I fiori di Valérie Perrin si mantengono freschi

Luigi Oliveto

25/06/2021

Ormai è un longseller. Sono due anni che il romanzo di Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori (traduzione di Alberto Bracci Testasecca, E/O, 2019] occupa ininterrottamente le classifiche dei più venduti. Prima fu il passaparola, poi l’apprezzamento della critica (anche di quella tirata allo schifiltoso) che certificò come questo libro – molto francese nelle atmosfere, del tutto universale nei sentimenti in cui fruga – possegga i requisiti per dirsi bello e originale. Racconta di una donna, Violette Toussaint, che dopo essere stata guardiana di un passaggio a livello, si riconverte, per necessità, a sorvegliare su passaggi più estremi, quelli nell’al di là: custode di un cimitero in una cittadina della Borgogna. L’aspetto trascurato non nasconde, però, una donna di personalità, di un certo fascino, solare, a tratti misteriosa. Vive da sola (dopo che il marito è sparito nel nulla, e meglio così) nella casa in uso a chi svolge quella poco allegra mansione. L’appartamentino ha una porta all’esterno e una all’interno della struttura cimiteriale. E da quel presidio posto tra il silenzio dei trapassati e il parlottio dei viventi, svolge il proprio compito con zelo e generosità. Prendendosi pure cura dei vivi, di coloro che vanno lì in visita ai propri cari e ai quali lei offre il conforto di una parola, di un caffè o, se il dolore è tosto, di un buon grappino. La vicenda ha una svolta quando una mattina presto (il camposanto non era ancora aperto ai visitatori) bussa alla porta un tizio arrivato da Marsiglia che, per ottemperare alle ultime volontà della madre, dovrebbe porre le sue ceneri nella tomba di un signore a lui sconosciuto. Ed è da qui che il racconto prende a rivelare intrecci, storie, misteri, che, in vario modo, vanno a incrociare la vita di Violette. Una vita affatto facile. Molti e brutti colpi, infatti, hanno messo in discussione il suo ottimismo, il suo inarrendevole sguardo di stupore sulle cose. Si avvia così un gioco ben costruito di scarti temporali, memorie, rievocazioni. La vicenda esistenziale di Violette va a confondersi con un variegato universo di altrui esistenze; quasi in un interscambio di sentimenti, visioni di vita, coscienze e inconsapevolezze. In questo gioco di specchi, in questo avvicendamento di figure, caratteri, emozioni, circostanze (dalle più cupe alle più buffe) viene allora naturale a chi legge vedervi riflesso qualcosa di sé. Perciò il libro piace. Per come il racconto, pagina dopo pagina, trovi in cuor nostro facili e familiari sponde.
 
