“La shoah è una foto tutta nera”. Parla Daniele Scalera, fotografo del libro “Lungo i binari della memoria”

il 25/01/2010 - Redazione

“E’ un gioco variegato di emozioni, luci e colori che ogni fotografo prova a rievocare nelle sue immagini”. E’ questa la definizione che Daniele Scalera dà della fotografia. “Il buio del genere umano come una sorta di fotografia tutta nera”. E’ questa invece la definizione che lo stesso Scalera dà della Shoah. Luci e colori da una parte, buio e nero dall’altra. Resta l’emozione. E’ stata questa che lo ha guidato in un reportage fotografico che, agli inizi del 2008, lo ha portato nei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau a bordo del Treno della memoria. Da quegli scatti, quasi duemila in cinque giorni, ne è nato il libro “Lungo i binari della memoria” (Protagon Editori) capace di imprimere nel lettore emozioni e sensazioni alla solita maniera con la quale un’immagine rimane impressa sulla carta fotografica. E pensare che, per sua stessa ammissione, l’arte della fotografia è solo “un passatempo a tempo pieno” per lui che di professione è Maresciallo dei Carabinieri a Radicondoli. Ma Daniele Scalera non ama molto le parole e, anche questo per sua stessa e intima ammissione, riesce molto meglio ad esprimere ciò che sente con l’ausilio di una macchina fotografica. E forse, anche solo per questo motivo, avrebbe voluto rispondere ad ogni domanda con una fotografia. E forse, anche solo per questo motivo, rispondendo, ha saputo fotografare ogni parola che fosse sinonimo di emozione.

Ma cosa ti ha spinto a raccontare con le fotografie un viaggio nei campi di concentramento? “Su Auschwitz e Birkenau è stato detto tutto, è stato documentato l’inverosimile con i tedeschi da una parte che hanno voluto mettere in evidenza la loro efficienza criminale e gli alleati dall’altra che hanno voluto documentare le atrocità naziste. Io ho scelto di raccontare l’impatto che il visitatore ha di fronte ad un campo di concentramento cercando di capire e far capire se la visita in questi luoghi è ancora attuale. Ecco perché le mie immagini hanno voluto cogliere gli sguardi e l’impatto emotivo del visitatore. Ho cercato di cogliere l’attimo dell’emozione per poi tornare a casa e dire che Auschwitz è ancora attuale ed ha ancora un senso parlarne come tragedia del genere umano e non solo del popolo ebraico”.
Cosa ti ha colpito di più?
“Il vedere da vicino la sistematicità, la razionalità e l’atrocità con cui veniva inferta la morte o s’incuteva il dolore agli altri. La meticolosità nella soppressione di un tuo simile mi ha destato un profondo senso di vuoto facendomi chiedere dove può arrivare il genere umano”.
Cosa significa raccontare tutto questo con il linguaggio dell’immagine e non con le parole?
“Il libro innanzi tutto è stato impostato volutamente senza didascalie e senza commenti proprio perché il lettore deve interpretare la fotografia, leggere all’interno dei volti delle persone ritratte. Questo perché io ho cercato di cogliere in un istante un’immagine significativa. Ho preferito immortalare uno sguardo o un volto per raccontare emozioni omettendo volutamente tutte quelle immagini anche macabre e brutali che ti si presentano agli occhi e all’obiettivo della macchina fotografica in questi luoghi. Non è un libro che racconta quanto siano stati cattivi i nazisti ma vuole raccontare l’effetto che fa ad un visitatore arrivare, dopo oltre sessant’anni, di fronte ad un campo di concentramento. Io credo che un filo spinato, un viso impaurito o l’ultimo chilometro di binari per Birkenau siano già una tragedia di per sé”.
Cosa differenzia o accomuna un fotografo e uno scrittore?
“Un bravo scrittore e un bravo fotografo si equivalgono perché entrambi trasmettono emozioni. Non esiste un metodo migliore per farlo. Anche il celebre Lago di Como descritto nei Promessi Sposi da Manzoni è una sorta di fotografia”.
Cosa ha voluto dire questo viaggio per te?
Ho capito realmente cosa significa fotografare col cuore e non con la razionalità del semplice vedere. Io ho smesso di vedere e ho sentito le immagini dentro di me, una sorta di introspezione fotografica. Ho invaso anche alcuni attimi di intimità delle persone e non dimenticherò mai quei silenzi interrotti dal click della mia macchina fotografica”.

Cristian Lamorte

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