Tutti i ragni (seconda parte)

Vanni Santoni

16/04/2020

5 – Ragni sulla tela
Durante i primi anni di università mi trovo al centro di un’attività sessuale che, paragonata alle secche degli anni del liceo, mi appare considerevole al punto di dare luogo a fenomeni di maldestra vanità. Uno di essi è prendere il sole in giardino – si capisce che tali gesti sono resi possibili anche dalla disponibilità di tempo libero offerta dalla condizione di studente universitario, condizione che non molto tempo dopo si sarebbe tramutata in quella di cittadino che parte militare.
 
Fatto sta che passo molte domeniche d’estate in mutande, in giardino – o meglio nell’orto, essendoci solo un melo, due piante di zucca e un cespo di rosmarino. È un periodo felice nel quale l’Italia sta scoprendo i fumetti giapponesi, e quelli americani stanno vivendo una piccola, nuova, età dell’oro, e nel quale è dunque facile tornare dall’edicola con un paio di albi nuovi ogni giorno. Mi sorprende vedere quanto poco nuoccia alla mia attività sessuale coltivare passioni quali i giochi di ruolo e i fumetti, e del resto neanche potrei nasconderle dal momento che la camera dove porto le ragazze è un deposito di albi e dadi a venti facce, con quadri alle pareti raffiguranti Wolverine, Lobo, Slaine e alcune guerriere elfiche che mi sono fatto fare alla mostra di Lucca da un disegnatore della TSR.
 
Oltre dunque alla lettura di Slam Dunk, Sandman, JoJo, Hellblazer, Ken il guerriero, Savage Dragon, Dragon Ball, Marshall Law, Ushio e Tora, Swamp Thing, Dr.Slump & Arale, Spawn, Ranma 1/2, Preacher, Berserk, Judge Dredd, Maison Ikkoku, in quei vani pomeriggi al sole il mio passatempo principale è la pesca alle formiche. Allungo una mano dalla sdraio, ne pesco una da terra e la scaglio su una tela, in mezzo alla quale regna un ragno crociato, il classico ragno da giardino. Su tre formiche che lancio, una manca la tela, una la fora e una la prende nel modo giusto, ci si impiglia, sgambetta, la fa ondeggiare finché il ragno ha un primo scatto, uno iato, e poi parte, la aggancia, le piazza un paio di morsi, la ferma tra le zampette davanti e la fa vorticare come un fuso mentre le vomita addosso un cavo brillante, finché, terminato il bozzolo, se lo porta nell’angolo che fa da stiva. Una volta ho anche la fortuna di veder finire un’ape sulla tela, e il ragno è molto più cauto ma alla fine si imbozzola pure lei.
 
La tela nobilita il ragno. Trasforma il predatore dell’oscurità in un ingegnere cristallino, la cui impresa estetica e pitagorica legittima la crudeltà della trappola. Un giorno alla TV sento di una colonia di ragni di specie diverse, in un luogo degli Stati Uniti chiamato Tawakoni, che hanno realizzato una tela comune per migliorare le prestazioni di caccia di tutti. La tela conferisce qualità sociali al ragno, addirittura. Nel mio vecchio libro, che ancora a volte mi scopro a sfogliare, si parla tra gli altri del golden orb spider, un ragno australiano la cui tela è tanto solida da catturare anche gli uccelli. Tale mostro mi è sempre apparso come una creatura di grande nobiltà.
 
Il ragno sulla tela non turba, rilassa. Il suo campo d’azione è circoscritto, ed esclude l’osservatore. Definire le potenzialità del ragno non è più compito deputato alla fantasia, col suo continuo dar vita a salti, morsi, discese lungo la schiena, impigliamenti tra i capelli, ma è qualcosa di effettuabile per via sperimentale. Il ragno sta lì in mezzo e imbozzola quello che arriva sulla tela. Altro non fa: è scientifico.
 

