Fragile è la vita nelle sue diverse età

Luigi Oliveto

07/12/2023

La vita è in sé fragilissima. Lo è nei corpi, splendide macchine che poco ci mettono a diventare catorci; nella psiche, il cui equilibrio è frutto di tanti micro-squilibri che provvidenzialmente spingono l’uno contro l’altro per mantenerci in piedi. Vi è poi una fragilità nelle trasformazioni della società, nei passaggi generazionali dinanzi ai quali siamo spesso in affanno, disorientati, carenti di risorse per poterli capire e rapportarcisi. E c’è, a compendiarle tutte, la fragilità delle diverse stagioni della vita (in primis quella giovanile) e delle incognite in essa racchiuse. È soprattutto a quest’ultima che allude l’ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio intitolato “L’età fragile”. Storia imperniata su un rapporto madre/figlia – tema caro all’autrice – che testimonia come il divario generazionale possa trasformarsi in distanza, incomunicabilità; allorché, tra le due parti, le concezioni di vita, le idee e persino le parole in uso, siano ormai su piani diversi. In ragione di ciò scende il silenzio, che è assai peggiore del diverbio. La madre in questione (io narrante) si chiama Lucia, la figlia è Amanda, che lascia la famiglia, il paese nei pressi di Pescara, per frequentare l’università a Milano, perché restare lì sarebbe stato come sprofondare nel niente. Via dunque, il più possibile lontano da casa, nell’unica città italiana in cui “sembra di essere in Europa”. Amanda è brava e determinata, si è iscritta a Scienze internazionali e istituzioni europee. Ai test di ammissione è risultata la trentaduesima su più di quattrocento candidati. Motivo di orgoglio per l’intera famiglia: il padre che non abita più con loro, di fatto separato dalla moglie; il nonno materno, a bene rappresentare la sua generazione e quel piccolo mondo di terra abruzzese; la madre, che aveva sperato in una bocciatura della figlia ai test di ammissione e che, arresa agli eventi, le ha riempito la valigia di barattoli con i sughi amorevolmente cucinati per convincersi, così, che la figlia “poteva sopravvivere senza di me”. Amanda aveva previsto di tornare a casa giusto per le vacanze di Natale e Pasqua, ma l’esplosione del Covid e i conseguenti provvedimenti di chiusura dei confini regionali, la costringono a lasciare Milano in tutta fretta per rientrare in Abruzzo. La mamma trova la figlia molto diversa da quando era partita. Taciturna, spenta, insofferente, sempre chiusa in camera: “In quelle settimane Amanda ha dormito. Lei di giorno e io di notte, gufo e allodola. Abitavamo gli spazi comuni a turno, ogni tanto entravamo in collisione”. Lucia vorrebbe aiutarla, ma Amanda è inafferrabile, difficile sintonizzarsi con lei. E sì che di cose di cui parlare ce ne sarebbero. Perché pure la mamma ha le proprie ferite, e una su tutte quella lasciata da un terribile episodio di gioventù. Erano gli anni Novanta – e qui la finzione letteraria va a soprammettersi a un fatto veramente accaduto – quando, sulle vicine montagne, un pastore macedone aggredì tre ragazze uccidendone due, l’altra si sarebbe salvata fingendosi morta. Una delle ragazze uccise era l’amica più cara di Lucia, e solo per un caso non erano insieme in quella circostanza. Il femminicidio, peraltro, era avvenuto su un terreno di proprietà della famiglia di Lucia, dove sorgeva anche un campeggio, da tempo dismesso ed ora adocchiato dalla speculazione edilizia. Quel luogo le mette paura e non vorrebbe riceverlo in eredità. Insomma, varie sono le fragilità di cui dà conto questa storia tra passato e presente, tra età diverse, differenze, comuni sentire, caratteri e memorie le cui eredità è impossibile rifiutare. Storia narrata da Donatella Di Pietrantonio con grande sensibilità e sapienza di scrittura.
 
