Il bosco delle streghe (seconda parte)

Marco Vichi

16/03/2020

«E insomma lo capivano anche i sassi che la faccenda era di quelle balorde, di quelle che ti ci rovelli una vita e non ne vieni a capo, segui un po’ il ragionamento, la prima volta credevo che il matto fosse uno solo che si vestiva in due modi... Quando morì il matto del bosco e vidi che il vecchio della villa era vivo, ecco che i matti erano diventati due, ma quando avevo rivisto il matto nel bosco m’era come entrato un baco nel cervello, allora erano in tre, mi dicevo, poi anche il matto della villa era morto, e dunque ne era rimasto solo uno, a meno che non avessi per davvero visto un fantasma... A volte m’addormentavo con quella cosa in testa e sognavo male, e di giorno quando ero nei boschi non sapevo capire se mi sarebbe piaciuto o no di rivedere il matto con la pelle di coniglio, e una volta quando meno me l’aspettavo me lo trovo davanti in un sentiero, e allora mi tremano le gambe, lui mi sorride e mi fa, sai cosa ti dico? non tutte le cose si devono capire, è anche bello non sapere, o sapersi fermare in tempo, poi sputa da una parte e dice, siamo fatti di mistero e di mistero moriremo, poi sorride e corre via, e io resto là come un cipresso, a domandarmi se per davvero era un fantasma dell’aldilà.»
 
