Salvarsi a vanvera, come si può. L’insegnamento di Colagrande

Luigi Oliveto

24/03/2022

Per raccontare la tragedia in modalità commedia occorre intelligenza, sensibilità, padronanza del mezzo (la scrittura), un orecchio assoluto per cogliere e riscrivere in partitura le buffezze che sempre se ne stanno nelle pieghe dell’esistenza (anche nelle circostanze più drammatiche). È quanto riesce a fare Paolo Colagrande nel suo ultimo romanzo “Salvarsi a vanvera” (Einaudi) dove, fin dal titolo, si lascia intendere il serio e il bizzarro. Siamo nell’autunno del 1943, provincia padana. L’ebreo Mozenic Aràd, commerciante di generi alimentari e coloniali, teme per la sua vita e quella della propria famiglia (moglie, due figlie gemelle e il piccolo Cali, quattro anni, trovato su un treno e, di fatto, adottato). Già prima delle leggi razziali, Mozenic Aràd aveva provveduto a diventare anagraficamente Mestolari Aride, ma serviva ben altro per sfuggire alla sciagura nazista. Lo soccorre la casuale scoperta di un vicino giacimento di carbone che può risultare utile ai tedeschi. In verità la scoperta la si deve a Cali durante una passeggiata insieme a quel padre putativo che dal giorno dell’incontro in treno mai gli ha lasciato la mano. Così Aride improvvisa un team di persone spacciandole per tecnici minerari e fa assumere un centinaio di addetti all’estrazione. Tutti ebrei o quasi, perché – come spiegherà al comando tedesco – sono gli unici a non temere la Salamandra Ignifera Gigante Cinese che si aggira nella miniera e che uccide qualsiasi forestiero si imbatta in lei. Con questa immane fandonia, Mestolari Aride si spinge ben oltre certe furbate messe in atto fino ad allora, come quando durante una requisizione aveva appioppato ai tedeschi “caffè di ghiande, dei fagioli che non van bene neanche per la tombola e una cinquantina di tavolette di cioccolata di castagne dura come mattonelle di gres; e alla fine, come devoto omaggio, anche un carrello di Ovocrema Astrid vecchia di sette anni, che era più prudente buttar via, insieme a delle scatole di caviale di colla di pesce e cicoria, marca Babilonia, tinta per capelli Ordzak tonalità nero aubergine e gran crema de luxe Florence per calzature”. Certo, la maledizione della salamandra gigante, la miniera a totale gestione ebraica cominciano a sollevare qualche sospetto nel maggiore Aginolf Dietbrand von Appensteiner, e non poche saranno le peripezie vissute da questo gruppo di persone capitate con una identità ‘sbagliata’ in un paradossale frangente della storia. Così l’autore introduce nell’enormità di quella sciagura una chiave esageratamente assurda, grottesca. C’è comunque di mezzo la vita, che va disperatamente salvata, fosse anche con sconsiderati mezzi. A vanvera, appunto, paradosso contro paradosso.  
 
***
 
Il gesto di mio babbo Aràd che alza con la mano sinistra la visiera del cappello non rientra nella meccanica del corpo umano: è un passaggio trasfigurativo, se non disturba la parola, un cambio di inclinazione del pensiero che cerca spazio oltre il suo ingombro.
Sto cercando di semplificare un concetto in frasi scorrevoli. Ma non bastano delle frasi per spiegare una figura in movimento: la visiera di un cappello che si alza e la curva di un pensiero che scompare dietro il panorama. Dietro il panorama mio babbo Aràd cercava le cosiddette soluzioni possibili, che abitano lì, oltre il mondo dei fenomeni e sopra le visiere dei cappelli, dove ci porta il sospetto e dove non arrivano le speranze. Mio babbo Aràd viveva di sospetti, più che di speranze. Le speranze hanno tutta una loro trama volatile, un fraseggio di aurore vaporose, sogni, comete e canzonette eccetera eccetera, che pretendono l’universo. I sospetti invece camminano rasoterra, parlano stonati; e dell’universo si accontentano di una stanza, un magazzino o un ripostiglio.
Quindi diciamo che con quel gesto, molto difficile da spiegare, mio babbo Aràd – diventato Aride Mestolari per comodità anagrafica – inseguiva un sospetto nel ripostiglio delle soluzioni possibili.
E non diciamo nient’altro, per adesso.
 
