L’incendio

Silvia Roncucci

26/06/2020

Da giorni un incendio devasta le colline di Hollywood. Che sia doloso o meno poco importa: è un colpo di grazia per i pochi abitanti rimasti a Los Angeles. Quelli che non hanno avuto i mezzi per partire e sono già stremati dalla difficoltà di adattarsi alle nuove temperature, salite negli ultimi tre anni di trenta gradi. È troppo tardi per scappare al Nord. Il Canada il mese scorso ha concluso la costruzione del muro con cui intende arginare i flussi migratori. La popolazione canadese nell’ultimo anno è quintuplicata e la situazione è diventata insostenibile per il governo locale. Gran parte della popolazione mondiale, circa tre miliardi e mezzo di esseri umani, nello stesso periodo si è concentrata nelle terre che vanno dal trentesimo parallelo a quello che un tempo era chiamato Mar Glaciale artico, e che ora di glaciale non ha niente se non il nome – memoria di una passata presenza, come una volta succedeva con le chiese, i ponti o campi di battaglia. Ha privilegiato i luoghi più antropizzati, come Canada e Penisola Scandinava. Da stime di massima pare che i sopravvissuti all’ondata mondiale di calore siano formati per tre quinti da coloro che abitavano la zona tra il trentesimo e il quarantacinquesimo parallelo e che sono riusciti a fuggire al Nord per primi, un quinto da fortunati che al Nord già risiedevano, e la metà del restante quinto dai pochi sopravvissuti – prima alla calura, poi alle difficoltà migratorie – tra i popoli un tempo a Sud dell’Equatore.

Io, invece, appartengo all’altra metà dell’ultimo quinto. Qui a Teotihuacan – come è accaduto in altre parti d’Europa e d’Asia – antiche popolazioni scavarono degli ambienti sotterranei dove ripararsi dalle intemperie o proteggersi da attacchi esterni, con una temperatura costante di venti gradi. Starsene qui non è una delizia, ma sempre meglio che fuori. Pare che siamo in trecento milioni, in tutto il mondo, a vivere così. Sotto terra. Come controparte della sopravvivenza, noi abitanti della Città della Luna siamo costretti a non mettere il naso fuori. Uscire significherebbe riportare ustioni dopo poche ore di esposizione al sole e, nell’arco di alcuni giorni, morire di fame e disidratazione. Ogni tanto una vedetta, scelta con un sorteggio, si copre di panni umidi e va a dare un’occhiata al mondo in superficie. Ma di solito al ritorno – se c’è, un ritorno – non ha niente da segnalare. Se non il ritrovamento di qualche carcassa di animale, che porta giù qualora fosse provvista di un po’ di carne, per condividerla sulla nostra magra mensa. Di solito ci nutriamo di insetti, di lombrichi e dell’acqua che ancora scorre, in minuscole quantità, su un fondo argilloso che non permette agli strati di sottostanti di assorbirla. Di certo è inquinata, ma è l’unica che abbiamo. La cosa buona è che, non facendo molto movimento, necessitiamo di poche calorie. Viviamo come gli uomini primitivi, per sopravvivere, ma con lo svantaggio di sapere che un tempo la vita non era solo questo: ricerca di una banale sopravvivenza. Invece ora non esistono aspettative che vadano oltre i cinque minuti. Né illusioni. A volte mi chiedo come abbiamo fatto per tanti secoli a pensare che la vita fosse qualcosa di diverso da questo: farsi aspettative che non vadano oltre i cinque minuti.

I segnali Internet ancora ci arrivano, a tratti. Nel Nord riescono a ‘fare informazione’, ma spesso ci viene il dubbio che neanche loro sappiano se quel che dicono è vero, o se il caldo non abbia dato alla testa a tutti noi. Gli speciali sulle cause del picco delle temperature che si è manifestato negli ultimi ventiquattro mesi, con interviste ai climatologi e alle cassandre disattese, ormai non vanno più di moda. Sappiamo cosa l’ha determinato. Della foresta amazzonica non esiste che il ricordo e le acciaierie a cui ha fatto posto hanno raddoppiato l’effetto negativo della deforestazione. Le politiche a favore dei produttori di automobili, sostenitori e alleati delle maggiori potenze economiche mondiali, hanno incrementato l’acquisto di mezzi di locomozione privata tanto da azzerare quelli pubblici, portando a livelli insostenibili traffico ed emissione di anidride carbonica. La goccia che ha fatto traboccare questo vaso infetto è stato l’incendio che ha colpito il più grande tra i ‘villaggi di spazzatura’, discariche abusive installate tra Europa, Asia e America Latina, la cui esistenza è già di per sé causa principale dell’aumento di emissioni di metano. Da Bakun, laddove il villaggio era sorto, l’incendio è arrivato a ingoiare quasi per intero l’isola di Giava, creando una nube tossica grande quanto tutta la sua superficie. I venti non sono riusciti a disperderla; ancora galleggia per il globo, appestando l’aria che un tempo inalavamo. Fuori, se ben ricordo, eravamo arrivati a respirare peggio di quanto si respiri qua sotto.

