un altro. Olmo, infatti, si rende conto che Diego ha comportamenti sempre più strani, va creandosi un universo fuori dalla realtà. E vorrebbe aiutarlo, costi quel che costi. Persino nei sogni che ogni notte lo tormentano, Olmo vorrebbe salvare Diego: “Anche nelle mie notti c’è posto solo per mio fratello. Lo seguivo mentre si allontanava nell’oscurità, gli correvo dietro. Lo tiravo per una spalla e urlavo la mia rabbia con la voce amplificata degli incubi. Lui però non rispondeva mai. Restava fermo con un sorriso spaventoso”. Il tredicenne Olmo, deve dunque crescere alla svelta ed avere molto coraggio. Non a caso le montagne che lo circondano si ergono, simbolicamente, come giganti; e il gioco che accompagna i suoi giorni è la costruzione del modellino dell’Empire State Building, messo insieme mattoncino dopo mattoncino. Lo stesso autore ha dichiarato che “i miei personaggi li ho immaginati come dei giganti”. È un gigante ferito Diego “incapace di farsi bastare il suo mondo, che sogna di scalare le montagne e prendersi il cielo”; lo è il nonno, che pure nelle fotografie stringeva a sé i nipoti quasi avesse paura che scappassero; e lo è Olmo, il più piccolo e forse il più titanico dei tre, che sa affrontare dolori estremi con estremo amore.
 
***
 
Un anno prima Diego era entrato in camera mia a dirmi di fare la valigia. Era il 30 giugno del 1998, io avevo tredici anni e lui ventuno.
Quel mattino portava la sua giacca militare e il profumo di nostra madre, che usava come dopobarba ogni volta che si rasava la testa. Mi sedetti contro la testiera e lo guardai, ma appena feci per parlare sollevò una mano.
“Prendine una grande” aggiunse brusco. “Buttaci dentro tutto.”
“Tutto per cosa?”
Mi guardò e si sedette sul bordo del mio letto.
“È stato un anno faticoso.” Si premette gli occhi coi palmi delle mani. “Hai bisogno di una vacanza.”
“Non lo so.”
“Lo so io.”
“Dove andiamo?” domandai.
Si alzò, fece alcuni passi a testa bassa. Si fermò davanti alla scrivania e prese una fotografia che avevo incorniciato dopo l’incidente.
La studiò a lungo, respirando con il naso. Sembrava sul punto di prendere una decisione quando lo chiamai. Mi guardò e lasciò cadere la cornice. Osservò i pezzi di vetro sul parquet, uno lo schiacciò sotto la scarpa. Feci per scendere dal letto, ma lui alzò di nuovo la mano.
“Lasciala dov’è” disse.
“Ma devo togliere i vetri” mormorai. La cornice era accanto alle sue scarpe.
Diego attraversò la camera.
“Adesso non c’è tempo” disse. “Lo farai quando torneremo.” Indugiò un istante. “Prendi gli scarponcini. Partiamo appena torno.”
“E dove vai?”
“A fare delle cose con Aime.”
“Quali cose?”
“Cose che non ti riguardano” fece, andandosene via.
Saltai giù dal letto e raccolsi la cornice. Sfilai la fotografia, attento a non tagliarmi, e la misi al sicuro nella tasca del pigiama. Andai a prendere le scarpe, radunai i pezzi di vetro in un mucchietto che raccolsi con la paletta. Buttai tutto nella pattumiera ed entrai in bagno. Il lavandino era cosparso di capelli, dietro al rubinetto c’era il rasoio di mio fratello.
Cominciai a pulire il lavabo con la spugna. Lavai via i capelli e li osservai mentre sparivano dentro lo scarico.
Chiusi la porta a chiave, mi guardai allo specchio. Sotto gli zigomi mi erano spuntati dei peli nuovi, neri come insetti. Erano comparsi prima degli esami, insieme a quelli sugli avambracci e alle vene sporgenti sulle mani. Sollevai il rasoio, lo appoggiai su una guancia.
La prima volta che Diego si era fatto la barba, il nonno aveva insistito per aiutarlo. Si era agitato come un orso intorno a un vespaio e aveva trattenuto il fiato a ogni passata di lametta. Poi, quando tutto era finito, si era accorto di avere della schiuma sul naso. Diego era scoppiato a ridere, e quella sera il nonno aveva aperto una bottiglia di vino per festeggiare l’evento.
Abbassai il rasoio, lo sentivo pesante. Soltanto allora vidi la macchia rossa sulla pelle. Ma non c’erano tagli, il sangue di Diego sembrava mio.
Era cambiato da un giorno all’altro, dopo il primo anno di università.
Si era iscritto al corso di filosofia, però a gennaio aveva saltato gli esami dicendo che non era pronto. Quell’inverno era andato su e giù da Torino alla Valle d’Aosta, dove faceva il maestro di sci. Dopo era tornato a studiare con foga.
Mi cercava per parlarmi di quello che leggeva, convinto che potessi capirlo. Aveva scoperto un vecchio libro sull’occulto, con le piramidi in copertina. Passava molto tempo a trascriverne brani su dei fogli e, quando finiva, mi costringeva a leggerli. Lo facevo mentre lui esaltava l’enormità dei suoi pensieri. Diceva di essere vicino a qualcosa d’importante che solo lui riusciva a vedere. Parlava dei profeti biblici, di come Isaia aveva ricevuto la verità. Bastava fare le giuste domande.
A volte, dopo quei lunghi discorsi, m’interrogava per essere certo di avere il mio sostegno e pretendeva che riconoscessi la sua grandezza. Se non lo facevo, mi guardava con sospetto. Malgrado l’entusiasmo, agli orali di giugno non si era presentato.
Alla fine di agosto aveva portato a casa una divisa militare, un opuscolo dell’Accademia di Modena e uno scatolone pieno di libri e film di guerra. All’improvviso non parlava più, girava per casa con la giacca della divisa ed evitava i pasti per stare in camera sua. Un mattino presto, prima di entrare in bagno, avevo sentito la sua voce oltre la porta chiusa.
Mi ero fermato ad ascoltare.
Parlava in fretta, come si fa quando si è arrabbiati con qualcuno. Ogni tanto alzava la voce, poi esplodeva in una risata bassa, di una ferocia controllata. Alla fine avevo spinto la porta lentamente e l’avevo sorpreso a radersi la testa. Per terra c’erano ciocche di capelli scuri. Era a petto nudo davanti allo specchio. Si raschiava con la lametta, la ripassava nonostante i tagli. Sulla nuca spiccava una voglia rossa, simile a quella di nostra madre.
Si era voltato a guardarmi e per la prima volta mi era sembrato diverso.
“Con chi parlavi?” gli avevo chiesto con cautela.
Lui si era rivolto al suo riflesso. “Ripetevo la lezione.”
“Quale?”
A quel punto il nonno mi aveva chiamato dalla cucina.
“Farai tardi a scuola” aveva detto Diego.
“Che cosa stai studiando?”
Aveva sciacquato il rasoio e se l’era passato sulle tempie, dove c’erano ancora delle chiazze di schiuma da barba. Poi aveva sorriso.
 
[da Luce rubata al giorno di Emanuele Altissimo, Bompiani, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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