 
L’estate successiva, fresco di congedo e del tutto privo di idee su come debba essere il mio futuro, mi trovo in una città portuale del nord Europa, nella cui periferia si è svolta una festa techno. È mattina inoltrata e stiamo aspettando un autobus. Neanche sappiamo se la fermata, posta lì, in mezzo a una sterminata, piatta zona industriale, sia attiva o meno. Una delle ragazze che è con me, un’olandese di Eindhoven scossa da una costante frenesia, piazza le mani sul tetto della fermata e con uno strappo si porta sopra. Con la mano sulla fronte scruta l’orizzonte. Le vado dietro, ma appena comincio a tirarmi su, mentre contraggo le braccia e i dorsali e ruoto il bacino per sedermi accanto a lei, noto un tozzo cono di tela che ospita un ragno nero delle dimensioni di una moneta; ne noto due, tre, dieci. Mentre mi tiro su realizzo che quella fermata solitaria è infestata da una moltitudine di ragni, e che esistono delle persone, come la mia amica lì sopra, per le quali la vista di un ragno, o di una moltitudine, è un fatto irrilevante, come per me vedere un brulicare di formiche, e realizzo anche quanta della mia attenzione sia in ogni momento dedicata a percepire ragni, ma ormai è troppo tardi per fermare un movimento che è un singolo strappo: mi ritrovo seduto sul tetto infestato con le gambe penzoloni, e mentre l’olandese mi abbraccia mi rendo conto che nell’angolo formato tra la barra squadrata di metallo alla quale mi sono aggrappato e dove ho posato il culo, e la lastra di plexiglas che fa da tetto, pure ci sono decine di quelle tane di tela, ognuna un ragno (alcune due). Se non altro hanno la tela, penso, ma sono più tane che tele da caccia. Mi sollevo in piedi sulla barra. Il tetto ondeggia. La mia amica si gira una sigaretta. L’altra nostra amica, da sotto – possibile che lei pure non abbia visto, non veda i ragni? – dice che se faccio così farò crollare tutto. La scusa è buona. Mi abbasso e mi appendo, gli occhi chiusi, a un segmento di barra privo di tele; da lì mi calo giù. La fermata ondeggia, un paio di ragni cadono a terra come in King of Dragons e poi zampettano veloci verso le pareti della fermata e da lì di nuovo sopra, mentre con la scusa del sudore mi tolgo la maglia e controllo la presenza di bestie su per la mia schiena e l’olandese in coffa grida l’arrivo di un autobus, anzi no, grida ancora, ha scritto sopra deposito.

6 – Ragni che attaccano
Due anni più tardi, da una diversa città nordeuropea, mi aggrego a una carovana di tekno traveler, incurante del fatto che potrei non trovare da tornare indietro in tempo per il mio volo. Ora, costoro possiedono effettivamente un soundsystem ma ben presto scopro che sono soprattutto dediti all’acquisto in stock di sostanze e alla rivendita delle medesime in occasione di teknival e feste varie. Salendo sul loro camion mi ritrovo a correre per le strade spoglie dell’est Europa, a schivare pattuglie sgarrupate e sonnolenti posti di blocco, a dormire in appartamenti occupati alla periferia di Tallinn, mi ritrovo un giorno nella casa del guardiano di uno zoo ceco.
 
La ketamina è un anestetico per uso pediatrico e veterinario: se negli ospedali è posta sotto stretto controllo, per gli zoo ottenerla è più semplice, così come è semplice sovrastimare gli ordini e rivendere il surplus. Ed ecco i miei accompagnatori che vanno da questo guardiano ad acquistare qualche centinaio di flaconi di Ketaset. In casa ha dei terrari. Spiega che una volta lo zoo aveva una sezione con ragni, serpenti, iguana. Poi gli iguana sono morti e la sezione ha chiuso e allora lui si è preso in casa questi quattro ragni, per fargli compagnia, dice, e mentre mi spiega sento un urlo e Tchou-tchou, un francese della carovana, si tiene la mano e grida e sul palmo e sull’interno dell’indice e del medio ha degli aculei, sottilissimi, come se avesse agguantato un cactus, e il guardiano gli dice coglione o qualcosa del genere in ceco e lo spinge via e chiude il coperchio del terrario della tarantola red knee e Tchou-tchou, grande grosso e cattivo, Tchou-tchou che a Linz due giorni prima aveva rotto i denti a uno con una testata, piange come un marmocchio e guarda quei piccoli aculei e non crede ai suoi occhi e Sylvie e Rex e Thea e io ridiamo come matti e lui si incazza e dice vorrei vedere voi figli di puttana e intanto il guardiano rientra con una pinzetta e un batuffolo di cotone facendo nx nx nx.
 

 
Il mio amico Staderini, più solerte di me e dunque laureatosi ingegnere oltre che chierico, forte di un 110 e lode si trasferisce a fare un dottorato in Texas.
 
Al Czechtek dell’anno prima la polizia ci ha sgomberati con la forza; in tutta Europa quel movimento a cui tardivamente mi ero aggregato subisce repressioni. Alcuni amici, gente che non vive sui camion, gente a cui interessano in fin dei conti solo le feste, iniziano ad andare per festival goa, hanno del resto uno stipendio e preferiscono pagare un biglietto e farsi una settimana di rave tranquilli piuttosto che vivere il sogno dei free party e rischiare sgomberi e mazzate. La cosa mi deprime un poco e per quell’estate decido di andare a trovare lo Staderini.
 