Questa però è storia vecchia. I programmi che vanno per la maggiore sui mass media e social network riguardano le trasformazioni che il mondo come lo conoscevamo una volta sta subendo. Dell’incendio a Los Angeles abbiamo notizie certe, perché ci sono giunte delle immagini. Della fuga verso il Messico dei suoi abitanti, intimoriti dall’espansione del fuoco in direzione dell’Angeles National Forest, no. Di foto non ne abbiamo ricevute, né video, né registrazioni vocali. Fonti di seconda mano affermano che, stretti tra la morsa del fuoco e il muro canadese, centinaia di californiani abbiano seguito il loro esempio e stiano partecipando allo scavo di un tunnel per raggiungerci. Avrebbero saputo, sanno, come viviamo.  Sanno di una città in Turchia dove sono stipate circa ottantamila persone, risalite dall’Arabia Saudita appena l’aria nella capitale del petrolio è diventata irrespirabile. Della metropoli sotterranea che a Pechino accoglie centomila cinesi, selezionati tra i personaggi più in vista del regime, il loro parentado ed entourage. Che molti europei, non potendo abbandonare le loro case, si sono rifugiati negli antichi tunnel sotterranei per l’approvvigionamento idrico, nelle fognature medievali, nelle catacombe paleocristiane. E sanno anche della nostra comunità di centoventi anime sotto Teotihuacan. La più vicina a loro, tra tutte le altre. La meno popolosa e più adatta ad accoglierli.

Nell’incertezza se la notizia della fuga sia vera o meno – difficile dimostrarne la fondatezza, nessun reporter si avventurerebbe a queste latitudini per un po’di audience – per il momento l’unica cosa che possiamo fare è aspettare. Aspettarli. Ci giungono notizie che il rogo di Hollywood si è spento, portando con sé piante, cose e le poche persone rimaste per un raggio di decine di chilometri. Alcune videocamere di sicurezza mostrano una città deserta. Una piccola comunità stanziata in una serie di bunker a dieci chilometri di profondità sotto la città di San Diego, costruiti negli anni Cinquanta del secolo scorso in vista di una minaccia nucleare e dotati di copiose scorte di viveri, per ammazzare il tempo ha ideato un programma web in cui illustra il mutare drammatico delle condizioni fisiche e psicologiche dei propri membri. Hanno mostrato in diretta la morte di un anziano, il cui cadavere è stato gettato fuori dalla botola d’ingresso per evitare che infettasse gli altri. Il calore deve averne sciolto il corpo in pochi giorni, ma di questo non abbiamo documentazione. Ora si susseguono notizie incerte sul passaggio, proprio lì accanto, del tunnel che gli abitanti di Los Angeles e i loro sodali stanno scavando. Dal bunker dicono che sentono dei rumori, trapani, qualcosa di somigliante a una ruspa, voci, forse. Stanno impazzendo, e noi con loro. Ci domandiamo cosa faremo se e quando queste persone arriveranno. Se ci sarà bisogno di combattere, o se saranno per noi degli alleati. Intanto uno di noi è uscito e dopo un’ora è rientrato ustionato e rintontito con in mano mazze e picconi trovati in un’officina abbandonata. Non si sa mai, tutto può far comodo.

Il sensori del muro di Tijuana, collegati a una base del Pentagono, ancora funzionano, ma da anni non segnalano la presenza di esseri umani che dovrebbero, se non uccidere, per lo meno far precipitare con una scossa elettrica. Gli unici a morire così, negli ultimi tempi, sono stati degli uccelli e qualche animale selvatico. Ora rilevano la presenza di movimenti sotterranei in direzione inversa a quella degli antichi flussi migratori. Intanto il Consiglio dei nostri saggi si riunisce ogni giorno per studiare a tavolino una strategia da mettere in atto. Pensare a delle proposte di collaborazione con i coloni in arrivo. Attuare, anche grazie alle loro conoscenze, un progetto di coltivazione in assenza di luce naturale già ipotizzato da alcuni compagni. Ampliare le grotte in cui viviamo, nella speranza che il terreno sopra le nostre teste non ceda. Tentare, utilizzando i mezzi di cui si dice dispongano, lo scavo di nuovi tunnel verso Nord, che possano passare sotto il muro canadese o ancor meglio gli oceani. Troppo difficile? Troppo visionario? Pare che oltre agli uomini conducano con sé anche donne e bambini. Se invece si trattasse di una comunità maschile? E se fossero malintenzionati?