Con la mano fece in aria un gesto lento, come per chiudere un periodo, poi continuò.
«Passarono diversi anni, arrivò la guerra, che insomma erano due, quella a braccetto coi tedeschi e quella contro i tedeschi, insomma un momentaccio, quando sentii dell’Armistizio buttai la divisa in un torrente e mi detti alla macchia, entrai in un gruppo di partigiani, si mangiava male e poco, il freddo era un’abitudine che poi non ci facevi più caso, e solo pochi di noi arrivarono vivi alla fine, ma questa è un’altra storia... Insomma la guerra finì, e a forza di trenini e di carri riuscii a tornare a casa, mio babbo e mia mamma erano vivi, grazie a Dio, ma erano magri e non avevano più nulla, il mio paese era sbocconcellato dalle bombe, anche la chiesa e il municipio, e anche nei paesi accanto non se la passavano meglio... Una mattina andai in un paese lontano da qua, per cercare lavoro, e dopo aver girato tutto il giorno trovando qua e là dei lavoretti da farsi su due piedi, e mal pagati, mi fermai in una bettola per bere un bicchiere, contai gli spiccioli per vedere quanto vino potevo bere, c’era poca gente, tutta silenziosa, allegria ce n’era poca e punta, mi ero accomodato in un canto, vicino al camino spento, il vino non era nulla di speciale ma nemmeno feccia, tra un sorso e l’altro rimuginavo sulle disgrazie della guerra, mi sentivo buio come una cantina, tutti quei crucchi a farla da padroni m’eran piaciuti come una bastonata nei cosiddetti, e a pensare a Mussolini mi veniva da piangere e da bestemmiare, insomma stavo lì a vuotare bicchieri col mento tra i ginocchi e a un certo punto entra uno basso coll’aria da contadino ricco, si accomoda con un gruppetto di gente che conosceva bene, beve un goccio e subito gli viene il ruzzo, si mette a ragionare di certi poderi che aveva preso a un tozzo di pane insieme con una villa di trenta camere, rideva di gusto e dava manate sul tavolo, gli altri dicevano che la facesse finita con quella villa, che tanto ormai lo sapevano anche i topi che l’aveva comprata, ma lui si puliva gli orecchi coi mignoli senza riguardo per nessuno, e ripartiva da capo a farsi bello, a ridere e a cianciare, di per sé non era punto simpatico, ma in quei giorni brutti a vedere uno così faceva bene, mi pareva d’aver dimenticato che si potesse far rumore, s’era vissuto per anni in un bisbiglio, si camminava come sulle uova, si chiudevano piano gli usci, e di notte per accendere una sigaretta ciancicata ci si rintanava come talpe, e adesso eccoti lì davanti uno che non gliene importava nulla e che si faceva un sacco di risate, la guerra è finita, diceva, ora è il momento di stare allegri, e poi sempre ridendo disse, basta non finir come quel matto di Nasone, che a dadi perse tutto e diventò coglione, e tutti giù a ridacchiare... Io mi raddrizzai come per istinto, parevo una bestia che sente odore di sangue, e mi prese una gran curiosità di sapere da che veniva quella filastrocca, allora presi coraggio e mi avvicinai, chiesi allo sbruffone chi fosse quel nasone che avevano rammentato, e tutti mi guardarono come si fa con chi ti chiede dei soldi, io rifeci la domanda e diedi a vedere che m’interessava per davvero sapere chi fosse il nasone, allora uno di quelli m’avvicinò un bicchiere, e un po’ uno un po’ l’altro mi raccontarono la storia tutta intera, di certi gemelli uguali come gocce d’acqua figli di un gran signore, e di una donna che morì mettendoli al mondo, e di quella cucciolata doppia il padre se ne vergognava, perché erano brutti e avevano il naso troppo grosso, un naso che nella sua famiglia non s’era mai visto, e allora quasi gli veniva da pensare che quella santa donna di sua moglie si era fatta ingravidare da un altro, e aveva vergogna che magari tutto il paese a vedere i due piccoli mostri potessero pensarla uguale, ma comunque erano nati sotto il suo tetto e alla fine erano figli suoi, e doveva darsi da fare per crescerli, però volle andarsene lontano, dove nessuno lo conosceva, vendette tutto e comprò una villa grandissima e isolata, e tanto di quel terreno da non immaginare, e i due gemelli crebbero alla villa senza quasi essere visti, a studiare con un maestro che veniva a casa, e il resto del tempo a far nulla, godendo delle ricchezze del babbo, e da giovinotti ogni tanto andando nella città vicina a far bagordi, poi una notte, quando i gemelli non avevano ancora vent’anni, il padre era morto, e nel testamento aveva scritto che voleva essere seppellito al paese suo, e così fu fatto, e i due gemelli tornarono alla villa mogi mogi, ma enormemente ricchi, e insomma non era ancora passata una settimana da che avevano seppellito il loro babbo, che al paese era arrivata una donna, una cittadina bella come una madonna, la testa bionda e un neo sul labbro, che aveva comprato un podere e una bella casa antica per andarci a vivere tutta sola, sulla collina di fronte, e capitava che galoppando passasse davanti alla villa dei gemelli e si fermasse a parlare con loro... Andò così che i gemelli rimasero tutti e due presi dall’amore per quella donna come le mosche nella ragnatela, e allora principiarono a farsi guerra come lupi, la villa era grande come un castello, ma per loro era stretta come una piccionaia, si tiravano addosso le maledizioni, non c’era giorno che non venissero alle mani, e intanto la donna faceva mostra che le piacesse la corte di tutti e due i gemelli, che peggio cosa non c’era, e i due avversari facevano come i cani con l’osso, e dai picchia e mena che insomma alla fine i gemelli non ne poterono più di darsi battaglia, e decisero che era meglio appianare la cosa in qualche altra maniera, dopo averci pensato si misero d’accordo di giocarsi tutto con un giro di dadi, chi vinceva prendeva la villa e la donna, chi perdeva se ne andava con una manciata di denari e non tornava mai più, si diedero una stretta di mano per dare valore all’accordo, si misero davanti a un fiasco e dopo una bella bevuta tirarono i dadi, uno fece tre, l’altro cinque, e così il destino era segnato, e i due gemelli seguitarono a bere il vino a garganella, ognuno piagnucolando a modo suo, quello del tre perché perdeva tutto, l’altro per far vedere che gli dispiaceva, la posta era tanta per un giro di dadi, ma loro erano signori e la parola data non si discuteva, finirono insieme la bottiglia e andarono a letto, la mattina quello che aveva perso fece fagotto e si tirò dietro l’uscio, camminò dritto finché non vide il mare, bevve l’acqua salata e perse il cervello, il gemello ricco invece fu preso da una gran malinconia e partì per l’estero, andò lassù nella Francia, a Parigi, si mise a fare la bella vita, con la speranza di non rammentare il rimorso, cambiava donna tutte le notti e beveva e si strapazzava, e se non beveva mangiava, e se non mangiava fumava, io qui alzai una mano e dissi che insomma fare una vita così non mi pareva un gran rimorso, ma loro dissero che invece no, anche a far quella vita il poveraccio rimaneva sempre triste, e poi mi dissero che parecchi anni più tardi, dopo aver speso un patrimonio, il parigino aveva fatto ritorno alla villa, e da quel giorno nessuno lo aveva mai più sentito dire una sola parola...».
 
