Quando le montagne cantano. La guerra del Vietnam vista con occhi vietnamiti

Luigi Oliveto

04/03/2021

Tra i drammatici – e, non di meno, paradossali – fatti del Novecento è da ascrivere anche la guerra del Vietnam. Paradossale ad iniziare dal fatto che mai fu formalmente riconosciuta come un conflitto tra potenze sovrane. In un esasperato crescendo durò vent’anni, dal 1 novembre 1955 al 30 aprile 1975, quando, con la caduta di Saigon, gli Americani dovettero prendere atto di una storica sconfitta, la prima vera sconfitta politico-militare degli Usa. Non si è riusciti a stabilire nemmeno il numero delle vittime. Tra militari e civili (corpi devastati dalle bombe a grappolo, dalle armi chimiche, dal crollo degli edifici) alcune stime parlano di 5 milioni di morti. Dello sconquasso psicologico, umano, sociale, politico causato da questa tragedia, molto, e per anni, è stato detto, scritto in libri, rappresentato al cinema. Basti pensare che esistono sul tema almeno una ventina di film a forte impatto drammatico in cui è più o meno implicita una condanna morale per tutto ciò che accadde in quella terribile escalation. Nel film Apocalypse Now, capolavoro di Francis Ford Coppola del 1979, il capitano Willard pronuncia una frase terribile: “A condurre la guerra era un gruppo di clown con quattro stelle che avrebbero finito per dar via tutto il circo.” Sulla guerra del Vietnam non mancano, dunque, racconti, ma – va detto – a prevalervi sono sempre sguardi di parte occidentale. Perciò sta suscitando grande interesse e apprezzamenti il romanzo “Quando le montagne cantano” della giornalista e poetessa vietnamita Nguyen Phan Que Mai, pubblicato in Italia da Editrice Nord, traduzione di Francesca Toticchi. Una saga familiare che attraversa l’intero Novecento; tre generazioni di donne tenaci, coraggiose, che non soccombono dinanzi ad avversità e tragedie; un Paese segnato da carestie, guerre, dittature, rivoluzioni. A fare di questa storia racconto è una nonna, ad ascoltare è la nipotina Huong. Si sono rifugiate sulle montagne e da lassù sentono i bombardieri americani, vedono il bagliore degli incendi che distruggono Hanoi. Quando tornano in città trovano la loro casa distrutta, va dunque pazientemente ricostruita, e proprio per infondere fiducia nella bambina, per testimoniarle che mai bisogna arrendersi, inizia a raccontarle la propria vita che ha visto l’occupazione francese, le invasioni giapponesi, l’avvento del comunismo, la sua fuga disperata verso Hanoi senza cibo né denaro, la scelta tremenda di dover abbandonare i cinque figli sperando di poterli un giorno ritrovare. E così era accaduto, perché lei non aveva mai ceduto allo scoraggiamento. Così nonna e nipote si sostengono in una reciproca ragione di vita. La casa viene ricostruita, la guerra finisce, i reduci tornano dal fronte. Torna anche la mamma della piccola Huong, ma la guerra le ha tolto tutte le parole e dovrà essere la bambina ad aiutarla a ritrovare la voce per dire l’indicibile. Una storia intensa e di grande poesia che, concedendo poco alla retorica, esalta la potenza degli affetti, la forza d’animo. Fa comprendere il dramma di quella guerra: questa volta visto con occhi vietnamiti.  
 
