Guglielmo Petroni, il Rutilio Namaziano del fiume Serchio

Massimiliano Bellavista

27/11/2019

Ci sono scrittori che hanno conosciuto forme di oblio molto strane e subdole, le quali a momenti illusori di fama hanno saputo alternare fasi di sommersione sempre più profonda e dolorosa. Guglielmo Petroni è uno di questi. Trai venti e trent’anni è conosciutissimo, saldamente inserito all'interno del circolo fiorentino delle Giubbe Rosse, celebrato da Montale e Vittorini come scrittore di assoluto rilievo. Poi la Seconda Guerra Mondiale. E in seguito alcune scelte di campo espressive e di carattere letterario che lo relegano di colpo tra gli autori di secondo piano. Nel 1974, tuttavia, vince il Premio Strega con “La morte del fiume”. Ma ciò non frena il verificarsi di una progressiva e totale sparizione, anche dalle antologie scolastiche, dove perfino del suo romanzo più celebrato e salutato come un capolavoro “Il mondo è una prigione” non rimane sostanzialmente niente (molto più tardi Camilleri scriverà: Nella mia vita ci sono stati due libri che mi hanno formato non come scrittore, ma come persona. Il primo era stato La condizione umana di Malraux, il secondo indubbiamente fu Il mondo è una prigione).

Ci sono scrittori che devono chiudere dietro di loro una porta semplicemente perché sembra che siano gli ultimi a passare da un pertugio sempre più stretto che prima o poi si ostruirà. In genere essi sono gli scrittori che parlano di ritorni. Oggigiorno non si scrivono più bei romanzi sul tema del ritorno. Forse perché non si cerca più l’avventura, forse perché ormai tutto il mondo è paese e la tecnologia ci consente di tenere ogni cosa, almeno apparentemente, sott’occhio anche rimanendosene comodamente (vigliaccamente?) a distanza. O forse semplicemente perché non sappiamo bene verso cosa ritornare, si sono persi certi punti di riferimento; siamo sempre più chiusi sotto vuoto nell’individualismo più esasperato e il ritorno al mondo reale ci spaventa e a tratti addirittura non ci manca. Curioso che proprio in questi giorni un conterraneo di Petroni, lucchese come lui, Paolo Del Debbio, si lamenti proprio di questo in un libro raccontando che i nostri giovani hanno perso “la scheggia”, ovvero quel simulacro di ancoraggio al reale, la boa affettiva attorno alla quale compiere, quando necessario, la virata del ritorno: la scheggia di legno staccata dalla statua di San Paolo, e benedetta dal prete, che, racconta Del Debbio, si cuciva in tasca agli emigranti che se ne andavano in America.

Guglielmo Petroni torna al fiume della sua infanzia sotto lo pseudonimo letterario di Stefano Calzolari, ma né lui né il suo personaggio ne “La morte del Fiume” riescono mai a specchiarvisi. Il Serchio della sua infanzia infatti non esiste più. Ma lui non si dà per vinto, non si scoraggia e prosegue il suo viaggio di ritorno, Petroni è il Rutilio Namaziano della sua terra: come l’autore latino del quattrocento dopo Cristo in fuga da una Roma pericolosa e decadente, Petroni è un aristocratico del pensiero. Lui, nato da una famiglia modesta, un intellettuale in fuga (proprio da Roma, come Rutilio, quella Roma dove ha sofferto durante la guerra ma dove poi ha raggiunto la fama e il benessere), un uomo maturo e scettico sui suoi tempi che vive e per cui il fiume non rappresenta null’altro che una scusa per parlarne, nient’altro che la sua personalissima scheggia. Il modo di trattare di un mondo che non c’è più e a cui è affezionato. Fare ritorno è comunque un desiderio ambizioso e composito, un piatto ricco scaricato sul tavolo da gioco dove ognuno aggiunge il suo carico: se per Stefano Calzolari c’è la voglia di non disconoscere il suo passato e di ritrovare le radici della sua vita e del suo impegno, per lo scrittore invece si tratta del bisogno di ritornare nel luogo di nascita, di ascoltare la lingua parlata che comunque evolve, di confrontarla con l'apprezzata prosa della nostra giovinezza, e di constatare che, un modo vivo di esprimersi, anche per un toscano, ormai è ii ritorno al vissuto e popolare. È stato come dire che ormai più nessuno, salvo i Toscani, ha bisogno in Italia di 'risciacquare i panni in Arno'. Per quanto mi riguarda, pii modestamente i miei panni ii ho ravvivati lavandoli nel Serchio.