Il vecchio tirò fuori un fazzoletto e si soffiò il naso con soddisfazione, se lo rimise in tasca e riaccese la pipa.
«E insomma continuarono a raccontarmi la storia, e dissero che dopo una trentina d’anni, una notte di luna piena, il gemello ricco sente abbaiare i cani, e dopo un po’ sente picchiare alla porta della villa, s’affaccia alla finestra e vede un uomo seduto su una panca di pietra in giardino, scende da basso e si trova dinanzi il gemello, che a vederlo era una pena, sporco e puzzolente come un bastone da pollaio, ma a guardarlo in faccia gli pareva ancora di vedersi nello specchio, e allora gli si bagnano gli occhi, a stento si trattiene di abbracciarlo, ma l’altro tira fuori i dadi, li rovescia sulla panca e fa nove, poi dice all’altro di tirare, lui tira e fa sei, visto?, gli fa il gemello, oggi avrei vinto io, e fa una risatina, poi ripiglia i dadi e s’incammina verso il bosco.»
Il vecchio si fermò, per via del tipo con le bretelle larghe che si era avvicinato al nostro tavolo, con uno stecchino tra i denti e l’aria di chi la sa lunga. Il vecchio gli alzò una mano davanti.
«Fammi finire, lo so bene che te la sai diversa, ma non ho punta voglia di mettermi a discutere.»
L’altro buttò in fuori le labbra e se le chiuse tra due dita, continuando a sorridere. Il vecchio aspettò che si fosse allontanato e si voltò verso di me.
 
