La luce si ricava dalle ombre. L’Insegnamento di Carmen Pellegrino

Luigi Oliveto

22/07/2021

Gli archeologici chiamano anastilosi quella tecnica con cui si ricostruisce un edificio andato in rovina riassemblandone i pezzi originali. Nel romanzo “La felicità degli altri” di Carmen Pellegrino (La nave di Teseo) la protagonista, Cloe, applica una tecnica analoga sulla propria persona, nel tentativo di ricomporre le parti di sé che i traumi dell’infanzia, le scelte sbagliate di gioventù hanno distrutto: l’abbandono da parte della mamma, la perdita del fratellino Emanuel, la permanenza alla “casa dei timidi” (una casa-famiglia), un matrimonio sbagliato. C’è dunque da ricostruire molto di un’esistenza tutta segnata dall’abbandono. Prova a farlo da adulta: “Così, se qualcuno non ti ama, qualcun altro potrà farlo al suo posto, perlomeno potrà provarci. Io stessa potrei fare un tentativo: in un giorno qualunque, in un posto qualunque, se andassi oltre queste mia coltre d’odio, se guardassi qualcuno negli occhi, nuda dei miei dolori, potrei addirittura iniziare ad amare”. Inizia così un attraversamento di luoghi, ombre, lacerti di passato, che la portano a Venezia dove incontra il Professor T., docente di Estetica dell’ombra, che le dice come la luce non possa che ricavarsi dalle ombre e non viceversa: “Nascondiamo la nostra debolezza e rifuggiamo quella degli altri per non esserne contagiati. Ma sono le nostre ombre a essere indebolite, per la fatica di proteggerci. Bisognerebbe averne riguardo, trattarle con gentilezza. Cercare il luogo oscuro dove riparano. Non giudicare”. Entrambi abitatori dell’ombra, Cloe e il Professor T. non possono specchiarsi nella altrui felicità, ma, attraverso un parlare tanto scarno quanto penetrante, sanno ri-conoscersi, rendersi presenti, consapevoli di sé.
Carmen Pellegrino ha prodotto nuovamente un romanzo di grande intensità, percorso da un pathos che sembra avere l’afflato, la ritualità, le cadenze del teatro antico. Stupefacente la sua scrittura che ottiene un costante risultato drammaturgico non dall’eccitazione, ma dal contenimento, dalla parsimonia delle parole.
 
