Albino, il cavallo che sussurra agli uomini

Luigi Oliveto

17/06/2021

Il libro di Michele Taddei Steppa bianca. Memorie di Albino cavallo da guerra (Edizioni Cantagalli) è un libro che racconta la guerra, ma per parlare di pace. Vi si narrano le vicende del Reggimento Savoia Cavalleria in Russia (1941-42) durante la Seconda guerra mondiale. Il cavallo Albino (che contrariamente al nome era di mantello scuro) fu ferito in battaglia, sopravvisse alla ritirata, se ne persero le tracce, finché, a guerra terminata, venne ritrovato e riconsegnato al suo Reggimento. L’eroico quadrupede, che aveva galoppato nell’ultima drammatica carica di Isbuscenskij, è oggi (imbalsamato) al museo del Savoia Cavalleria di Grosseto. Nel libro è proprio lui la voce narrante. È dunque un cavallo che sussurra agli uomini. Per ricordare loro – a mo’ di monito – i giorni in cui fu visto «l’uomo, completamente spogliato da ogni ritegno e convenzione, sopraffatto dalla violenza degli eventi troppo più grandi di lui, in balia di istinti primordiali, feroci, paurosamente emersi dalle profondità dell’essere.»
 
Ecco, allora, che il ‘flusso di coscienza’ di Albino ci conduce in questo spaccato di storia per ricavarne una lezione, e non solo di storia, ma anche morale: su quanto l’umanità sia spesso disumana. Se volessimo volgere la mestizia a un mezzo sorriso, verrebbe da dire che queste pagine smentiscono comunque Tolstoj, quando, nell’esprimere la sua ammirazione per la specie equina, sosteneva che i cavalli non parlano, ma solo perché la conformazione della bocca non glielo consente. In tal caso, perlomeno Albino ha parlato, e anche molto bene. Ha parlato ad uso di memoria, a mo’ di monito: «Io ho sentito gli ultimi fiati dei miei compagni, ho visto i loro volti deformati, toccato i loro corpi che si facevano freddi, non uno, non dieci o mille. Migliaia». Al di là dell’escamotage narrativo (l’animale parlante, certo non nuovo in letteratura), al di là della Storia che ancora una volta può farsi romanzo, colpisce qui lo scrupoloso lavoro di ricerca di Taddei testimoniato dalle oltre cinquanta pagine di note poste in appendice. Se lette in un’unica soluzione vanno quasi a costituire un libro a sé. Siamo dunque dinanzi a un romanzo storico (non sapremmo come definirlo diversamente) immune, però, dagli additivi di finzione che si è soliti adoperare in questo genere. Nulla è concesso alla pura invenzione. Tutto risulta documentato, cosicché fatti, cronache, citazioni, opinioni sono tutti entrati a far parte del racconto.
 
L’autore, a suo modo, ha fatto ricorso a quell’espediente usato da Borges (Italo Calvino lo richiama nelle Lezioni americane) allorché lo scrittore argentino, in quello che lui stesso definisce uno “pseudosaggio” (parliamo de L’accostamento ad Almotàsim, compreso in Storia dell’eternità) volendo passare dalla prosa saggistica alla prosa narrativa, prende a recensire un libro che non esiste, ma che, di fatto, concepisce lui al momento.  Il saggio diviene dunque narrativa e, nel caso di Taddei, un racconto molto emotivo, partecipe. Non vi è dubbio, ad esempio, che sia l’autore stesso a volersi rappresentare in Mariolino, l’affettuoso somarello cui Albino confida le proprie vicissitudini affinché possano essere tramandate: «Mai prima avevo avuto forza di raccontare la mia storia. Temevo la sofferenza nel rivivere nuovamente quei fatti. E poi chi non c’era non può capire, non può forse nemmeno credere. Ma ora, con il cuore stanco e la forza che viene meno, non mi restava che affidare a te le memorie di quello che è stato, dei dolori patiti e delle gesta di cavalli e uomini che hanno sacrificato la vita, inghiottiti dall’inferno russo». In ragione di tutto ciò non crediamo sia da considerarsi un dettaglio notare come l’autore abbia dedicato il libro ai propri figli. E chi, se non le generazioni future, possono essere portatrici di certe imprescindibili memorie nel futuro del mondo. Ricordare per non ripetere, beninteso.
 
