La famiglia come unico luogo di scontro. Gli adolescenti e la ribellione

Francesco Ricci

20/02/2017

Se oggi a un adolescente capitasse di leggere una pagina tratta da “La ribellione delle masse” di Josè Ortega y Gasset o “L’uomo in rivolta” di Albert Camus o, ancora, il “Trattato del Ribelle” di Ernst Junger, rischierebbe di non capirci molto. Non, però, a causa dell’oggettiva difficoltà del tema che viene affrontato in questi saggi. Né, tantomeno, per via di uno stile arduo, denso, a tratti oscuro. Piuttosto, a risultare incomprensibile al giovane sarebbe l’idea che la società possa anche costituire lo spazio, per l’individuo, non già di una pacifica e pacificante omologazione, bensì di una ribellione, che non ammette né cedimenti né compromessi.

Oramai, infatti, è rimasta soltanto la famiglia come luogo di scontro. L’eclisse del dialogo tra genitori e figli ha determinato un accrescimento delle regole che i primi stabiliscono con il rigore tipico di chi si sente in colpa o perché assente o perché affettivamente distante, e che i secondi trasgrediscono con la rabbia di chi sa di avere atteso a lungo una parola, un gesto, una testimonianza, che non sono mai arrivati, e con la sfrontatezza di chi dispone di una libertà (libertà di costumi), che non ha uguali nella storia dell’Occidente. Fare tardi la sera, trascorrere la notte fuori casa, bere superalcolici, consumare droghe, vengono così a costituire sia un gesto di sfida sia una richiesta, dolorosa e disperata, di visibilità agli occhi di chi ci è genitore – per esserlo “bastano tre secondi”, come scrive Massimo Recalcati in una nota de “Il complesso di Telemaco” – ma che non riesce a esserci padre. E a volte succede che all’uccisione simbolica dei genitori – tema centrale di tanta letteratura primonovecentesca – segua o subentri l’uccisione reale degli stessi, percepiti come un ostacolo alla realizzazione di un ideale di vita nel quale “tutto deve essere possibile”. Quando non lo è, quando tra il desiderio del figlio e il suo esaudimento si frappongono il padre e la madre, si può arrivare a liberarci di quest’ultimi, con la stessa facilità con la quale ci si libera di una scarpa che ormai ci va stretta o di un maglione ormai passato di moda.

Il movimento studentesco del 1977 – ovviamente nella sua tendenza spontanea e creativa, messa bene in evidenza da Paul Ginsborg e Robert Lumley, e non certo in quella militarista e contigua alle organizzazioni terroristiche – è stato l’ultimo tentativo attuato in Italia di sovvertire o, comunque, di modificare in profondità l’ordine costituito. D’altra parte, il successivo venir meno di un modello di società, quello socialista-comunista, alternativo a quello capitalistico (in tal senso il 9 novembre 1989, giorno della caduta del muro di Berlino, simbolo della Guerra Fredda, resta una data simbolo) e l’omologazione planetaria, realizzata nel nome del consumo e grazie alle nuove tecnologie, hanno ridotto il mondo a un villaggio, dove a circolare sono gli stessi prodotti, le stesse immagini, gli stessi pseudo-valori. E quando le città, tutte le città indistintamente, si riducono a terse vetrine che esibiscono le medesime merci – merci da acquistare, usare, gettare – può accadere che si finisca col ritenere che nel consumo risieda la verità, la sola verità dell’esistenza. Pensiero riposante, quest’ultimo, riposante e rassicurante, ma, soprattutto, pensiero che alla lunga è destinato a cancellare l’idea stessa che si potrebbe anche vivere diversamente, rispettando e non cancellando ogni particolarismo, non riducendo l’etica alla sola etica del profitto, e, soprattutto, non accogliendo come un fatto immutabile e naturale il dato statistico che ci informa che tre miliardi di persone vivono sotto il livello della povertà: un giorno, a salvarci, se un Dio vorrà salvarci, non sarà certo il conto accumulato in banca, ma l’amore di cui siamo stati capaci.

Impossibilitati a confrontarsi con un modello di vita (poiché non esiste) diverso dal modello di vita americano, calati in un eterno presente che non consente di proiettarsi verso il futuro e che ha reciso ogni legame col passato (anche Che Guevara è ridotto a un adesivo, a una maglietta, a una fotografia, non ha più una storia, non è più una narrazione), i giovani del Terzo Millennio sono divenuti rispettosi del potere e dell’autorità, anche quando il potere e l’autorità meriterebbero di venire duramente criticati. Tutto si è fatto così sfuggente – complice l’erosione del concetto di sovranità territoriale (ma in Italia, ad esempio, chi decide a livello politico-finanziario e per conto di chi?) – e così apparentemente cortese (anche l’odio, come aveva previsto già all’inizio degli anni Sessanta Franco Fortini) che perfino le occupazioni delle scuole, quando vengono fatte, non sfuggono a una previa contrattazione tra le parti. Forse anche David Bowie, negli ultimi concerti prima di morire, quando sul palco attaccava “Rebel Rebel”, sapeva che il pubblico più giovane non avrebbe capito una sola parola di quella canzone: “So how could they know? / I said, how could they know?”.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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