***
 
La nonna mi tiene la mano mentre camminiamo verso scuola. Il sole è un grosso tuorlo d’uovo che fa capolino tra i tetti in lamiera. Il cielo è azzurro come la camicetta preferita di mia madre. Chissà dov’è. Avrà trovato il papà?
Stringo il colletto della giacca perché il vento sferza la terra e solleva una nuvola di polvere. La nonna si china a coprirmi il naso col suo fazzoletto. La mia cartella le dondola sul braccio mentre si protegge il viso con la mano.
Non appena la nuvola di polvere si deposita riprendiamo a camminare. Tendo le orecchie, ma non sento uccelli. Cerco con gli occhi, ma non vedo un solo fiore lungo la strada. Non c’è erba intorno a noi, solo mucchi di mattoni rotti e lamiere contorte.
«Guava, stai attenta.» La nonna mi tira via dal cratere lasciato da una bomba. Mi chiama per soprannome, per proteggermi da quegli spiriti malvagi che secondo lei aleggiano sulla Terra in cerca di bei bambini da rapire. Dice che Hương, il mio vero nome, li attrarrebbe perché significa «fragranza».
«Oggi, quando torni a casa, ti faccio trovare il tuo piatto preferito, Guava.»
«Il phở?» Saltello per la felicità, pensando alla zuppa che amo tanto.
«Esatto... I bombardamenti mi hanno tenuto lontano dai fornelli. Ma adesso che c’è un po’ di calma dobbiamo festeggiare.»
Prima che io possa rispondere, una sirena distrugge il nostro momento di pace. Una voce femminile si diffonde da un altoparlante attaccato a un albero: «A tutti i cittadini! A tutti i cittadini! I bombardieri americani si avvicinano ad Hà Nội. Sono a cento chilometri di distanza».
«Ôi trời đất ơi!» esclama la nonna, invocando il Cielo e la Terra. Poi comincia a correre, tirandosi dietro anche me. Fiumi di persone si riversano fuori dalle loro case, come formiche in pericolo che abbandonano i nidi. Lontano, sul tetto del Teatro dell’Opera di Hà Nội, le sirene imperversano.
«Laggiù.» La nonna corre verso un rifugio antiaereo scavato a bordo strada. Solleva il pesante coperchio di cemento.
«Non c’è posto», urla una voce da sotto. Dentro quella fossa rotonda, grande abbastanza per ospitare una sola persona, c’è un uomo mezzo inginocchiato. L’acqua melmosa gli arriva al petto.
La nonna chiude subito il coperchio. Mi tira con sé verso un altro rifugio.
«A tutti i cittadini! A tutti i cittadini! I bombardieri americani si avvicinano ad Hà Nội. Sono a sessanta chilometri di distanza. Ci prepariamo al contrattacco.» La voce si fa più incalzante. Le sirene sono assordanti.
Tutti i rifugi sono pieni. Le persone ci sfrecciano davanti come uccelli con le ali spezzate, abbandonano biciclette, carretti, borse. C’è una bambina da sola in mezzo alla strada che piange e chiama i genitori.
«A tutti i cittadini! A tutti i cittadini! I bombardieri americani si avvicinano ad Hà Nội. Sono a trenta chilometri di distanza.»
Resa goffa dalla paura, inciampo e cado.
La nonna mi aiuta a rialzarmi. Getta la mia cartella al lato della strada, poi si china per prendermi a cavalcioni. Si mette a correre, sorreggendomi le gambe.
Il frastuono si avvicina. In lontananza si sentono le esplosioni. Stringo le mani sudate sulle spalle della nonna, nascondendomi dietro la sua schiena.
«A tutti i cittadini! A tutti i cittadini! Altri bombardieri americani si avvicinano ad Hà Nội. Sono a cento chilometri di distanza.»
«Correte alla scuola. Non la bombarderanno», urla la nonna a un gruppo di donne con bambini piccoli in braccio o sulle spalle. Lei ha cinquantadue anni ed è forte. Supera il gruppo di donne e raggiunge coloro che ci stanno davanti. Sballottata su e giù, affondo il viso tra i suoi capelli lunghi e neri che profumano come quelli di mia madre. Finché sentirò questo profumo, sarò al sicuro.
«Hương, adesso corri con me.» La nonna si accovaccia davanti alla scuola, ha il fiatone. Poi mi trascina dentro il cortile. Arrivate accanto a un’aula, scivola in un rifugio vuoto. Mi c’infilo anche io, e l’acqua mi arriva alla vita, attanagliandomi con le sue mani gelide. Fa freddissimo. Siamo all’inizio dell’inverno.
La nonna si allunga a chiudere il coperchio. Mi abbraccia, e il suo cuore che batte come un tamburo mi riecheggia nelle vene. Ringrazio Budda per questo rifugio, che è grande abbastanza per tutte e due. Temo per i miei genitori sul campo di battaglia. Quando torneranno? Avranno incontrato lo zio Ðạt, lo zio Thuận e lo zio Sáng?
Le esplosioni sono più vicine. La terra ondeggia, come un’amaca. Mi copro le orecchie con le mani. L’acqua si alza e mi bagna il viso e i capelli, mi oscura la vista. Polvere e sassi mi piovono in testa da una fessura. Si sente il fuoco della contraerea. Hà Nội si difende. Ancora esplosioni. Sirene. Urla. Un forte puzzo di bruciato.
La nonna giunge le mani davanti al petto. «Nam Mô A Di Ðà Phật, Nam Mô Quan Thế Âm Bồ Tát.» Fiumi di preghiere a Budda si riversano dalle sue labbra. Chiudo gli occhi e faccio come lei.
I bombardamenti continuano a imperversare. Poi un istante di silenzio. Uno stridio acuto. Io mi raggomitolo. Un’esplosione tremenda ci manda a sbattere contro il coperchio del rifugio. Il dolore mi annebbia la vista.
Ricado addosso alla nonna. Ha gli occhi chiusi, le mani sono un fiore di loto che si schiude sul suo petto. Lei continua a pregare mentre il frastuono delle bombe lascia il posto alle urla della gente.
«Nonna, ho paura.»
Ha le labbra viola, tremano per il freddo. «Lo so, Guava... Anche io ho paura.»
«Ma, se bombardano la scuola, questo rifugio ci crollerà addosso?»
Lei cerca di muoversi in quello spazio angusto e mi abbraccia. «Non lo so, mia cara.»
«Ma, se succede, noi moriremo, nonna?»
Mi stringe forte. «Guava, se bombarderanno la scuola, è possibile che il rifugio ci crollerà addosso, ma moriremo solo se Budda lo vorrà.»
 