***
 
Bussano delicatamente alla porta. Non sto aspettando nessuno, del resto è un pezzo che non aspetto più nessuno.
Ci sono due porte d’ingresso a casa mia, una dalla parte del cimitero e l’altra dalla parte della strada. Éliane si mette ad abbaiare verso la porta sul lato strada. La sua padrona, Marianne Ferry (1953-2007), è sepolta nel settore delle Fusaggini. Éliane è arrivata qui il giorno del suo funerale e non se n’è più andata. Per le prime settimane le ho dato da mangiare sulla tomba della padrona, poi poco a poco mi ha seguito in casa. Nono l’ha battezzata Éliane come Isabelle Adjani in L’estate assassina, perché ha due begli occhi azzurri e la sua padrona è morta in agosto.
In vent’anni ho avuto tre cani che sono arrivati qui insieme ai padroni e sono diventati miei per forza di cose, ma Éliane è l’unica che mi rimane.
Bussano di nuovo. Non so se aprire. Sono appena le sette, sto prendendo il tè e spalmando le fette biscottate di burro salato e marmellata di fragole gentilmente offerta da Suzanne Clerc, il cui marito (1933-2007) riposa nel settore dei Cedri. Sto ascoltando musica. Ascolto sempre musica, tranne che nelle ore di apertura del cimitero.
Mi alzo e spengo la radio.
«Chi è?».
Mi risponde una voce maschile un po’ titubante.
«Mi scusi, signora, ho visto la luce accesa». Lo sento strofinare i piedi sullo zerbino. «Dovrei farle qualche domanda a proposito di una persona che è sepolta qui».
Potrei dirgli di tornare alle otto, quando apro.
«Mi dia dieci minuti e arrivo!».
Salgo in camera e apro l’armadio inverno per prendere una vestaglia. Ho due guardaroba, uno lo chiamo “inverno” e l’altro “estate”, ma non c’entrano le stagioni, c’entrano le circostanze. L’armadio inverno contiene solo vestiti classici e scuri destinati agli altri, l’armadio estate solo vestiti chiari e colorati destinati a me stessa. Indosso l’estate sotto l’inverno, e quando sono sola mi tolgo l’inverno.
Così mi infilo una vestaglia grigia imbottita sopra l’elegante vestaglietta di seta rosa e scendo ad aprire. Sulla porta c’è un uomo di una quarantina d’anni. Da principio ne vedo solo gli occhi neri che mi fissano.
«Buongiorno, mi scusi se la disturbo a quest’ora».
È ancora buio, fa freddo. Dietro di lui vedo che la notte ha depositato uno strato di brina. Dalla bocca gli escono nuvolette di vapore come se stesse fumando il giorno nascente. Odora di tabacco, cannella e vaniglia.
Sono incapace di dire una parola. È come se ritrovassi una persona persa di vista da tempo. Penso che si è presentato troppo tardi, che se fosse arrivato vent’anni fa tutto sarebbe stato diverso. Forse lo penso perché sono anni che nessuno bussa a casa mia dal lato strada, a parte gli ubriachi. Tutti quelli che vengono a trovarmi arrivano dal cimitero.
Lo faccio entrare, mi ringrazia un po’ imbarazzato. Gli offro un caffè.
A Brancion-en-Chalon conosco tutti, anche gli abitanti che ancora non hanno defunti da me. Tutti sono passati almeno una volta dai vialetti del cimitero per il funerale di un amico, di un vicino o della madre di un collega.

Lui non l’ho mai visto. Ha un leggero accento, c’è qualcosa di mediterraneo nel suo modo di calcare le parole. È molto bruno, così bruno che i rari capelli bianchi spiccano nel disordine di quelli neri. Ha il naso grosso, le labbra carnose e le borse sotto gli occhi. Somiglia un po’ a Gainsbourg. Si capisce che ha litigato col rasoio, ma non con la grazia. Ha belle mani, dita lunghe. Beve il caffè bollente a piccoli sorsi, ci soffia sopra e si riscalda le mani sulla porcellana della tazza.