***
 
Milano, o niente. Così diceva del suo futuro, nell’ultimo anno di scuola. Niente era il paese, restare. Milano la città dove la vita le sarebbe accaduta davvero.
Si è preparata tutta l’estate, la trovavo sul letto nella controra, una matita infilzata nei capelli raccolti e un’altra a segnare crocette sui test. Usciva poco e svogliata: chi le scriveva messaggi o la chiamava era già il passato, per lei.
Le mie proposte nemmeno le ascoltava: Roma troppo vicina, Bologna provinciale.
– E i tuoi compagni perché ci vanno?
– Loro non hanno coraggio, si fermano a distanza di sicurezza.
In un centro commerciale abbiamo scelto una valigia grande e una piccola. Le ha volute robuste, anche se sarebbe tornata solo a Natale e Pasqua, mi ha detto.
– Verrai tu qualche volta a trovarmi, ti farà bene, – ha risposto alle silenziose obiezioni del mio sguardo.
A settembre il padre l’ha accompagnata alla Statale per la prova d’ammissione. Amanda mi ha chiamata prima di entrare. Nella voce l’impasto di paura e grinta che le conoscevo.
È tornata con le luci della città negli occhi.
– Sembra di essere in Europa, – ha detto.
Si erano fermati a cena sui Navigli. Era stato una specie di giro turistico, ho capito dal poco racconto. La trovavo raggiante, dopo due giorni passati con suo padre.
– La vera cotoletta non è quella che cucini tu, – e mi ha messo una mano pietosa sulla spalla.
Quando gli ha detto di essere stata ammessa, il nonno le ha aperto un conto in banca di mille euro. – Ogni volta che prendo la pensione ce ne metto sopra cinquanta o cento, – le ha promesso.
Gli pareva impossibile che lei potesse prelevare da così lontano. E misterioso ciò che avrebbe studiato: Scienze internazionali e istituzioni europee. Però l’aveva sentita commentare il telegiornale, con quella rivolta nella voce.
Mio padre era orgoglioso della sua unica nipote, trentaduesima su più di quattrocento. All’inizio ci aveva messo un po’ ad accettare i colori di quella neonata, i capelli quasi rosa che non appartenevano alla nostra famiglia.
Sono stata fiera anch’io del suo punteggio al test d’ingresso. Avevo taciuto a me stessa una mezza speranza che non lo superasse. Una piccola serpe nascosta in una tana profonda voleva ancora tenerla con sé.
Le ho comprato lenzuola e asciugamani nuovi, pigiami, tutto il necessario a cui le ragazze non pensano. In pochi giorni le ho insegnato a caricare la lavatrice, a stendere i capi scuri all’ombra. Avrebbe scoperto un po’ di mondo, ciò che a me non era stato possibile.
L’ho accompagnata in treno, le valigie pesavano.
– Almeno le lenzuola potevamo comprarle a Milano, no? – ha detto.
Ma erano leggere, in confronto ai barattoli con i sughi pronti. Bastavano per mesi, avevo cucinato a lunga scadenza per lei. Solo con quell’esercizio mi ero convinta che poteva sopravvivere senza di me.
L’ascensore era rotto. Abbiamo sudato insieme su per la scalinata un po’ tetra del palazzo. La ragazza che ha aperto ha squadrato Amanda e le ha indicato la camera.
– Dopo vieni di là a firmare il contratto, – ha detto.
Le altre non si sono viste. Nella stanza un mobilio scadente, la lanetta accumulata negli angoli. Amanda non sembrava badarci. Mi ha tenuta poco, il tempo di aiutarla a sistemare qualcosa nell’armadio.
– Vado in bagno, – ho detto prima di chiamare un taxi e lasciarla.
Ero seduta sulla tazza, a terra la ceramica così sudicia. Ma non era proprio sporco, solo troppo vecchie le piastrelle. Nella vasca la tenda di plastica con gli elefantini, i turni di pulizia affissi alla porta. Un punto interrogativo aspettava di essere sostituito da Amanda.
Il Taxiblu mi avrebbe riportata alla stazione. L’ho stretta forte. – Chiama quando arrivi, – ha detto Amanda, sciogliendosi.
Era la prima volta che lo chiedeva lei a me.
 