Texas, la casa del ragno eremita. Quante volte avevo sfogliato il mio libro a quella pagina; quante avevo osato scrivere quelle due parole su Google images e visto uscir fuori gallerie di ferite piagate, di dita maciullate, di primi piani di questo ragno affilato, scattante, immancabilmente definito “vicious”.
 
Sapevo che il vicious brown recluse mi aspettava lì. Del resto nella suburbia di Houston non ci sarebbe stato molto da fare e il mio amico non era il tipo che sapeva andar dietro alla scia di locali ed eventi. Faccio dunque la valigia immaginando di andare incontro a quel ragno, già scherzando con l’idea di riportarne indietro una coppia per errore, nascosta nel bagaglio, e dare luogo a un’invasione di ragni eremita in Toscana.
 
Quando ne parlo al mio amico, lui mastica il suo controfiletto e dice che non ne ha mai visto uno.
 
L’incontro avviene al terzo giorno, mentre leggo steso sul letto, un futon ad altezza suolo. Volto il capo a sinistra e lo riconosco. Sta lì, a poco più di un metro di distanza. Inevitabile. Brandisco il libro, ma appena l’ombra del mio braccio incoccia il ragno, quello scatta via. Si nasconde in un mucchio di vestiti. Vado al mucchio, lo percuoto con una sedia, non vedo movimenti, lo percuoto ancora un po’. Inizio a lanciar via gli indumenti uno per uno, e al terzo che tiro via lo sento che mi punge. Grido e scaglio in terra quella felpa, la pesticcio e pesticcio mentre la punta del mignolo mi diventa livida. Il dolore è intenso, ma non terribile. Tuttavia sento un capogiro, mi sale una specie di febbre. Ricordo di aver visto un ospedale lì vicino, nei giorni precedenti. Prendo la macchina del mio amico e ci vado. Mi anestetizzano e mi asportano la parte avvelenata, necrotizzata. Mi mettono cinque punti sul polpastrello del mignolo, che rimarrà come smussato, rispetto alla pienezza dell’altro. Che è successo, te l’ha mangiato un ragno? Sì.

7 – Ragni come simboli
Essere stato morso da un ragno velenoso ribalta la mia prospettiva. L’evento, per essere tollerato, chiede di venire ricacciato nel territorio dell’immaginazione, di diventare uno di quei ricordi che non si sa bene se sono reali o sognati. Quel mignolo blandamente mutilato può ben diventare nella memoria il risultato di una piccola operazione o di un incidente domestico, e separarsi così dal ragno, dai ragni, che possono così a loro volta avviarsi a diventare qualcos’altro.
 
Può capitare di rientrare in casa dopo una furiosa litigata con la propria ragazza e trovarne uno sulla parete dell’ingresso, minacciosa acuminata raggiera di zampe sul bianco, e rifarsela con lui, schiacciandolo con una scopa sulla quale si è messo un panno.
 
Può capitare di andare in campeggio e ricevere la visita di un ragno in tenda, a suggello di una bella litigata in quei due metri cubi.
 
Può capitare di rientrare dopo le vacanze, più stressati di prima poiché i giorni liberi sono serviti solo ad accumulare impegni da evadere, il tempo della vita che pare essersi improvvisamente accelerato, e la terra insensata che è il nostro futuro, ci appare nella forma di un ragno dalle zampe sottili intrappolato nella vasca da bagno, e allora ci vendichiamo con l’acqua, apriamo la doccia e lo spazziamo via, lo facciamo risucchiare da un gorgo e ancora spruzziamo acqua, apriamo anche il rubinetto e immaginiamo la corsa rotolante inarrestabile di quel ragno travolto, attraverso tubi e snodi e mondi sotterranei.
 

 
Ma può capitare di avere ora una diversa ragazza, che vive in terre fredde e lontane dove di ragni se ne vedono pochi, e un giorno che ne vediamo uno, è un ragnetto solitario, piccolo, sul soffitto. Mi chiedo se possa mai cadere giù, se possa capitare di ritrovarselo sul letto, ma lui è sempre ben visibile su quell’intonaco bianco, tra pareti e imposte e mobili bianchi, colpito da luce bianca anche alle una di notte. I traffici di quel ragno – ma cosa fa? Perché oggi si è spostato laggiù? Perché ora va in là? Secondo te dorme di giorno o di notte? – e la sua caccia a prede invisibili, diventano per noi, stesi o abbracciati a giornate su quell’amplissimo letto bianco, un intrattenimento prima inevitabile, poi addirittura gradito. Il ragno prende le funzioni di un gatto: quel ragno nordico, dalla strana morfologia, le due zampe davanti più lunghe di tutte le altre, l’addome filante, il colore nero, di smalto, si fa domestico e dà sostanza alla nostra relazione, ne rimarca l’esistenza. Il nostro ragno. Io te e il ragno. Sono rimasto a casa col ragno. Dov’è il ragno? Ah, là nell’angolo.
 