***
 
Mio caro Mariolino, stamattina è venuto il veterinario a farmi visita, sono mesi che si prende cura di me. Anche se presta servizio alla vicina caserma di artiglieria di montagna ed è abituato a trattare con muli e asini, come te, si è ugualmente preso a cuore il mio male e passa spesso a trovarmi. Dicono sia un attacco reumatico che mi ha colpito qualche giorno fa. Ma lui e io sappiamo bene che per quello che ho non c’è cura né rimedio; tutta la vita ho camminato lungo una strada che sembrava infinita ma ora comincio a scorgere il profilo della mia fine. Come quando raggiungi il limite della terra che sprofonda nel mare e gli zoccoli affondano nell’acqua scura e nessun passo indietro è ormai possibile.
Nonostante questo, con quella sua penna d’alpino mi ronza intorno, mi accarezza, mi sussurra parole all’orecchio, mi infila uno zuccherino in bocca che fatico a ingoiare; a volte mi tratta come un puledro appena nato dandomi un qualche lieve conforto; sento però che il mio corpo, che pure mi ha servito bene in tutti questi anni, comincia a cedere; le zampe non mi reggono come un tempo, i suoni intorno a me si fanno sempre più ovattati e anche le immagini che mi arrivano dall’occhio sano perdono forma e nitidezza.
Come ti sarai accorto il mio respiro si fa sempre più affannoso, specie di notte quando, invano, provo a prendere sonno. Colpa della febbre e dei reumatismi che da tempo mi trascino, non riesco più a immergermi in quello stato misterioso in cui un tempo trovavo requie. In quell’aldilà fatto di sogni, visioni e ricordi, dove ogni forma muta aspetto; i colori, i suoni, persino la sostanza delle cose si confonde. I morti che ho incontrato in vita mi vengono incontro, mi chiamano, mi invitano a restare. Non mi danno tregua. Mi impediscono di riposare.
E pensare che un tempo mi bastava fare capolino nel regno delle ombre per pochi attimi e ritornavo in me più forte e rinfrancato di prima, mi fossi trovato nella scuderia della caserma o in uno dei tanti kolchoz che ho abitato, sulla nuda terra o in mezzo alla foresta. Mi era consolatorio sentire il ritmo del respiro che cambiava, chiudere gli occhi e addormentarmi, scacciando via l’inferno che mi circondava. Ora, invece, l’inferno è andato ad abitare in quell’aldilà e io ho preso ad ammalarmi di insonnia. Ogni notte temo ad addormentarmi e rimango così, in uno strano stato di dormiveglia dove la mente vagola, costruisce immagini che mi spaventano non perché mi faccia paura vederle, le ho già vissute, ma perché sento di non avere più le forze sufficienti per superarle di nuovo: un ponte da attraversare, una cavalcata in mezzo ai girasoli, il turbinio di polvere che si alza mentre stiamo marciando, il trotto, il galoppo e quell’urlo disperato del capitano che ordina la carica, gli spari contro, la sciabola davanti agli occhi che rotea e il sangue del nemico che, schizzando ovunque, colora di rosso la bianca neve. Quello che sono stato non potrò più esserlo ma certe immagini continuano ad apparirmi davanti e mi impediscono di trovare pace. Il cuore si agita, non cede all’incoscienza e così ogni notte rimango a guardare te che, invece, riposi calmo e placido come lo scorrere del Don.
 
[da Steppa bianca. Memorie di Albino cavallo da guerra di Michele Taddei, Edizioni Cantagalli, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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