La donna lunare di Andrea De Carlo

Luigi Oliveto

11/10/2018

Attento osservatore dell’universo femminile, Andrea De Carlo propone ancora una donna a protagonista del suo ultimo romanzo “Una di Luna” (La Nave di Teseo). In tal caso una donna da sempre alle prese con un difficile rapporto con il padre (“mi ci è voluta tanta energia per venir fuori intera”) e, non di meno, in cerca di risolvere le proprie contraddizioni, capire legittime aspirazioni e sentimenti. Perché Margherita Malventi, che nel suo piccolo ristorante a Venezia prepara piatti originali e ben pensati, è ‘una di luna’; e, come la luna, alterna fasi di luce e oscurità, di evidenza e nascondimento, di quiete e opposizione. Suo padre Achille, ormai ottantasettenne ma ancora pieno d’energia, è stato uno dei migliori chef veneziani. Il prestigioso ristorante di Achille era finito in malora quando lui – un ometto tosto alto solo un metro e cinquantaquattro – aveva fatto passi decisamente più lunghi delle sue corte gambe. Ma giunge l’occasione del riscatto. Viene invitato a Milano come ospite d’onore a Chef Talent, popolarissimo programma televisivo di cucina. Margherita decide di accompagnarlo, confidando che questo viaggio possa diventare un inizio di apertura, di confidenza tra padre e figlia, convinta che lui, al di là del proprio egocentrismo, “gli voglia profondamente bene ma non sa esprimere quello che sente”.

In questa parentesi di un giorno e mezzo, fuori dal mondo consueto quando è più facile guardare anche dentro se stessi, qualcosa per i due accade comunque. Conoscono Jules, un francese, un illusionista, personaggio di forte magnetismo che alloggia nello stesso hotel. In una serata trascorsa al bar dell’albergo, Margherita se ne sente attratta, compresa, guardata finalmente per ciò che è nel profondo. Cosa fino allora sfuggita a colui con il quale, da dodici anni, ha una relazione d’amore.
Padre e figlia ritornano a Venezia e per entrambi comincia un’attesa: per l’anziano Achille della messa in onda della trasmissione cui ha partecipato come rivalsa sulle sue disavventure; per Margherita della piena consapevolezza di quanto le si è rivelato nell’incontro di una notte.
 
***
Dopo almeno un quarto d’ora che aspettavo sempre più nervosa sulla riva di pietra d’Istria smussata bianco-gialla subito a sinistra della fermata Ferrovia, la barca verde dei miei con mia madre al timone e mio padre seduto sulla panchetta centrale è finalmente arrivata, attraverso il traffico di vaporetti e lance e barche cariche di scatoloni e fusti di birra e cemento e spazzatura, nell’acqua smossa color giada.
Mia madre ha tolto il gas a cinque o sei metri dalla riva, e anche se la sua espressione era vaga come sempre ha fatto filare con precisione la barca tra i pali di legno. Mio padre è subito saltato in piedi, a gambe larghe per compensare l’ondeggiamento; si è aggiustato il cappotto blu, la sciarpa bianca. È alto un metro e cinquantaquattro, un uomo incredibilmente ostinato. Ha ottantasette anni, abruzzese di Pescocostanzo arrivato a Venezia sessant’anni fa, magro come uno stecco, capelli bianchi folti e dritti sulla testa, sopracciglia cespugliose bianche anche quelle, naso a becco che mentre crescevo ho sperato intensamente di non ereditare; pallido perché non gli piace l’aria aperta, pelle quasi trasparente alle tempie, occhi azzurri molto rapidi. Si chiama Achille, è fascista. Credo dipenda dal fatto che suo padre era sposato con un’altra donna quando ha incontrato mia nonna ed è scappato come un coniglio appena ha saputo di averla messa incinta, e che mia nonna ha dovuto metterlo in collegio a Ravenna quando aveva cinque anni per farlo crescere italiano, mentre lei andava a lavorare come cuoca per una ricca famiglia a Buenos Aires. Così mio padre ha dovuto inventarsi un super-padre con la faccia e la mascella prominente di Benito Mussolini, e aggrapparsi a un’ideologia di maschi finti forti, sconfitti dalla storia e pieni di rimostranze. Credo che sia anche stato un modo di compensare la sua statura ridotta, la sua delicatezza fisica, la sua sensibilità estrema, la sua propensione a buttarsi allo sbaraglio per poi sentirsi vittima di orribili ingiustizie. È da quando ero bambina che lo vedo rimbalzare tra atteggiamenti autoritari e ingenuità abissali, intuizioni, abbagli, scelte aggressive, cortesie d’altri tempi, successi clamorosi, errori catastrofici, eccessi di generosità, concessioni di fiducia alle persone più sbagliate, paranoie, commozioni, manie di grandezza, crolli, depressioni. Con lui ho dovuto fin da subito convivere con i sentimenti più opposti, le contraddizioni più faticose; mi ci è voluta tanta energia, per venire fuori intera.
“Siamo in ritardo” ho detto, nel tono più calmo che mi veniva. Ho preso la cima che mi ha lanciato mia madre, l’ho tirata per avvicinare la prua alla riva. Mia madre mi guardava con una delle sue espressioni ambivalenti, tra apprensione e distacco. La barca era parecchio scolorita, il motore rugginoso e sputacchiante, avevano entrambi un bisogno disperato di manutenzione.
“Grazie tante, Margherita, lo so bene che siamo in ritardo!” ha detto mio padre, con uno dei suoi scatti. Ha una vera ossessione per la puntualità: se deve andare a un appuntamento con i suoi mezzi arriva invariabilmente in anticipo, se è lui ad aspettarti lo trovi innervosito anche quando sei in perfetto orario. Si è chinato a prendere la valigia, un po’ a fatica. Non gli piacciono quelle con le ruote, dice che sono da vigliacchi, e che oltretutto trolley non è un nome italiano, così ne usa una senza, anche se gli spezza le braccia.
Mia madre si è mossa per aiutarlo, ma lui l’ha prevenuta con un gesto furioso. La sua valigia è in pelle marrone, con due grosse cinghie e due grosse fibbie di ottone, degli anni Sessanta; sembra un mulo impagliato e bardato senza testa né gambe, da vuota pesa più di qualunque cosa lui possa averci ficcato dentro per un viaggio di due giorni.
Ho tirato ancora la cima, ho messo un piede sulla prua per facilitare la sua discesa. Anche a me essere in ritardo mette in uno stato di agitazione estrema: è una cosa che ho ereditato da lui, tra le tante. Però sono stata zitta, perché con lui una parola sbagliata può fare danni fuori proporzione; mi muovo sempre sui gusci d’uovo, con mio padre.
Mia madre si è girata a guardare il traffico nel canale, si è girata a guardare mio padre. Alta, elegante, vaga: è più giovane di lui di ventitré anni, veneziana come me (più di me). Porta ancora i capelli tagliati à la garçonne come quando ero bambina, forse uno dei motivi per cui me li sono fatti crescere lunghi appena ho potuto.
 
[da Una di Luna di Andrea De Carlo, La Nave di Teseo, 2018]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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