«E insomma, dopo quella volta, tutte le notti di luna piena il matto saliva alla villa e si sedeva sulla panca col gemello, in villa non entrava mai, come per obbedire all’antico patto, tiravano i dadi su un mattone e ogni volta c’era il commento, oggi avresti vinto te, oggi avrei vinto io, ma nessuno fece mai parola della donna col neo, e nemmeno si parlò mai di ritornare insieme padroni della villa, così era andata e così rimaneva, seguitarono in codesto modo per un bel pezzo, come fosse una religione, ogni volta un giro di dadi sotto la luna piena, a volte con un bicchiere di vino, a volte senza, e il più triste era sempre quello ricco, a macerarsi come una cipolla nell’aceto, invece il povero era matto e diceva che il bosco era suo perché ci respirava dentro, diceva che era più libero dell’altro perché dormiva senza muri intorno, e che i visi dipinti sono veri come quelli in carne e ossa, andando via faceva sempre una bella risata, poi un giorno morì e il ricco peggiorò nell’anima, si sentiva come se l’avessero tagliato a metà, era come se si fosse rotto lo specchio dove guardarsi, e per molti mesi stette seduto in poltrona come imbalsamato, finché un giorno si vestì come il gemello povero e girovagò per i boschi, e da quel giorno s’impersonò nell’altro molte volte, come se a far così lo potesse risuscitare, poi ritornava nei suoi panni a far se stesso, e insomma s’era come diviso in due e ci credeva davvero, ricominciò perfino a parlare, ma solo quando si metteva nei panni del matto che girava nei boschi, ma ben presto l’incanto finì e tornò come prima a stare fra le braccia della malinconia, e un giorno, quando morì anche lui, e morì volentieri, i poderi e la villa li lasciò a certe monache, con la richiesta che pregassero per lui tutti i giorni... E insomma la storia era questa, e finalmente certe cose mi vennero chiare, ma a me la faccenda tutta intera non mi tornava, santamadonna! il matto del bosco l’avevo incontrato anche dopo che era morto il padrone della villa, e insomma le cose erano due, o avevo visto davvero un fantasma o i gemelli erano tre, uno più matto dell’altro, e allora cercavo di rammentare se quando l’avevo visto faceva rumore camminando, se scoteva i cespugli passandoci in mezzo, e se mi aveva stretto la mano, ma non mi veniva alla mente, e comunque da principio non volevo dir nulla a quella gente, volevo tenermelo per me, ma alla fine non so come non ce la feci più e lo dissi, che insomma avevo visto il matto del bosco quando i due gemelli erano già morti e sepolti, e quelli mi guardano come fossi un babbano, si fanno le occhiate d’intesa, e allora io mi metto a ridere e dico che scherzavo, che era solo così per ridere, seguitai a bere con loro e a parlar d’altro, e intanto pensavo a come facevano quei signori a sapere le cose, a conoscere ogni parola che i due gemelli si dicevano sotto la luna, a meno di non inventare mezze cose o magari anche di più, ma era meglio non chiedere, pensai, poi dopo un po’ saluto e me ne vado, di lì a poco il sole sarebbe andato a dormire, volevo essere a casa prima di buio, e lungo il sentiero che portava a casa chi ti vedo?, il matto del bosco, che mi aspettava con le braccia incrociate e la faccia di chi ha voglia di ruzzare, allora mi dissi che una volta per tutte dovevo capire se era carne e ossa o un fantasma, e quando gli arrivo vicino avanzo una mano per toccarlo, ma lui fa un passo indietro e mi fa, meglio se rimani nel dubbio, ragazzo, dammi retta, senza il dubbio la vita sarebbe più noiosa della noia, come a dire una zuppa senza sale, e dunque viva le donne, le regine del dubbio, e se qualcuno ti viene a dire che una donna l’ha rovinato, ebbene non ci credere, chi si rovina lo fa da solo, e dar la colpa alle donne è da bambini col moccio al naso, nessuno può farti soffrire, se dentro di te non c’è sofferenza, e insomma non sono gli altri a farci male, siamo noi che ce lo facciamo, adoperando gli altri per nasconderci la verità e darci l’assoluzione, ma a fare in questa maniera si perdono le battaglie, tienilo a mente, dunque soffiati il naso e non dar la colpa alle donne, ora ti saluto, ragazzo, ho da fare un lungo viaggio... E prima che io riesca a dire una parola, se ne va a grandi passi verso il fitto del bosco, ma dopo pochi passi non lo vedo più, era sparito come un filo di fumo al vento, però nell’aria era rimasto il suo puzzo... E insomma era uno spirito o un cristiano? Io per me dico che era uno spirito, che da credere è più facile che al terzo gemello, anche se la mano sulla brace non ce la posso mettere, che ti devo dire, le cose come stanno non le saprà mai nessuno, insomma ci si deve accontentare, ci son certe faccende che a provare a dipanarle è come voler asciugare un pozzo con la zangola dei polli, ma ogni tanto a quella storia mi ci metto ancora a pensare, anche se lo so bene che non ne verrò mai a capo, ho solo imparato che il destino è compagno a un giro di dadi, il tempo d’un fiato e nulla è più come prima, e poi tutto avanza di conseguenza... Questo è tutto, ragazzo, la storia è finita, e se non ci credi è affar tuo, a me di ricordarla m’è piaciuto...».
 