Questo finché lei una mattina se lo trova in mezzo ai trucchi e lo schiaccia con un pezzo di carta igienica. Quando me lo comunica io me la prendo moltissimo, lei mi dice ma dai, chissà quanti ne avrai uccisi di ragni in vita tua. Magari ne hai pure torturati, insiste. Dico che non c’entra niente. Lei dice che finché stava sul soffitto era ok, ma quello non era il suo posto. La sua freddezza mi sgomenta. Purtroppo, aggiunge vedendo che non mi sono calmato, non è che puoi dargli uno scapaccione come a un cane, l’unica punizione possibile per un ragno è la morte. Le chiedo dove sia il corpo, lei mi guarda strano, poi indica il water.
 
8 – Ragni da climi caldi
Diversi anni più tardi sono al matrimonio dello Staderini, ormai stabilmente texano. Si sposa con un’ingegnera indiana del suo dipartimento – e il matrimonio è in India.
 
Dopo una prima fase in un resort ci spostiamo su traballanti autobus fino alla giungla del Kerala, dove abita la famiglia della sposa. Ci danno dei bungalow che sono di fatto delle palafitte senza pareti. Cavallette grandi come gattini solcano l’aria e atterranno sull’impiantito e sulle persone. Non tutti apprezzano. Mi informo se ci siano ragni. La padrona di casa mi dice che c’è una tarantola in bagno, dice che le piace lì, perché è più caldo. La guardo negli occhi e capisco che sta scherzando, che fa dell’ironia sul panico che ha colto molti degli invitati occidentali. Eppure, quando rientro, racconto della tarantola agli altri ospiti, serissimo.
 
Ma se ne sta buona nella sua tela, compa’?, fa un ingegnere elettronico di Gravina (e Houston).
 
Magari! È una predatrice notturna. Mobile. Rapida.
 
Aggressiva, compa’?
 
Forse mi sbaglio, ma credo sia pure di quelle che scagliano gli aculei…
 
Il ragno che ho creato passa di bocca in bocca, acquista sostanza. C’è chi va in bagno col cappello e chi portandosi dietro una rivista arrotolata o uno scacciamosche; in capo a qualche giorno c’è chi giura di averla vista passare tra il cesso e la doccia. Se ne parla: c’è chi ne descrive i balzi, chi ne approssima le dimensioni con le mani. Mai visto niente del genere, compa’.
 
Io stesso mi scopro a pisciare a occhi chiusi – io! – e allora apro gli occhi, ridacchio tra me, eppure, lì al buio, in un angolo di quel vespasiano tropicale, forse…
 

 
Deserto tra il Portogallo e la Spagna, lago di Idanha-a-Nova, terzo o quarto giorno di un festival goa. Mattina colorata di psichedelici, di luce che passa attraverso il nylon della tenda dove già si disegnano motivi aztechi, frattali, volti autoricombinanti, mentre apro gli occhi dopo quello che a stento può essere definito sonno. Sole alto sull’isola, lo si vede bianco attraverso il nylon, i battiti della pista principale una emanazione sintetica che non si slega dall’acqua del lago, dalla sabbia, dalle voci che si chiamano qua e la, dalle ragazze dai capelli colorati che fanno il bagno, dal mio svegliarmi. Irraggiante sulla parete dove c’è la zip, enorme un ragno. Guardo sulla tenda quella tegenaria portoghese che si gode l’umido caldo del mio interno tenda, della mia febbre enteogenica. Cerco un pezzetto di carta; non ce ne sono.
 
Allora apro la zip, la raccolgo con le due mani, la metto fuori e la guardo sgambettare via; poi tiro un grido al mio compare nella tenda di fronte:
 
Ohe’.
 
Che c’è?
 
Sapessi cosa mi è successo.
 
Cosa?
 
Ma niente… Latte ne abbiamo ancora?

II racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus".
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Vanni Santoni

Vanni Santoni

Vanni Santoni (Montevarchi, 30 settembre 1978) è uno scrittore italiano. Dopo il debutto con il libro sperimentale Personaggi precari raggiunge la notorietà con narrazioni corali di ambientazione realistica, come quelle del primo romanzo Gli interessi in comune, di Se fossi fuoco arderei Firenze o del monumentale I fratelli Michelangelo, a volte ibridate con elementi saggistici come in Muro di casse o La stanza profonda. Ha praticato anche il genere fantastico con la saga di Terra ignota ed è stato tra i pionieri della scrittura collettiva col progetto SIC e il romanzo storico In territorio nemico.

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