È notizia certa che il governo Canadese ha inviato degli aerei kamikaze a sorvolare il golfo della California e le città di Hermosillo e Guadalajara. Sono dei kamikaze, sì, perché sanno che, mentre le immagini riprese sono diffuse dai media, i loro mezzi cominciano ad andare in tilt per via del caldo. Ma è gente senza arte né parte, disgraziati che hanno perso tutto e sperano così di fare una fine eroica e rapida senza troppo soffrire e senza ricorrere all’eutanasia, vietata in quest’epoca di calo demografico. Increduli, dai nostri telefonini ad alimentazione solare – che dobbiamo star bene attenti a lasciar fuori a ricaricare solo pochi minuti per non farli abbrustolire – osserviamo le immagini degli aerei che volano bassi mostrandoci una terra fatta di sterpaglie e sabbia. Un nuovo Sahara da cui affiorano rari resti di civiltà. Non ne siamo sicuri, ma a un certo punto, da una montagnola scavata nella terra, vediamo emergere un mezzo. Un autobus. Anzi no, una specie di grande trapano. Una talpa meccanica, forse. Proprio in questo momento le immagini scompaiono.

Intanto tra i miei compagni s’infittiscono le teorie sul da farsi. Pochi continuano a essere ottimisti. Il tempo che passa portandosi con sé notizie scarse e incerte ci annebbia la mente di paura. Ognuno crea al meglio che può il proprio arsenale privato. Forchette che diventano armi per i bambini. Lamette da barba dei mariti che le donne si nascondono tra le sottane come mezzo di difesa personale. E altri metodi improvvisati. Il Consiglio, riunitosi per tirare le somme della questione, analizza pro e contro, arrivando a una conclusione: la prospettiva migliore è che queste genti vogliano allearsi con noi, la peggiore è che ci vogliano spodestare. E magari mangiarci. Perciò dobbiamo prepararci a fare lo stesso. Ma la riunione è inutile. Da giorni non si sente dire niente sulla questione. A quest’ora gli invasori, se così li vogliamo chiamare, dovrebbero essere arrivati. Invece niente segnalazioni a Città del Messico e dintorni. Nessuno ha visto o sentito niente. Qualcuno dice che abbiano voluto attraversare il Golfo della California e che siano morti bolliti. Qualcuno che sia stata tutta una messinscena. I media non ne parlano più, e tutti sanno che una cosa ignorata dai media è come se non esistesse. Allora io cerco di concentrarmi su quel che mi resta. Sulla mia pancia che cresce. Ormai dovremmo esserci. Non ho paura di essere sola. Senza un marito. Pablo sapeva che, sorteggiato come vedetta, avrebbe rischiato di non tornare. Nessuno di noi, purtroppo, sapeva che suo figlio era già dentro di me. Altrimenti sarebbe stato esonerato dal sorteggio. Ora basta però, voglio pensare solo a sopravvivere per lui. Nella speranza che, con il poco che riesco a mangiare e considerando quanto è velenoso, nasca sano. Sono contenta che le voci sull’arrivo degli invasori si siano zittite. Soprattutto perché, se fossero stati malintenzionati, la prima cosa che avrebbero fatto sarebbe stata violentare me e mangiarsi mio figlio, se nel frattempo fosse nato. Si sa che la carne dei bambini in fasce è quella più tenera. E’ come mangiarsi un gatto, dicono.

Voglio restare lucida. Lasciare da parte i timori per il futuro. Non esiste, il futuro. Voglio fare orecchie da mercante a chi mi dice che mio figlio non vivrà abbastanza a lungo da rivedere la luce del sole. Persino ignorare gli spari che ora sento in lontananza. Che qualcuno di là urla che sono arrivati. Che bisogna correre alle armi. Cacciare l’invasore. «A morte, a morte i californiani!», ripetono, mentre mi metto le mani sul ventre, sperando così che mio figlio non senta.
 
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Silvia Roncucci

Silvia Roncucci

Silvia Roncucci, nata nelle Crete Senesi, classe 1979, è autrice di articoli storico-artistici, racconti, scritti umoristici, romanzi, guide per ragazzi - quest’ultime nate dalla sua formazione come storica dell’arte e dalla decennale esperienza come guida turistica a Siena e provincia. Nel 2011 si è occupata di libri anche a Radio Siena, con il programma Libri e dintorni, e nel 2012 ha curato un laboratorio di scrittura per ragazzi italiani di seconda generazione. Il suo ultimo lavoro è “L’anno della morte di Kurt” (La Ruota edizioni, 2018) un romanzo generazionale ambientato tra gli anni novanta e la contemporaneità. È tra i fondatori del Gruppo Scrittori Senesi.
 

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