«E la bellissima donna con il neo sul labbro?» chiesi, senza potermi trattenere.
«Se n’è andata pochi giorni dopo la notte della giocata, e nessuno ne ha mai saputo più nulla.»
«E non ha sposato nessuno dei due?»
«Nessuno dei due...»
«Dunque la sfida a dadi dei gemelli era stata inutile?»
«Inutile come un berretto sotto il diluvio.» Si attaccò alla pipa e con il pollice sopra il fornello la riportò in vita. La sua faccia sparì dietro una fumata densa, e quando riapparve, in piedi accanto a noi c’era di nuovo il tipo con le bretelle. Chiese se poteva sedersi a fare due parole, e il vecchio gli fece cenno di accomodarsi. L’uomo con le bretelle si lasciò andare sulla sedia e mi guardò, facendo schioccare le giunture delle dita.
«Non erano dadi, era una moneta da due lire, e il gemello che aveva perso non stette via trent’anni ma trentacinque, e poi la storia che il gemello ricco ha lasciato tutto alle monache non è vera, è andato tutto al demanio, perché non c’era testamento e non hanno trovato nessun parente...»
Il vecchio scuoteva il capo.
«Erano dadi, ti dico, uno fece tre e l’altro cinque, e delle monache è vero, lo so perché al convento ci vado tutti i mesi a portare il vino... E poi queste che dici non son cose importanti...»
«Come sarebbe non sono importanti? Testa o croce non è mica come tirare ai dadi... E non è finita, c’è chi dice che la donna con il neo era mora e non bionda.»
«Macché mora, che ne vuoi sapere? Te non li hai mica visti i disegni del matto...»
«Però della moneta sono sicuro.»
«Fai come ti pare, ma il nocciolo della storia non cambia.»
Continuarono a battersi il becco, ma con divertimento. Si vedeva bene che ci erano abituati. Doveva essere molto tardi. L’oste ripuliva il banco con lo straccio, molti se n’erano già andati. Non tuonava più, e la pioggia era diminuita. Nel camino il ciocco si era più che dimezzato, e guardando il velo di fiamme che lo avvolgeva mi misi a pensare ai gemelli e al loro nasone, ai dadi sotto la luna piena, alla donna con il neo sul labbro... Quasi m’ipnotizzai a ricostruire la storia, a vedere le scene, a immedesimarmi con il vecchio che aveva visto un fantasma... Quando tornai alla coscienza c’era un gran silenzio. Agli altri tavoli non c’era più nessuno, anche il tipo con le bretelle se n’era andato. Il vecchio finì l’ultimo sorso di grappa e fece un sospiro.
«Ti saluto, giovanotto, vado a sdraiarmi, mi sento le ossa come dopo una giornata nel campo, accidenti alla vecchiaia, ma se ripassi da queste parti viemmi a trovare, appena va giù il sole mi siedo qua, che a casa mia son da solo o quasi, la mogliera sta sempre rincantucciata e parla poco, i figli stanno a casa loro com’è giusto, e i nipoti sono andati tutti in città, a Sassonero, e insomma di storie ne so quante ne vuoi, anche di quelle da far venire i brividi al sedere, come la vecchia spagnola che viveva in una grotta e faceva le malìe, o la selvaggia che assaliva a morsi la gente nei boschi, storie vere che voi di città non le sapete nemmeno immaginare, te lo dico io.»
 
