L’acqua del lago non è mai dolce, una storia del nostro tempo

Luigi Oliveto

28/01/2021

Quella raccontata da Giulia Caminito nel suo ultimo romanzo è una storia ruvida. Fin dal titolo, che avverte come “L’acqua del lago non è mai dolce”. È storia dei nostri giorni, e dunque tutta schiacciata sul presente; che non può permettersi chissà quali idee di riscatto sociale (roba dell’altro secolo) né troppe fantasie sul futuro. È l’oggi, vissuto con il fiato corto e il pragmatismo spicciolo che si richiede per giungere almeno al giorno dopo, e poi a quello ancora dopo. Questo ci racconta Gaia – voce narrante – che conosciamo poco più che bambina, poi ragazza. Gaia ha un fratello maggiore, due gemelli più piccoli di lei, un padre invalido a seguito di un incidente sul lavoro e una madre, Antonia, che tira avanti la famiglia andando a servizio nelle case; donna di straordinaria forza e dignità. Dopo aver vissuto a Roma in una casa occupata di venti metri quadri, avevano ottenuto un appartamento. Ma ad Antonia non piaceva quel condominio di menefreghisti snob, e così hanno lasciato la città per trasferirsi a Bracciano (ecco dunque il lago che non è mai dolce). Gaia dalla madre ha imparato a non piangersi addosso, a non farsene un problema se tutte le mattine deve prendere il treno per frequentare il Classico e lì affrontare spocchia e stronzaggine dei compagni. Al pari della mamma, è tosta, non piega la testa, a costo di diventare aggressiva. Riesce bene nello studio, legge molti libri. Terminate le superiori si iscrive a Filosofia (una delle lauree più inutili agli occhi della madre). Vive la sua esperienza di maturazione conoscendo i fervori e i disinganni dell’amicizia, la bellezza della sincerità e le ferite della finzione. Ma soprattutto Gaia sperimenta come ogni volta che spalanchi i suoi occhi neri sulla realtà, le si riveli quanto difficile sia raggiungere ciò che sembrerebbe giusto, perlomeno ragionevole: affrancarsi da una condizione (da un destino?) di marginalità, di realizzazione di sé stessi. Sì, il romanzo di Giulia Caminito è decisamente una storia di oggi.
 