Un anno e mezzo dopo mia figlia ha preso uno degli ultimi treni. Poi non è stato più possibile lasciare Milano e nessun altro luogo d’Italia. Guardavo nelle dirette la gente che correva lungo le scale mobili, si accalcava ai binari. Cercavo anche lei, nella ressa la fiammata dei suoi capelli. Mi parlava al telefono, intanto. Forse riesco a salire. La immaginavo farsi largo, così minuta, con la valigia. Tornavano tutti a sud.
È arrivata alle dieci di sera, con due ore di ritardo. Non finiva mai di scaricare i bagagli, un ragazzo glieli porgeva dal vagone. È sceso a fumarsi mezza sigaretta prima di ripartire.
D’istinto mi sono avvicinata, lei mi ha fermato con la mano. Poteva essere pericoloso, ha detto.
Nell’auto ha acceso la radio e si è abbandonata contro il sedile, lasciando ciondolare la testa come se dormisse. Era troppo stanca per parlare, se non il minimo.
– Perché ti sei portata dietro tutto quel peso? – le ho chiesto. – Tra qualche settimana l’emergenza finirà, le università riapriranno.
– Che ne sai tu? Non puoi prevederlo.
Ha guardato distratta la porta d’ingresso al paese, nella nicchia il santo benedicente.
A casa ho acceso il forno per scaldarle la pasta, lei l’ha spento.
– Mangio domani.
È entrata in camera con lo zaino, il resto è rimasto in soggiorno. Non ho più sentito nessun rumore, dietro la sua porta.
Più tardi ho aperto le valigie, c’erano le lenzuola a colori che le avevo comprato. Con il cotone tra le mani ho avuto il presentimento che in quel ritorno ci fosse qualcosa di oscuro e definitivo.
La mattina l’ho lasciata dormire. Recuperava lo strapazzo del viaggio. Non aveva mangiato, però. E il giorno avanti nemmeno il tempo di un panino, prima di salire sul treno. Sospeso il servizio bar a bordo.
Ho cominciato a contare le ore, come quando era piccola e non si svegliava per la poppata. Dopo aveva una fame feroce, mi mordeva i capezzoli con le gengive taglienti.
È stato doloroso crescere Amanda. Io non la capivo, non capivo cosa volesse da me. Avevo paura di restare sola con lei. Di notte mio marito se l’appoggiava su una spalla e la portava in giro per la casa, dopo aver chiuso la camera per lasciarmi riposare.
Nella sala d’attesa del pediatra le altre riconoscevano la causa al primo strillo dei loro bambini. Mia figlia piangeva e io non sapevo perché. Avevo il petto pieno, eppure a volte lei si staccava di colpo e urlava. Allora il latte non era buono, pensavo. Me lo spremevo su un dito e lo leccavo. Forse sulla sua piccola lingua diventava amaro ciò che io sentivo dolce. Ricordo di averla scossa per farla smettere con le grida, ma non troppo forte.
Dopo vent’anni da allora una nuova inquietudine mi ha preso mentre Amanda non si svegliava. Le undici, le dodici. Chissà se a Milano aveva scambiato la notte per il giorno come da neonata. Ho cominciato a fare rumore in giro per la casa, sbattevo pentole, spostavo mobili. Se n’è accorta solo Rubina.
Da sotto mi ha sentita sul balcone: scendi, ha detto con la mano. Si era seduta su una sdraio, la gonna tirata sulle cosce e le maniche rimboccate.
Mi sono messa anch’io a favore del sole di marzo.
– È tornata Amanda, hai steso i suoi panni.
Mi ha chiesto come stava e io non lo sapevo. Stanca, ho risposto. – Studierà qui a casa, per un po’.
Ha annuito a occhi chiusi. Ma non avevo trovato libri nelle valigie.
– Adesso ci riposiamo per forza, tutti fermi, – ha detto Rubina, ruotando le braccia dal lato più bianco.
Le dispiaceva per le prove del coro sospese.
– Le ultime volte eravamo più sciolti con il canto zingaro, – e ha accennato l’attacco.
Non avevo voglia di parlare, stavo solo aspettando che mia figlia si alzasse. Ogni tanto guardavo l’orologio di sottecchi. – Salgo, – ho detto all’una e mezza.
In casa non ci vedevo chiaro, per via del sole che ancora avevo negli occhi. Ho bussato alla sua porta, poi sono entrata. Lei sotto le coperte, la testa nascosta dal cuscino.
Le ho scoperto la faccia, per un momento mi ha guardata come se non mi riconoscesse.
– Sto in quarantena, allontanati, – ha detto. – Mangio in camera.
– Ci sediamo ai due capi del tavolo, è abbastanza lungo.
Si è tirata su a sedere, cupa.
Ho arieggiato la stanza mentre si serviva in cucina il suo piatto di gnocchi. Appena finito è tornata a chiudersi dentro.
Quella notte, ma più verso l’alba, mi ha svegliata un movimento morbido dall’altra parte del letto. Amanda si è rannicchiata fino a ridursi piccola e tonda, la schiena rivolta verso di me. Non so quanto tempo sono rimasta immobile, sorpresa. Poi lei ha cominciato a piangere. Senza voce, solo sussulti e tirare su con il naso. Allora l’ho circondata più che potevo, le braccia leggere. – Non chiedermi niente, – ha detto.
È stata l’ultima volta così vicina a mia figlia. È successo poco più di un anno fa.
 
[da L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio, Einaudi, 2023]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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