Mise la pipa in tasca e si alzò.
«Addio, ragazzo.» Mi diede una stretta di mano che quasi mi spezzò le dita, e dopo un’ultima occhiata altera ma gentile si sistemò il cappello e s’incamminò verso la porta. Passando davanti al bancone fece un cenno all’oste per dirgli che avrebbe pagato poi, e mentre usciva tenendo i baveri alzati mi arrivò una ventata d’aria fredda e pulita. Avevo tutto l’alcol nelle gambe e chiesi all’oste di pagare da seduto, lui mi fece il conto a mente aiutandosi con le dita, pagai e gli lasciai il resto. Era arrivato il momento di partire. Puntai le mani sul tavolo e mi alzai, l’oste mi venne dietro fino alla porta, me la chiuse dietro e lo immaginai che finalmente poteva mettersi seduto a farsi un bicchiere. Non ricordavo dove avevo lasciato la macchina, ma per fortuna non pioveva quasi più, a parte qualche goccia finissima che non bagnava. Il cielo era nero, senza stelle. Mi era rimasta addosso l’atmosfera del racconto del vecchio, e mi aspettavo da un momento all’altro di trovarmi davanti il matto del bosco, con la pelle di coniglio in mano, e quando girai l’angolo e mi sentii prendere un braccio mi voltai spaventato, con il cuore in gola... Era la donna anziana che avevo visto all’osteria, la riconobbi dal fazzoletto annodato sotto il mento e dagli anelli d’oro. Mi ero completamente dimenticato di lei.
 
«Deve scusarmi, signore, ma senza volerlo all’osteria ho ascoltato la vostra conversazione, mi deve credere se le dico che non l’ho fatto di proposito.» Parlava modulando la voce come uno strumento, passando di continuo dagli acuti ai bassi, e mi guardava facendo ondeggiare il capo con civetteria. Nel suo viso pieno di rughe finissime brillavano due occhi di bambina, lucenti come vetro.
«Non voglio disturbarla, ma sulla faccenda dei gemelli avrei qualcosa da aggiungere.»
Mi vide perplesso e alzò una mano inanellata.
«Non deve preoccuparsi, non le farò perdere troppo tempo... Se vuole può venire a casa mia... Le va un rosolio? O magari un nocino?»
Era tardissimo, casa mia era dall’altra parte del mondo, e la mattina dopo dovevo svegliarmi presto. Eppure poco dopo ero seduto in una poltroncina con i braccioli di legno, in una stanza quasi buia illuminata solo da qualche candela, con un nocino in mano, e sotto le scarpe sentivo il morbido di un tappeto. La vecchia signora mi aveva guidato fino a una villa antica ai margini del paese, e passando da un lungo corridoio in penombra eravamo entrati in un grande salotto d’altri tempi, con mobili scuri e una serie di ritratti a olio appesi al muro. Lei era seduta di fronte a me, un po’ distante, nell’angolo più buio, ma la vista si era già abituata e riuscivo e cogliere qualcosa della sua figura. Senza il cappotto e il fazzoletto sembrava molto più magra, e aveva capelli lunghissimi.
«Si sente a suo agio? Se vuole può togliersi le scarpe.»
«Grazie, sto bene.»
«Se vuole rimanere a dormire non faccia complimenti.»
«Molto gentile, preferisco tornare a casa.»
«Non mi costa nulla farle il letto nella stanza degli ospiti, anzi sarebbe un piacere.»
«La ringrazio infinitamente, ma non posso.»
«Come vuole...»
Rimase in silenzio, facendo dei leggeri sospiri, come se cercasse le parole giuste per iniziare. Da un’altra stanza arrivava appena il suono meccanico e regolare di una pendola. Era come se il mondo intorno a noi fosse stato inghiottito. Stavo quasi per appisolarmi, e quando sentii la sua voce sussultai.
«Vede, signore... La storia dei gemelli non sono in molti a saperla, e quei pochi non possono conoscerla fino in fondo... Ma poverini, non è mica colpa loro... Lei si domanderà come mai mi preme tanto di raccontarle queste cose... Un altro po’ di nocino?»
«Volentieri...»
«Lo faccio io, sa? Con la ricetta della mia bisnonna.»
Mi riempì il bicchierino e ritappò la bottiglia con rispetto.
«È vero, la donna che rese pazzi d’amore i gemelli era bionda, non mora, ma sul suo conto il vecchio non ha saputo dirle altro che questo...»
«Mi ha detto che se n’è andata...»
«Deve sapere che i gemelli non erano due, ma tre...»
«Cosa?»
«Suvvia, non vede che scherzo?»
«Ah, mi scusi...»
«C’era caduto, che buffo.»
«Per un attimo ho pensato di aver scoperto il mistero del fantasma.»
«Quale fantasma?»
«Il matto del bosco... Il vecchio dice di averlo visto dopo che era stato seppellito...»
«Oh, ma certo che era un fantasma.»
«Come dice?»
«Vede, signore... La causa di tutto fu l’amore per quella donna... I due gemelli si erano innamorati a prima vista, e siccome erano uguali come due gocce d’acqua pensavano che se la donna s’innamorava di uno si sarebbe innamorata anche dell’altro, dunque cominciarono a farsi la guerra, logorati dalla gelosia, e passarono brutti momenti, ma alla fine si stancarono del malanimo che incombeva sulla loro vita, così stabilirono che uno di loro doveva andarsene... Alla villa ne sarebbe rimasto uno solo... In fondo, si dicevano, era come correggere l’errore della natura, che al posto di un figlio ne aveva fatti due uguali... Come lei sa già, decisero di risolvere la faccenda nel modo più spiccio, affidando il loro destino ai dadi... Magari pensando, senza dirlo, di giocarsi anche la donna...»
 