***
 
Viviamo in un quartiere che a mia madre non piace chiamare periferia, poiché per essere periferia devi aver presente quale sia il tuo centro e noi quel centro non lo vediamo mai, io non ho mai visitato il Colosseo, la Cappella Sistina, il Vaticano, Villa Borghese, piazza del Popolo, noi le gite con la scuola non le facciamo e se esco è per andare con mia madre al mercato rionale.
Di quella casa, larga cinque e lunga quattro metri, io ho a cuore la spianata di cemento e le aiuole, dentro c’è solo erba, nessuno ha mai pensato di metterci i fiori e mia madre anche s’è rifiutata, ché piantare vuol dire rimanere.
L’interno è una cucina in un armadio, è una brandina da tirare fuori da sotto al letto di Mariano, è un termosifone elettrico da accendere poco e se fa proprio freddo, è un poster dei Beatles sopra al tavolo dove mangiamo e quattro sedie diverse, è sentire cigolare il letto dei miei se fanno quello, perché la stanza è una sola e non è che puoi andare fuori e non è che puoi chiuderti al bagno, perché anche dal bagno e da fuori si sente tutto.
La casa sono io bambina che conosco solo lo spiazzo di cemento e lo abito come una reggia insieme a mio fratello, è nostro e di nessun altro, scaviamo, saltiamo, cuciniamo ortiche e formiche e a terra tracciamo coi gessetti presi a scuola numeri e linee e triangoli e quadrati in cui ci sediamo e diciamo che sono cose nostre, viviamo lì, dentro i segni a terra che abbiamo disegnato.
C-A-S-A, diciamo e ci basta fare poche righe, le mura e il tetto, le finestre, la porta.
Quel luogo, la terra dei nostri giochi e delle nostre prime fantasie, esiste perché nostra madre l’ha voluto, prima era il dominio degli scarafaggi, di qualche topo e di molte siringhe gettate attraverso la rete dalla strada o lasciate da chi dorme sul portone del palazzo.
Nostra madre s’è messa stivali alti di gomma, presi in prestito da mio padre, per raccoglierle a una a una e bruciarle prima di buttarle via, se trovi una siringa, dice sempre mia madre, devi levarla di mezzo, perché se ci casca sopra un bambino poi la colpa è anche tua, che l’hai ignorata.
Ha preso il veleno, ha fatto portare a mio padre una pala dal cantiere e si è messa a cacciare, a uccidere, a estirpare.
Dopo mesi di lavori, il cortile su cui si affaccia la bocca sdentata della nostra casa seminterrato è bonificato e lei ci porta lì, per mano, dice: Giocate.
Per avere quella casa mia madre ha chiesto a sua nonna dei soldi per dare la buonuscita ai parenti di una vecchietta, che là c’era morta.
In un quartiere popolare di drogati d’eroina e anziani moribondi nessuno se lo sarebbe comprato quel buco sporco di muffa e mia madre i soldi per comprarselo comunque non li avrebbe mai avuti, e allora si era accomodata coi proprietari, e aveva iniziato la richiesta per venir messa in regola, trovare un altro posto, sistemare almeno momentaneamente il domicilio.
Aveva pensato che sarebbe bastato poco, che in qualche modo avrebbe fatto, che ci avrebbero cercato una nuova casa mentre noi stavamo lì ad aspettare.
Tanto aspettiamo, così tanto che mia madre alla fine cede e si mette a ripulire e sistemare il pavimento e dipingere il soffitto e a far uscire meglio l’acqua dalla vasca, perché la casa il comune di Roma non vuole darcela.
Tutto si regge sull’equilibrio di ciò che è pronto a crollare ma con l’ultima radice si aggrappa a un terreno friabile, finché mia madre non resta di nuovo incinta e mio padre, che non è il padre di Mariano, si fa male al lavoro: cade da una impalcatura e resta paralizzato.
Ai documenti del matrimonio e dell’adozione si aggiungono quelli dell’invalidità, alle richieste dei sussidi di disoccupazione si sommano quelli per famiglia numerosa e per mandare i miei fratelli all’asilo nido, noi viviamo chiedendo alla città, al sindaco, all’Italia di venir aiutati e ricoverati e salvaguardati e non dimenticati, la nostra vita è una preghiera perpetua.
Quando nascono i gemelli, io ho sei anni e Mariano ci detesta tutti, primo fra noi il padre che non è il suo e che da uomo burbero si è trasformato in accessorio ingombrante e faticoso, un forno che non funziona più, un aspirapolvere che non raccoglie nulla da terra, uno scaldabagno che dopo cinque minuti ti lascia al freddo, è un ferro vecchio e lui vuole buttarlo via.
Mio padre, noto per i grandi ceffoni e la smania di far sesso, sta ormai fisso sulla sua sedia a rotelle recuperata da mia madre tramite alcuni parenti all’ospedale, e si alza le gambe da solo a una a una e non mangia più a cena: Tanto mangiare a che serve.
In casa ci sono un uomo fermo, simile a una statua, al marmo, alle piastrelle, allo stipite della porta, ai muretti che delimitano il palazzo, e una donna affaccendata che raccoglie, che sposta, che lustra, che sistema, che incolla, che avvelena, che con la scopa butta fuori l’acqua quando la casa si allaga per colpa della troppa pioggia. L’uomo fermo è mio padre, l’altra, la infaticabile, è la donna dai capelli rossi, che si chiama Antonia Colombo.
Io non ho giocattoli e ho poche amiche, mi tocca di ogni cosa la sua mala copia: la bambola cucita con pezzi di stoffa avanzati, la cartella usata da un’altra bambina e con i suoi disegni sopra, le scarpe del mercato portate a casa senza scatola ma dentro una busta di plastica con la suola già consumata, al posto delle luci di Natale i mandarini, al posto delle Barbie le loro fotografie ritagliate dalle riviste.
Penso che siamo materiali di scarto, carte inutili in un gioco complicato, biglie scheggiate che non rotolano più: siamo rimasti immobili a terra, come mio padre, caduto da una impalcatura inadeguata, in un cantiere illegale, senza contratto e senza assicurazione e da laggiù, dal punto in cui siamo precipitati, vediamo gli altri mettersi al collo collane di gemme.
I gemelli sono minuscole creature chiassose che dormono in un enorme scatolone pieno di coperte appoggiato sul tavolo della cucina, e l’odore dei loro pannolini si mischia alla minestra.
Mariano e io non capiamo perché siamo ancora lì e non abbiamo mai provato a scappare, lo progettiamo di nascosto, io e quel bambino dai capelli scuri, il momento in cui fuggiremo, eppure non siamo mai pronti a scantonare, girare l’angolo della nostra vita.
 
[da L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito, Bompiani, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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