L’amico armeno che toccava il cielo con le dita

Luigi Oliveto

07/04/2022

“L’amico armeno” di Andreï Makine (La nave di Teseo, traduzione di Fabrizio Ascari) è un’intensa storia che l’autore, nato in Russia e naturalizzato francese, ha attinto dai ricordi della propria giovinezza. Sullo sfondo le drammatiche vicende del popolo armeno che tra il 1915 e il 1916 subì uccisioni e deportazioni di massa ad opera dell’impero ottomano. Il romanzo è ambientato in Siberia, negli ultimi giorni dell’impero sovietico. Chi racconta è un ragazzino tredicenne ospite di un orfanotrofio. Alla scuola che frequenta giunge un nuovo compagno di cui diverrà grande amico (“Mi insegnerà ad essere chi non ero”). Il nuovo arrivato si chiama Vardan. Abita insieme alla sua famiglia in un quartiere di pessima reputazione dove si è formata anche una piccola comunità di armeni. Persone che hanno lasciato il lontanissimo Caucaso e si sono trasferite lì per essere prossimi ai loro familiari imprigionati nel carcere del paese. Vardan è piccolo di statura, gracile, ha movenze e voce delicate. Fin dal primo giorno di scuola, diviene oggetto di prese in giro, disprezzo, angherie: “La diversità di Vardan fu notata molto presto e perseguitata dal suo nuovo ambiente: gli allievi della nostra scuola, l’altro formicaio retto da leggi di rivalità feroce e dal disprezzo per i deboli”. L’unico a difenderlo è l’amico appena trovato. È lui ad accompagnarlo spesso a casa, a fargli compagnia durante le molte ore che Vardan, affetto da una indecifrabile malattia, trascorre a letto. Insieme vagheggiano di trovare il tesoro di un monastero distrutto che permetterebbe alla comunità armena di trasferirsi in un luogo più dignitoso e accogliente. Il gioco dei due ragazzi non piace, però, alle autorità sovietiche ed avrà serie ripercussioni sull’intera comunità. Scritto con sapiente misura e nitore, il romanzo di Andreï Makine è una stupenda storia di amicizia adolescenziale che ha chiaramente segnato l’autore. Perché da un amico così speciale che sa toccare il cielo con le dita impari a vedere quanti paradossi racchiuda il mondo. Ti indica, per sempre, come vivere sorretto da una “segreta ragione di speranza”.
 
***
 
“Mi ha insegnato a essere chi non ero.”
Nella mia giovinezza, esprimevo così quanto l’incontro con Vardan mi aveva fatto scoprire di misterioso e di paradossale dietro la giostra del mondo.
Adesso, ci vedo non oscuri enigmi e sorprendenti paradossi, ma quella verità semplice che, grazie a lui, avevo finito col comprendere: ci rassegniamo a non cercare l’altro che siamo, e ciò ci uccide assai prima della morte, in un gioco di ombre, agitato e verboso, considerato come unica vita possibile. La nostra vita.
Quella sera, parlava con voce calma e lenta, una sorta di eco affievolita da una enorme distanza. La sua voce abituale. Tuttavia, ciò che diceva sembrava rasentare la follia. Oppure voleva burlarsi di me? Avevo avuto talvolta questa impressione all’inizio della nostra amicizia.
“Vuoi che tocchi il cielo? Così, con le dita...”
Scossi il capo, con una risata di sfida. Vardan alzò la mano e rimase immobile per qualche secondo, perché potessi familiarizzarmi con la sua verità. Vedendo che continuavo a non capire, venne a una spiegazione, senza riuscire a celare il proprio stupore tanto la cosa gli sembrava incredibile:
“Qui, alla nostra altezza, c’è la stessa aria che si trova in mezzo alle nuvole, non è vero? Dunque il cielo comincia da qui, e persino da più in basso, raso terra... anzi, sotto le nostre scarpe!”
Sconcertato dal suo ragionamento, fui sul punto di tirare in ballo la differenza tra i vari strati dell’atmosfera, di cui studiavamo le caratteristiche nelle nostre ore di scienze. Con i cirri, gli altocumuli, i nembi...
Per fortuna mi trattenni dal contraddirlo e grazie al nostro breve silenzio quei minuti sarebbero rimasti intatti nella mia memoria, al riparo dalle sottigliezze verbali dell’erudizione. Quel sole basso, la serenità degli ultimi giorni di agosto, l’oro trasparente delle foglie, un cielo che serbava ancora il tepore vellutato di un’estate tardiva... e quella mano di adolescente, dalle dita sottili che si libravano nell’azzurro, tra le scie bianche lasciate da un aereo. E i nostri giovani fiati sospesi alla frontiera di un’umile e vertiginosa rivelazione.
Crescendo, avrei intuito il vero significato di quel gesto. Vardan mi faceva scoprire molto di più di una divertente curiosità atmosferica destinata a sorprendermi. Parlava, senza riuscire veramente a definirla, di un’esistenza nuova in cui il nostro pensiero sfuggiva all’ordine di questo mondo e ci offriva un’altra maniera di vivere e di vedere. La nostra ragione vi si opponeva, con tutto il suo brutale realismo, ma una volontà misteriosa, in noi, non chiedeva che di poter esplorare la leggerezza di quel cielo che si stava aprendo sotto i nostri passi.
A ogni modo, quel cielo che sfiorava il suolo coperto di cicche, di tracce fangose e di sputi mi colpì quanto le folgorazioni di un Copernico o di un Galileo. Più ancora, fu l’Alto divinizzato, celebrato in tutte le religioni, a perdere la propria arroganza di mondo superiore, mescolandosi al nostro respiro di mortali. Da quel momento, pensando a Dio, avrei immaginato la sua presenza infinitamente più vicina a noi, così diversa dalla levitazione altera delle divinità adorate e temute dagli uomini.
Nel mio ricordo, l’istante della nostra contemplazione silenziosa, in una sera di agosto, avrebbe formato una vetrata immateriale, al tempo stesso fugace e perenne, che avrebbe resistito all’accanito lavoro dell’oblio cui finiamo sempre col rassegnarci.
Mi sarei reso conto ugualmente, molti anni dopo, che inconsciamente, grazie a quel gesto di Vardan, al suo braccio sottile di adolescente, avrei saputo comprendere la fragilità delle donne che avrei amate. Sì, quei corpi minacciati dall’età, quelle anime accerchiate dalla volgarità, le confessioni condannate a rimanere mute davanti alle monolitiche certezze dell’esistenza.
Quella mano che toccava il cielo sarebbe divenuta una segreta ragione di speranza.
 
[da L’amico armeno di Andreï Makine, trad. di Fabrizio Ascari, La nave di Teseo, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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