***
 
La casa in cui sono nata aveva un numero insensato di stanze e due grossi orci di terracotta all’ingresso. Le porte si aprivano su interni silenziosi e bui, finestre quasi sempre chiuse, infiltrazioni d’acqua. Se guardo indietro rivedo una bambina che si nasconde in uno degli orci, rattrappita segreta e con il pollice in bocca, a immaginare miglia e miglia di altrove. Dopotutto, in che altro modo potevo trovare scampo – rifugio, la piccola mia salvezza; dove potevo nascondermi se non in quei territori che i Greci chiamavano eikasia, regno di miraggi ombre e illusioni?
Parlare con i morti era inevitabile. Sospetto che faccia rabbrividire l’immagine di una bambina che parla con i morti, ma è sola, tanto sola da pregare i morti di farle un po’ di compagnia.
“Dio ce ne guardi!” disse la zia Tilde, quando un’estate le confidai il mio segreto. “Dio ci scampi!” E cercò di strapparmi dalle mani la fotografia di Mary.
Per buona sorte, Mary rimase ancora con me. Non era che una fotografia, ma chi può smentire che fosse mia amica, la mia sola amica? Aveva i capelli lunghi e neri e gli occhi pure neri, forse era Sioux. Non so quanti anni avesse all’epoca dello scatto, era una giovanissima donna dal cuore forte, così la immaginavo. Rubai la foto dal banchetto del robivecchi, il giorno in cui accompagnai nostro padre a cercare una scrivania usata per il suo studio di psicoterapeuta. Dietro la foto erano scritte a mano le date di nascita e di morte, ma erano cifre sbiadite, e comunque non sapevo farmi il conto, avevo cinque anni. Chiunque fosse, le sarò eternamente grata per avermi ascoltato, quando intorno a me nessuno era disposto a farlo. A Mary raccontavo i fattacci delle mie giornate, con lei mi nascondevo nell’orcio a pregare per i miei peccati, sotto il suo sguardo mi mutilavo il cuore per la tenerezza che non arrivava mai, e i suoi occhi erano buoni, mi abbracciavano e mi contenevano. Li avrei ritrovati – forse riconosciuti – parecchi anni dopo nel volto di Angela. Proprio in Angela che mi aiutò a uccidere l’unica cosa che in me era viva.
Ero sola, e lo era anche Emanuel. Non potevamo stare con gli altri, nostra madre non lo permetteva: portano malattie, diceva. Nemmeno con Gioele, il figlio muto di una coppia che lei e nostro padre frequentavano ogni tanto. Disse che di sicuro il ragazzino si era beccato la rogna in uno dei campeggi in cui i genitori lo mandavano per liberarsene, e con quanta imprudenza riuscivano a starsene tranquilli mentre il figlio dormiva tra pulci e topi.
A me, però, è rimasto un ricordo dolce della madre di Gioele, riusciva ad accogliere gli stati d’animo del figlio senza sminuirli, inventava con lui segni per dire alba sole meriggio, e poi mandava odore di violetta. Ma Beatrice non si fidava. Non si fidava mi-ni-ma-men-te delle misure d’igiene adottate da madri per niente scrupolose verso i figli. Come poi sapesse quale era il livello di pulizia delle loro case era un mistero, visto che non entrava mai, neppure costretta, nelle case degli altri.
“Non esagerare, Beatrice.” Nostro padre protestava, al suo solito modo fiacco – qualcosa gli suggeriva di farlo, forse un richiamo che lo riportava ai doveri paterni cui tentava di aderire; all’epoca, comunque, gli insulti non erano ancora il criterio della loro interazione.
“Manfredi, bada ai tuoi pazienti e non interferire con l’educazione dei bambini.”
“Ma io sono il padre.”
“Il padre! Le tue priorità sono forse cambiate quando ti sono nati i figli? Li hai pretesi, ma avevi la tua bella carriera da fare e l’hai fatta. Io invece, quando si è acceso l’abbagliante riflettore della maternità, ho rinunciato ho rinunciato ho rinunciato...”
Nostro padre riceveva in casa i pazienti, nelle stanze dove io non sono mai entrata. Quando le tensioni con Beatrice si fecero ingestibili, trasferì il suo studio nel terraneo che aveva una parete in comune con un delizioso negozio di fiori.
Beatrice era stata una sua paziente. Era dunque pazza. O lo era nostro padre?
Al processo la difese:
“Beatrice era sbandata e balorda, ma non avrebbe mai fatto del male ai figli. Nervosamente vigile, venne in terapia perché desiderava una vita diversa, sognava di realizzarsi come mercante d’arte, ma la famiglia la ostacolava. Era tuttavia incapace di opporsi alla volontà degli altri e compensava accumulando rancore contro sé stessa. Era anche la donna più bella che avessi mai visto.”
Parole che si fissarono come un’impronta nella tenera cera della mia mente; a volte, negli anni, tornavo a ripetermele cercando l’appiglio per convincermi che non lo aveva fatto. Invece non trovavo niente. Non abboccavo. Ero il pesciolino che aveva imparato presto la lingua dell’amo.
Parlare con i morti, dicevo. Forse accade a tutti quelli per i quali la barriera tra la realtà del presente e la realtà immaginata è estremamente permeabile. Oppure comunichiamo soprattutto con la nostra di morte, con quel senso di incomprensibilità della vita. Ma non è come se i giochi fossero già fatti. Anche allora avevo una irriducibile fiducia nel segreto della vita, ma quel segreto racchiude in sé la luce e l’oscurità. Finché è possibile inseguiamo la prima, diceva il professor T., schivando le ombre più o meno intense che si producono in un dato spazio, in un certo tempo.
Farsene qualcosa delle ombre, senza più riscacciarle, è quanto ho dovuto imparare.
 
[da La felicità degli altri di Carmen Pellegrino, La nave di Teseo, 2021]
 
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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