Continuo a non sapere perché è venuto. L’ho fatto entrare perché qui non è proprio casa mia. Questa stanza è di tutti, è come una sala d’attesa comunale che ho trasformato in soggiorno-cucina, appartiene alle persone di passaggio e agli habitué.
Osserva i muri. I venticinque metri quadrati di stanza hanno lo stesso aspetto del guardaroba inverno. Niente alle pareti, niente tovaglia a colori o divano azzurro, niente di ostentato, solo mobili di compensato e sedie per sedersi, tazze bianche, la caffettiera sempre piena e superalcolici per i casi disperati. Qui accolgo lacrime, confidenze, rabbia, sospiri, disperazione e le risate dei necrofori.
La camera da letto è al piano di sopra, è il mio retrobottega segreto, la mia vera casa. Camera e bagno sono due bomboniere pastello. Rosa cipria, verde mandorla e celeste: è come se avessi riportato i colori della primavera. Appena c’è un raggio di sole spalanco le finestre e, a meno di non avere una scala, dall’esterno non si vede niente.
Nessuno è mai entrato in camera mia com’è oggi. Dopo che Philippe Toussaint è scomparso l’ho interamente ridipinta, ho aggiunto tende, merletti, mobili bianchi e un grande letto con un materasso svizzero che si modella sulle mie forme, in modo da non dover più dormire nella forma del corpo di Philippe Toussaint.
Lo sconosciuto continua a soffiare nella tazza.
«Vengo da Marsiglia» dice dopo un po’. «Conosce Marsiglia?».
«Vado ogni anno a Sormiou».
«Nella calanca?».
«Sì».
«Che combinazione!».
«Non credo al caso».
Sembra che cerchi qualcosa nella tasca dei jeans. I miei uomini non portano jeans. Nono, Elvis e Gaston sono sempre in tuta da lavoro, i fratelli Lucchini e padre Cédric in pantaloni di terital. Si toglie la sciarpa liberandosi il collo e posa la tazza vuota sul tavolo.
«Neanch’io. Sono abbastanza razionale... E poi sono un commissario».
«Come Colombo?».
Mi risponde sorridendo per la prima volta.
«Quello era ispettore».
Posa l’indice su alcuni granelli di zucchero sparpagliati sul tavolo.
«Mia madre desidera essere inumata qui e non so perché».
«Abita in zona?».
«No, a Marsiglia. È morta due mesi fa. Riposare qui fa parte delle sue ultime volontà».
«Condoglianze. Vuole qualcosa di alcolico nel caffè?».
«Ha l’abitudine di far ubriacare la gente la mattina presto?».
«Capita. Come si chiamava sua madre?».
«Irène Fayolle. Ha voluto essere cremata... e chiesto che le sue ceneri vengano posate sulla tomba di un certo Gabriel Prudent».
«Gabriel Prudent?... Gabriel Prudent, 1931-2009. È sepol­to nel settore dei Cedri, vialetto 19».
«Conosce tutti i morti a memoria?».
«Quasi».
«Data del decesso, ubicazione e tutto il resto?».
«Quasi».
«Chi era Gabriel Prudent?».
«Ogni tanto viene a trovarlo una donna... la figlia, credo. Era un avvocato. Sulla tomba di marmo nero non c’è epitaffio né fotografia. Non ricordo più il giorno in cui è stato seppellito, ma se vuole posso guardare nei registri».
«Registri?».
«Annoto tutte le sepolture e le esumazioni».
«Non sapevo che rientrasse nei suoi incarichi».
«Infatti non ci rientra, ma se uno facesse solo quel che rientra nei propri incarichi la vita sarebbe triste».
«È strano sentire una cosa del genere dalla bocca di una... come si chiama il suo mestiere, guardacimiteri?».
«Perché, pensa che pianga dalla mattina alla sera, che viva nelle lacrime e nel dolore?».
Gli riempio di nuovo la tazza mentre lui mi domanda due volte:
«Vive sola?».
Alla fine rispondo di sì.
Apro il cassetto dei registri e prendo quello del 2009. Cerco per cognome, e trovo subito Prudent Gabriel. Comincio a leggere.
18 febbraio 2009, esequie di Gabriel Prudent, pioggia tor­renziale. Centoventotto persone presenti alla sepoltura, tra cui l’ex moglie e le due figlie, Marthe Dubreuil e Cloé Prudent. Su richiesta del defunto, niente fiori né corone. La famiglia ha fatto incidere una targa sulla quale si legge: In memoria di Gabriel Prudent, avvocato coraggioso. “Il coraggio per un avvocato è tutto. Se non c’è, il resto non conta. Tutto è utile all’avvocato, talento, cultura, conoscenza della legge, ma senza il coraggio al momento decisivo rimangono solo parole, frasi che si susseguono, brillano e muoiono” (Robert Badinter). Niente prete, niente croce. Il corteo funebre si è trattenuto solo una mezz’ora. Quando gli addetti delle pompe funebri hanno finito di calare la bara nella fossa tutti se ne sono andati. Pioveva ancora molto forte.
Chiudo il registro. Il commissario sembra frastornato, perso nei suoi pensieri. Si passa una mano tra i capelli.
«Mi chiedo perché mia madre voglia riposare accanto a quest’uomo».
Per un po’ osserva di nuovo le pareti bianche sulle quali non c’è niente da osservare. Poi si rivolge a me come se avesse qualche dubbio e indica con lo sguardo il registro del 2009.
«Posso dare un’occhiata?».
In genere faccio vedere i miei appunti solo alle famiglie interessate. Ci penso un attimo, poi glielo do. Si mette a sfogliarlo. Tra una pagina e l’altra mi scruta come se avessi scritte in fronte le parole dell’anno 2009, come se il registro che ha in mano fosse una scusa per guardarmi.
«E lei fa questo per ogni defunto?».
«Non tutti, ma quasi. Così quando quelli che non hanno potuto assistere al funerale vengono a trovarmi racconto loro qualcosa aiutandomi con gli appunti... Ha mai ucciso qualcuno? Per lavoro, voglio dire».
«No».
«È armato?».
«Certe volte sì. Stamattina no».
«È venuto con le ceneri di sua madre?».
«No. Per il momento sono al crematorio... Non mi va di posare le sue ceneri sulla tomba di uno sconosciuto».
«Per lei sarà uno sconosciuto, per sua madre pare di no».
 
[da Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin, trad. di Alberto Bracci Testasecca, e/o, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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