Quella volta in cui padre Francisco Macedo da Coimbra fu cacciato da Castellina

Vito De Meo

27/03/2020

Il caso conferma l'importanza del piccolo borgo di Castellina in Chianti come centro di passaggio, stazione utilissima per recarsi nelle più disparate località utilizzando altre strade in alternativa al classico tragitto della Francigena. Come è noto, l'abitato è da sempre incrocio d'importanti arterie stradali in comunicazione con le valli d'Arbia, d'Elsa e della Pesa. Per questo luogo passava inevitabilmente molta gente: pellegrini, commercianti, viandanti d'ogni tipo e località. Persino Papa Leone X, durante il suo viaggio per incontrare Francesco I re di Francia a Bologna, sostò una settimana a Firenze e, di conseguenza, a Castellina nel novembre del 1515.

Volendo evidenziare il transito di uomini di chiesa per Castellina, l’esempio più interessante e rilevante, se non altro per lo spessore squisitamente teologico e morale dell'individuo, è quello del celeberrimo padre Francisco Macedo da Coimbra (Portogallo), soprannominato «monstrum scientiae». Nacque a Coimbra nel 1596, formatosi da giovane in ambito gesuitico (1638) passò poi all'Ordine dei Frati Minori con il nome di Francesco di Sant'Agostino (1642). Personalità coltissima e poliedrica, ricoprì svariati ruoli sia nelle corti d'Europa che in ambito ecclesiastico: consigliere di Anna d'Asburgo regina di Francia e del re di Portogallo; qualificatore del S. Uffizio (l'Inquisizione) e durante un suo viaggio in Italia, papa Alessandro VII lo nomino lettore di controversia del Pontificio Collegio Urbano nonché professore di Storia Ecclesiastica presso lo Studium Urbis (l'Università della Sapienza), insegnamento introdotto per la prima volta in Europa proprio a Roma intorno al 1660. Mantenne la cattedra otto anni prima di dimettersi per insegnare filosofia morale all'Università di Padova.

L'illustre teologo giunse a Castellina il 4 ottobre del 1677 provenendo da Roma e intenzionato a salire l'Italia fino allo studium padovano. Prima però decise di fermarsi a Castellina per celebrare una messa nella pieve. Il 4 ottobre - memoria liturgica di san Francesco d'Assisi - don Andrea Bianchi, pievano locale, era impegnato in una messa nell'oratorio intitolato proprio al santo francescano sito in località Strada (oggi proprietà Falassi), a sud dell’abitato castellinese. Data la sacrissima ricorrenza del 4 ottobre, Macedo pensò di celebrar messa nella pieve del SS. Salvatore. Un grande onore. Occasione che, contestualizzata al tempo in cui si presentò, dovette sembrare a dir poco eccezionale. Purtroppo, il pievano, al suo ritorno dall'oratorio di san Francesco alla Strada, si mostrò tutt'altro che disponibile e accogliente, arrivando persino a scacciare fisicamente il noto teologo.

Macedo si lamentò dell'accaduto con eminenti membri del clero regionale, come Mons. Pucci, vicario generale di Firenze, che al vescovo di Colle Val d'Elsa inoltrò il proprio rammarico per come fosse stato maltrattato il «più segnalato suggetto che habbia la religione Francescana». Il pievano castellinese si difese affermando che l'ottantunenne Macedo fosse giunto in paese con una «femmina di qualche sospetto», cioè una prostituta, tanto che il frate indignato spiegherà che la donna, accompagnata dal marito, altro non era che una dama di Modena proveniente anch'ella da Roma.

In questa diatriba però - e in pieno Seicento - fra Macedo effettuerà una lezione di morale davvero meravigliosa, spiegando nelle sue lunghe lettere che «io me ne vedo non solamente trattato di Apostata, ma ancora d'adultero [...]; so bene che un Homo d'ottant'anni, e religioso di sessantasei, non è capace di cotesta nota. Le Puttane, se lo sono, non si scacciano dalle Chiese, anzi [bisogna] invitarle per le Messe e Sacramenti. Le Chiese vogliono aprirsi ai fuggitivi e ai malfattori. Il signor Pievano doveva considerare che Christo non rifiutò la Maddalena».

Fra Macedo parla di una Chiesa che sia in grado di rifiutare il peccato ma non i peccatori. La grazia salvifica di Cristo raggiunge tutti. La Chiesa è santa in quanto accoglie, consola e aiuta il peccatore ad affrontare il lungo, spesso tortuoso, cammino di conversione. Una lezione oggettivamente grandiosa, tale da essere ancora oggi degna d’ogni considerazione. Il pievano castellinese, invece, sembra essere ancorato ancora a quella politica pontificia cinquecentesca che promosse, attraverso i papi Pio V e Sisto V, una vera e propria persecuzione, soprattutto nella Città Eterna. Le meretrici minano quotidianamente la moralità del popolo, sono povere e nel peccato trovano la sussistenza materiale di cui necessitano. Queste donne furono spesso arrestate, a volte castigate con punizioni corporali o, il più delle volte, mandate in esilio. L’assurda diatriba tra don Andrea Bianchi e fra Macedo da Coimbra si concluse il 14 gennaio 1678, con l’ultima lettera del pievano castellinese.

Probabilmente redarguito dai suoi superiori e finalmente consapevole a pieno delle virtù e degli insegnamenti del monstrum scientiae, don Andrea indirizzò le sue scuse più sentite, affermando di aver agito ‘senza riflettere’, che non era ‘pienamente informato’. Prega il noto francescano di perdonarlo e spera di rivederlo per trattarlo con «ogni maggiore e ben dovuto ossequio». Purtroppo, Macedo, religioso e teologo stimatissimo nel suo tempo, non rispose alle scuse né tanto meno tornò a Castellina per celebrare la messa in onore di san Francesco d’Assisi. Morì appena 3 anni dopo affermando a chiare lettere che «non mi sovviene in mente di haver mai ricevuto una ingiuria simil a quella di Castellina». Tuttavia, il caso particolare, approfondisce e conferma l’importanza di questo piccolo borgo chiantigiano come centro di passaggio, stazione utilissima per i numerosi viaggiatori che per recarsi nelle più disparate località utilizzarono altre strade, sentieri validi, percorribili e attrezzati in alternativa al classico tragitto della Francigena di fondo valle.

Quelle vie (poi chiamate romee) che già la dinastia ottoniana percorse per attraversare l’Italia centrale e recarsi a Roma. Del resto, don Andrea Bianchi non avrebbe mai potuto reagire in malo modo – ostinandosi a voler ragione persino nella corrispondenza – e a scacciare fisicamente il celeberrimo francescano se non ci fossero stati, per queste terre, «ne’ tempi andati, più Sacerdoti forestieri, reali o mentiti, e tal volta Apostati, in compagnia di Donne sotto abito religioso». Tali esperienze obbligarono il pievano «ad aprire maggiormente e bene gli occhi nelle richieste di celebrare», perdendo l’occasione preziosa di veder «onore della Chiesa, e […] poterla puntualmente servire, com’è seguito in altre persone degne».
 
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Vito De Meo, saggista, giornalista freelance e presidente del Gruppo Archeologico Salingolpe.

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