Non morimmo quel giorno di novembre del 1972. Dopo che le sirene segnalarono la fine del pericolo, io e la nonna uscimmo dal rifugio, tremanti come foglie sottili. Barcollammo fuori dalla scuola. Diversi edifici erano crollati, c’erano macerie ovunque lungo la strada. Avanzammo lentamente sopra cumuli di detriti, tossendo. Spirali di fumo e di polvere mi bruciavano gli occhi.
Stringevo forte la mano della nonna mentre guardavo donne inginocchiate a terra che piangevano accanto a cadaveri i cui volti erano stati coperti con lacere stuoie di paglia. Di quei corpi, vedevamo soltanto le gambe. Erano maciullate, striate di sangue. Tra loro ne scorsi una più piccola, da cui penzolava una scarpetta rosa. Quella bambina poteva aver avuto la mia età.
Fradicia, sporca di fango, la nonna mi trascinava dietro di sé, camminando sempre più veloce mentre passavamo accanto a resti sparpagliati di corpi e a case crollate.
Sotto l’albero di bàng, invece, splendeva un sole glorioso, improbabile. Casa nostra era miracolosamente rimasta intatta. Lasciai la mano della nonna e corsi ad abbracciare la porta.
Lei volle subito aiutarmi a cambiarmi e a mettermi a letto. «Resta a casa, Guava. Vai subito lì sotto se arrivano gli aeroplani», disse indicandomi il rifugio che mio padre aveva scavato accanto all’entrata della camera da letto. Era grande abbastanza per ospitarci entrambe ed era asciutto. Mi sentivo meglio adesso che ero sotto gli sguardi protettivi dei miei antenati, la cui presenza s’irradiava dall’altare di famiglia, allestito sulla libreria.
«Ma tu... Tu dove vai, nonna?»
«A scuola, a vedere se i miei alunni hanno bisogno d’aiuto.» Mi tirò la coperta pesante fin sotto il mento.
«Ma, nonna, è pericoloso...»
«È vicino, Guava. E correrò a casa non appena sentirò la sirena. Prometti che resterai qui?»
Annuii.
Fece per avviarsi alla porta, poi tornò indietro. Si avvicinò al letto e mi posò una mano amorevole sulla guancia. «Prometti che non uscirai?»
 
[da Quando le montagne cantano di Nguyen Phan Que Mai, trad. di Francesca Toticchi, Editrice Nord, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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