Tre giugno del Quarantatre.
Sull’esattezza della data non posso garantire, perché non ricordo di preciso quando ho visto Cali per la prima volta. Diciamo che la memoria sfuma nell’abitudine di vederlo tutti i giorni per un tempo imprecisabile, con tutto il suo bagaglio privato chiuso in un corpo molto piccolo che mi sembra non sia mai cresciuto.
Cali sapeva solo dire il suo nome, alzare quattro dita come i suoi anni e fare pochi altri gesti automatici che non formavano un concetto e neanche una possibile risposta a certe domande che però nessuno aveva mai provato a fargli: da dove veniva, come era salito sul treno, cos’era il bussolotto di vetro che teneva stretto in mano e chi era il cavalier Celerino Scovaloturco. Dentro queste domande ipotetiche c’è già tutto quello che sapevamo di lui, cioè che era sceso con mio babbo da uno scompartimento di seconda classe la sera di quel presunto tre giugno del Quarantatre, coi capelli in disgrazia, una giacchetta blu con uno stemma finto araldico sul taschino, una camicia bianca e un galanino rosso al collo. E, nascosto nella mano destra, un bussolotto di vetro chiuso col tappo a macchinetta.
Il cavalier Celerino Scovaloturco era il nome scritto in corsivo dottrinale su una tessera ferroviaria per pensionati del ministero delle Comunicazioni, trovata nella tasca della giacchetta del bambino Cali dopo che mia mamma gli aveva dato da mangiare, l’aveva spogliato, lavato e poi coperto con una vestaglietta color giallo chartreuse, da femmina perché in casa non c’erano figli maschi.
Con così pochi elementi si può solo lavorar di fantasia o di intuito, per chi ne ha, oppure di malinteso, che diventa una specie di oracolo girato all’indietro per raddrizzare il presente ai gusti e alla convenienza. Ma qualunque storia ci s’inventasse, l’unico dato sicuro era lui, Cali in carne e ossa, che guardava il mondo senza una traiettoria e fuori dalle normali cronache mentali. Poi spiego cosa vuol dire.
Non è di lui che dovrei parlare, a dir la verità, ma quella sera, dopo che Cali era stato messo a dormire in tinello sul canapè – come dire il divano, ma a mia mamma piacevano certe parole – dentro la vestaglietta e un panno militare, mio babbo era entrato nella stanza nostra, cioè mia e di mia sorella gemella Giamina, e alzando la visiera del cappello per aprir la visuale oltre la finestra che dava sull’insegna D’Elisir, ci aveva detto che non c’erano segreti da tenere ma neanche chiacchiere da spargere: bisognava solo evitare giri di domande o risposte, e far conto che il bambino Cali era sempre stato lì.
L’idea di mio babbo rispondeva alla legge naturale per cui l’abitudine genera indifferenza ed è anche un vizio facile al contagio: se spargi il contagio dell’abitudine mortifichi la curiosità.
Più che una legge naturale è una teoria improvvisata, e anche un po’ d’accatto, se vogliamo, l’ho imbastita io adesso con poche pretese quindi non so se resiste a un vaglio scientifico. Ad ogni modo tra le soluzioni possibili mio babbo aveva pensato che quella fosse la più adatta al pericolo che incombeva.
Né io né mia sorella Giamina sapevamo che pericolo incombesse e quali fossero i fattori di incombenza, e neanche sapevamo che all’origine di tutto il ragionamento c’era una scoperta fatta quella stessa sera sul corpo nudo di Cali mentre mia mamma lo spogliava e lo lavava.
Viveva di sospetti, mio babbo Aràd, più che di speranze, non so se l’ho già detto. E faceva bene.
 
[da Salvarsi a vanvera di Paolo Colagrande, Einaudi, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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