Dicendo questo si sporse leggermente in avanti, la fiamma di una candela le illuminò una guancia e vidi che aveva un neo sopra il labbro... Sentii un brivido, ma dopo aver fatto un rapido conto mi calmai. Non poteva essere lei quella donna, era impossibile, avrebbe dovuto avere almeno centoventi anni. Era solo una vecchia signora in vena di chiacchiere, e non volevo deluderla. Lei vuotò il suo bicchierino, e mi guardò con aria sognante.
«La notte in cui i gemelli si giocarono il destino a dadi soffiava un vento da strappare gli alberi, e la donna bionda dormiva tranquilla nel suo letto, alla locanda... I due corteggiatori stabilirono la posta in gioco giurando di mantenere la parola, e pur se ognuno aveva il terrore di perdere, era un sollievo non dover più darsi battaglia... Con il cuore fermo tirarono i dadi, affidando la loro vita al destino... Al primo giro fecero pari, e si domandarono se non era un segno, un consiglio di Dio per non andare avanti in quella follia, poi però pensarono alla donna e decisero in pieno accordo di lanciare ancora, e questa volta uno fece più dell’altro, superandolo di un solo punto... Quello che vinse gli sembrò di tenere il mondo in mano, invece lo sconfitto fu come se fosse morto, e la mattina dopo se ne andò per la sua strada com’era nei patti... Si arruolò nella Legione e tu tti lo davano per scomparso, ma dopo più di trent’anni, quando ormai era troppo vecchio per fare il mercenario, non seppe resistere al desiderio di tornare nei luoghi dov’era nato e cresciuto, e per non infrangere il giuramento si mise a girovagare nei boschi là intorno... Per la solitudine e la malinconia perse il senno, e non faceva che disegnare la donna che aveva amato e amava ancora, anche se era stata la causa della sua rovina...»
 
