L’idea della morte si piazza in mezzo al cuore

Tito Barbini

09/04/2020

E cosi a morire, nel tempo del Corona virus, sono soprattutto i vecchi. Lo dicono i bollettini di guerra della Protezione Civile e sembra che questo ci consoli anche. Mi hanno chiesto un breve racconto. Voglio raccontarvi una storia che contiene una morale che scoprirete alla fine. Successe una domenica mattina mentre andavo al seggio. La data è di quelle che si segnano col pennarello sul calendario: il 16 giugno 1999. Quasi uno scherzo del destino: nel giorno più importante della politica, per un uomo che la politica l’ha sempre vissuta con passione, fu la vita a bussare alla mia porta. Come un padrone che esige tutto il dovuto e lo esige subito. Fu quello il giorno del mio infarto. Un momento – sospeso tra un prima e un dopo – di cui ancora oggi trattengo una sensazione acuta. All’inizio pensai che fosse una fitta provocata da un dolore reumatico. Solo poco più tardi compresi che non era una cosa da poco perché il dolore si faceva sempre più forte, insopportabile. Allora chiesi a mia figlia di accompagnarmi in ospedale. Non credo di aver provato realmente paura. È strano, ma guardavo con distacco tutto quello che si agitava intorno a me. Come se stesse accadendo a un altro. Il mio doppio. Era su di lui che investivo quanto mi rimaneva di lucidità̀ e presenza, nell’evenienza della mia morte.

Mi hanno detto che quel giorno mi sono trovato al limite, a un passo dalla fine. Però a ripensarci mi rivedo come il concorrente di un quiz televisivo, chiamato a scegliere tra due pulsanti, la vita e la morte. Alla fine ho scelto di andare avanti, forse per puro caso, senza averlo davvero ponderato. Che cosa è stato l’infarto? Che cosa può accadere nella testa di un uomo quando gli viene detto che sta camminando sul bordo di un precipizio? Domande difficili destinate a non avere risposta. Per quanto mi riguarda avrei preferito perdere conoscenza e sperimentare un’altra dimensione del viaggio. Invece ricordo con nitidezza una sorta di attesa di qualcos’altro, attesa di riposo, di quiete. E oggi, vent’anni dopo, al mio trentesimo giorno di clausura, vorrei dire: se c’è una morale in questa storia, è che solo chi ama la vita difendendone purezza e dignità̀ guarda con rispetto alle persone avanti con l’età che possono ammalarsi. Cosa sta passando in questi giorni la persona anziana, spesso sola e indifesa? Che cosa accade quando un uomo o una donna si trovano improvvisamente dentro una nuova realtà che annulla il passato e rende improbabile il futuro? Cosa significa ripartire? Come si può ripartire, se si può? Cosa succede alle nostre giornate, a partire dalla decisione di prendersi cura di sé oppure di non seguire le prescrizioni mediche? E agli affetti?

Ecco, accadono tante cose, difficili a dirsi e a raccontarsi, ma c’è una cosa su cui bisogna puntare l’intera posta: il coraggio di affrontare il futuro. In una delle ultime pagine de Il tempo ritrovato Marcel Proust scrive, non senza una vena di profonda tristezza, che c’è un momento nella vita di ciascuno in cui l’idea della morte si piazza in mezzo al cuore e non si può fare più nulla per scacciarla. Una cosa si può invece fare oggi, nel tempo del Corona virus, rispettare e amare la senilità. È saggezza, esperienza e un dono anche per i giovani. Ormai i morti sono migliaia. Sono numeri elencati freddamente dimenticando che ogni morto era una persona, ogni persona era una storia e se potessimo guardare dentro a ognuna di esse scopriremmo tante cose belle. Ora, nel tempo del Corona virus, ogni morto invece diventa un numero. Percentuali che stabiliscono quanto è dovuto al virus e quanto (come viene sussurrato con un tono consolatorio) è dovuto anche ad altre patologie dell’età avanzata. Che infinita tristezza. Muoiono da soli, senza la vicinanza dei loro cari, scompaiono nella notte in lunghe tradotte militari. Immagino queste persone nelle corsie delle terapie intensive, cercano il viso, la mano di una persona cara e non la trovano. Sono come astronauti che, persi nella loro odissea nello spazio profondo, hanno sì fame di ossigeno ma soprattutto di amore. Non possiamo far molto per essergli vicini. Ma un pensiero di vicinanza a tutte le persone che stanno soffrendo nelle stanze delle rianimazioni, un pensiero così potente che gli salvi la vita. Vorrei essere anch’io nella loro capsula spaziale a lottare e impedire di crollare dentro il buco nero che a volte ci inghiotte ma che, questa volta, riporterà la capsula nella nostra casa terra. 

Ecco, a me è successo questo, ho sentito di essere in comunione con loro, pensando con amore ai miei genitori scomparsi. Mi dispiace che il babbo sia morto nel momento sbagliato e prima del tempo. Ho potuto tenergli la mano nelle ore in cui si è spento. Penso alla mamma e al babbo, oggi. Alla fatica della loro vita, ma anche alla forza con cui sostennero tutto, superarono tutto. Lottare per i loro figli, lottare perché non conoscessero le loro stesse umiliazioni, non fu niente di eroico. Fu naturale come bere un bicchiere d’acqua. Ancora oggi vorrei poter conversare con loro, avere una seconda possibilità̀. Sarebbe l’occasione per rivolgergli finalmente qualche domanda che mi sono sempre portato dietro: per esempio, dove abbiano raccolto tutta quella forza. E quel senso del dovere, poi, con quelle radici profonde e potenti. Erano cose pensate per farmi crescere. Pochi concetti che dovevano essere ben chiari. E poi valori, che avrei dovuto tenere sempre presente. La dignità, l’onestà, la solidarietà verso i deboli, la fedeltà alla parola data... Riesco a rivederli, anche se poi, ovviamente, non rivedo solo loro.

Nella mia fantasia, non è poi molto diverso da tanti altri anziani che ho incontrato nella mia Cortona, alle feste della liberazione e del primo maggio quando c’era la distribuzione militante dell’Unità, ai cortei del sindacato o sulle panche di legno delle feste dell’Unità dove non si finiva mai di aspettare la salsiccia e il bicchiere di vino rosso, ma l’attesa non pesava perché si conversava anche con chi non avevi mai visto prima. Ecco, penso a mio padre e ai suoi, ai miei, compagni che ci hanno lasciato e mi viene in mente la generosità della militanza quando la politica era una cosa bella, il senso di comunità.

II racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"
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Tito Barbini

Tito Barbini è stato sindaco di Cortona, presidente della Provincia di Arezzo e assessore con vari incarichi alla Regione Toscana. Segretario della federazione aretina del pci, amico personale di François Mitterand, nel 2004 ha abbandonato la politica e intrapreso, zaino in spalla, un viaggio di cento giorni che lo ha portato dalla Patagonia all’Alaska. Da quell’esperienza nasce il libro Le nuvole non chiedono permesso (2006). Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Antartide. Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo (2008), Caduti dal muro (2009, con Paolo Ciampi), I giorni del riso e della pioggia (2009), Il cacciatore di ombre (2011), Le rughe di Cortona (2013), Parole in viaggio (2014), L’ultimo pirata della Patagonia (2015), Quell’idea che ci era sembrata così bella. Da Berlinguer a Renzi, il lungo viaggio (2016), I sogni vogliono migrare...

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