Questo ritorno vive delle pagine bellissime e delicate proprio all’inizio del volume. Il grande letto del fiume sembrava che fosse tutto sparito.  E per un autore che ha conosciuto povertà, guerra, prigione, sofferenza si apre una sequela di immagini stranianti che rimandano ad una modernità senza capo né coda, quasi un futuro distopico. Non c’è più la natura che ricordava e immaginava. Ci sono una sequela di villette lungo cui si trova a camminare, dall’architettura vagamente avanguardista, e giardinetti cosparsi di statuine classiche in cemento compresso. E poi, come se non bastasse, si nota un uso ironico e spiazzante di un’icona dei nostri tempi che ricorda la fine di “Full metal Jacket” se dalla strada si intravedono cancellate in ferro battuto nonché qualche personaggio di Walt Disney in terracotta colorata. Nel film si tratta di una sequenza finale, nel libro siamo appena all’inizio di una storia inquietante. E così il testo vive di rimandi sottili e ancor più sottili ironie. Il protagonista cerca il fiume, ne è letteralmente assetato e invece cosa vede? Una sorta di grottesca versione dell’Infinito leopardiano: Bastò l’attimo necessario a voltar gli occhi più in là della siepe, su quello spazio verde, perché si sentisse impazientemente proteso più avanti e già ragionasse di ciò che stava dietro l’argine alto che sbarrava l’orizzonte…”  Dietro l’argine non c’è purtroppo l’infinito, c’è un ecosistema morto: una montagna di sporcizia ai fianchi del fiume e l’acqua che “Era un liquido opaco, marrone scuro. Vi immerse una mano e ne sentì la viscidezza velenosa. Anche un fiume può morire. Stefano alzò gli occhi verso l’alto perché stavano per riempirsi di lacrime.

Del resto non può non esserci sofferenza in un viaggio che riavvolge il filo del tempo e compie il percorso inverso di quello che, esattamente dieci anni più tardi da questo ultimo suo romanzo, nel 1984 Petroni descriverà nella sua autobiografia “il nome delle Parole”.  Qui l’autore narra il percorso di vita che lo porta dall’infanzia difficile (la “casa povera”) alla consacrazione (la “casa giusta”), ne “La morte del fiume” invece dalla «casa giusta” si ritorna dritti dritti «casa povera», ben sapendo i rischi che si corrono: C’è chi torna nei luoghi della gioventù, dell’infanzia, e non riesce più a trovare nulla: gente che potrebbe anche non essere esistita. C’è chi cerca ciò che non è mai esistito, perché ha detto di sé, a se stesso, cose non vere. C’è chi ha tramutato la propria realtà passata in un mito e, se lo ricerca, si perde. Gli uomini temono il proprio avvenire, ma è del passato che debbono aver paura. Nel libro, come in ogni buon libro, vi sono svariate chiavi di lettura e dunque ci si ritrovano anche temi molto attuali, cioè il riferirsi a questioni ambientali allora in anticipo sui tempi e oggi assai sentite. Argomenti come l’inquinamento, il continuo stupro delle vie d’acqua cittadine, i centri storici delle nostre città, belli ma fragili, le periferie che si sono innestate senza criterio in questo corpo generando continue e sempre peggiori crisi di rigetto, che ancora adesso non si ha gli anticorpi per gestire.

Non solo di natura si parla, ma intensamente, fortemente, di cose e soprattutto di uomini e delle loro storie. Affreschi a tinte vive di cui il volume è pieno, raffiguranti con pennellate di volta in volta drammatiche o sarcastiche schiere di uomini e mestieri ormai scomparse e inghiottite dal tempo e dallo sviluppo, come gli acquaioli, o come coloro che raccoglievano il bottino in città per venderlo quale concime ai contadini quello che cavavano dalle fogne del nostro quartiere era meno apprezzato, era troppo magro…. Quello dei quartieri del centro era più grasso, la merda dei signori, dicevano, vale di più. Di questo libro da riscoprire, di questo viaggio, alla fine si fa un bilancio. E si tratta in questo senso di un libro molto schietto e onesto perché a fare questo bilancio sono proprio Sante Martelli e Stefano Calzolari, amici d’infanzia ormai invecchiati, nel loro dialogo finale. Nonostante tutto, nonostante l’infanzia difficile e povera, la guerra e l’inquinamento, tale bilancio rimane positivo. Perché, in fin dei conti, dicono di loro stessi i protagonisti, neanche loro sono innocenti e quei ricordi, quelle esperienze: Tutto ci ha servito.

Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, /di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia, dice Amleto per ribadire all’amico la sua lacunosa conoscenza del mondo. Quei versi alla fine del libro, quasi con la stessa cadenza, sembrano proprio voler riecheggiare se Petroni fa dire a Sante: T’assicuro Stefano, ci sono più legami tra le cose, sia pur quelle banali, domestiche e di tutti i giorni e quelle che riguardano il cielo e la terra, di quanti non ce ne siano tra il grano e il pane.
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Massimiliano Bellavista

Massimiliano Bellavista
Massimiliano Bellavista è consulente di direzione, blogger (www.thenakedpitcher.com) e docente di Management strategico presso l’Università di Siena. Vincitore di premi letterari, suoi racconti e poesie sono pubblicati su riviste e antologie. Scrive una rubrica fissa per la rivista stroncature.com. Tiene regolarmente seminari di scrittura e in merito alla valorizzazione ed alla comprensione del libro antico come bene letterario e culturale. A Siena anima la scuola di scrittura Recensio. Riguardo alle sue opere di narrativa, poesia e management, pubblicate in italiano ed in inglese, tra le più recenti ricordiamo: Le reti d’impresa (Franco Angeli, 2012); Anatomia dell’invisibile (Tabula Fati, 2017); L’ombra del Caso (Il Seme Bianco 2018) e The Naked Pitcher (Licosia 2018); Dolceamaro (Castelvecchi 2019); Marketing e management degli impianti sportivi (Azzurra 2019); Vertical Farming (Licosia 2019)
 
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