Fece una pausa, e mi sembrò di vedere una lacrima che le scendeva sulla guancia.
«Il gemello che aveva vinto, dopo che l’altro se ne fu andato, si fece coraggio, andò dalla donna bionda e in ginocchio la chiese in moglie, ma lei lo guardò come fosse matto e scoppiò a ridere, e disse che se lo poteva scordare, che lei provava piacere a farsi corteggiare da tutti e due, ma che di uno solo non sapeva che farsene, e pochi giorni dopo se ne andò... Lui ne rimase addolorato per tutta la vita... Non solo aveva rovinato il suo gemello inutilmente, ma anche lui stesso, pur se aveva vinto, era uno sconfitto, e dopo aver tentato di dimenticare ogni cosa con l’aiuto di una vita dissennata, nella lontana Parigi, tornò a casa e nessuno lo sentì mai più pronunciare una parola... Di lei non si seppe più nulla, ma io so che se n’era andata a far danni in un altro paese, e poi un altro, e poi in un altro ancora, e così via senza posa, perché le piaceva vedere gli uomini impazzire per lei, e non le importava nulla di essere stretta fra le braccia o di essere baciata, la sola cosa capace di deliziarla era sentire il desiderio dei maschi strisciarle dietro come un serpente, e più uomini erano e meglio stava, e se si scannavano per lei andava al settimo cielo... Le donne a volte sanno essere molto cattive, soprattutto le più belle... Lei era davvero bella, bellissima... Ogni uomo che la vedeva si innamorava di lei, e tutti facevano follie per conquistarla... L’amore non è come sbattere la chiara dell’uovo, che si sa quando ci si deve fermare... Ma il tempo non ha pietà per nessuno, e anche lei dovette invecchiare, ormai anche imbellettata era incapace di far battere un solo cuore, nessuno l’avrebbe più sposata, o anche solo accarezzata, e così si ritrovò da sola, triste e impaurita, e nella solitudine imparò a capire cos’era il rimpianto, a sentire il peso delle proprie colpe, a pagare il prezzo della sua leggerezza e della sua malignità, e una notte di vento, divorata dal rimorso, si gettò giù da una scogliera…»
 
Mi sembrò di vederla sorridere, e ricambiai. Non sapevo se crederle, forse era davvero solo una povera vecchia che soffriva di solitudine. Doveva essere tardissimo, e dopo aver vuotato il bicchierino di nocino mi alzai, ma lei aveva ancora qualcosa da dire.
«Lei si domanderà come faccio a sapere queste cose... Come potrei non saperle? Quella donna ero io...»
Dopo queste parole si alzò con un sorriso, fece due passi nella sala e svanì nel nulla... Ricaddi sulla poltrona, quasi svenuto, ma appena recuperai le forze me ne andai in fretta dalla stanza.
Ci si vedeva appena, percorrevo corridoi che non finivano mai, sbattendo contro i mobili e inciampando nei tappeti, e finalmente mi apparve il portone d’ingresso. Uscii senza voltarmi, e mi trovai in mezzo a una nebbiolina azzurra che bagnava i capelli. Vagando nei vicoli arrivai alla fine del paese e dopo un po’ avvistai la mia macchina. Mi ci chiusi dentro e crollai svenuto sul sedile. Mi svegliai la mattina, all’alba, con la testa sul volante. Scesi barcollando e mi guardai intorno. Ero in aperta campagna, lungo un sentiero di sassi. Non ricordavo di aver guidato, ma il villaggio non c’era più.

Il racconto - tratto dall'omonima antologia pubblicata nel 2017 per Guanda - rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus" (per gentile concessione dell'editore) 
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Marco Vichi

Marco Vichi

Marco Vichi nasce a Firenze nel 1957. Nel marzo 1999 esordisce come scrittore con il romanzo L’inquilino (Guanda). Seguono poi Donne donne (Guanda, 2000), Il commissario Bordelli (Guanda, 2002), Una brutta faccenda. Un’indagine del commissario Bordelli (Guanda, 2003), Il nuovo venuto. Una nuova indagine del commissario Bordelli (Guanda, 2004), Perché dollari? (Guanda, 2005), Il Brigante (Guanda, 2006), Firenze nera (con Emiliano Gucci, Aliberti, 2006), Nero di luna (Guanda, 2007), Bloody Mary (con Leonardo Gori, 2008), Per nessun motivo (Rizzoli, 2008), Buio d’amore (Barbès, 2008), Morte a Firenze (Guanda, 2009), il quarto romanzo del commissario Bordelli. Ha curato le antologie Città in nero (Guanda, 2006), Delitti in provincia, (Guanda, 2007). I suoi libri sono tradotti in greco, portoghese, spagnolo e tedesco. Dal 2003 tiene laboratori di scrittura in varie città italiane e presso il corso di laurea in Media e Giornalismo dell’Università...

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