Il sentimento del mare cura le ferite

Luigi Oliveto

23/11/2023

Il mare è forza e pazienza, imprevedibilità e ostinazione, inquietudine e pace, mito e conforto. Il mare è soprattutto un sentimento, come suggerisce – anzi, dimostra – Evelina Santangelo nel suo libro intitolato giustappunto “Il sentimento del mare”. Intensa confessione di una donna, una scrittrice, che, sopravvissuta al naufragio della propria vita, trova consolazione nel mare, in ciò che racchiude ed evoca: “E poi arrivi in un localino seminascosto sul porto di Lipari, a Marina Corta, e improvvisamente i sentimenti informi che ti impacciano i gesti e aggrovigliano i pensieri prendono una piega. Dopo quattro anni, due bypass falliti, due angioplastiche semifallite, una crisi coniugale spaccaossa, una pandemia che mi ha cavato via di bocca le parole insieme a una qualche idea di mondo, dopo un crollo psichico che mi ha tolto la scrittura, e molto altro, mentre incombe una guerra dagli esiti imprevedibili nel cuore d’Europa, arrivi lì, in un angolo qualsiasi, e accade”. Il racconto procede in un concitato flusso di rimandi tra le vicende, i sentimenti della protagonista e storie di uomini e donne di mare, che così narrate vanno a confondersi in unica allegoria, acquistano afflato epico, universale. Alla scuola del mare e della sua gente si apprende infatti la vita, a cominciare da quell’ostinato ricominciamento delle onde che incanta e talvolta mette paura. Anche la vita di colei che scrive chiede una ripresa per ridefinirsi davanti a sé stessa e agli altri. Ne avverte l’eccitazione quando nuota nelle fredde acque invernali del ‘suo’ Mediterraneo, mare di storia, memorie, racconti. Sì, solo da qui lei può ricominciare e dire: “Così adesso ho raccolto i miei venti favorevoli nel bicchiere di vino che sorseggio lentamente e sto in ascolto di quel che accade intorno e dentro di me...” La nota editoriale avverte che è difficile stabilire la collocazione del libro di Evelina Santangelo: romanzo, memoir, reportage narrativo? Chi nella propria biblioteca si fosse inventato lo scaffale dei ‘bellissimi’ (peccato che l’aggettivo sia così scontato e dunque inibito all’esercizio critico) questo libro può metterlo lì, a portata di mano, magari per replicarne la lettura nelle diverse stagioni della vita, quando cuore e ragione cercassero la rotta di un qualche rassicurante attracco o – pure meno – la giusta postura dell’anima.
 
***
 
[…]
Ma torniamo a quel 14 gennaio del XXI secolo. Lo scrivo così perché ci sono date che segnano eventi personali, privatissimi, ma pur sempre memorabili. Torniamo in quel locale di ritrovo soprattutto tra uomini, poche le donne, fra le quattro mura fumose testimoni di risse negli inverni infiniti e spettrali di Lipari. Le mitiche isole Eolie. Torniamo a me che ascolto Giovanni, compositore di canzoni pop nella Roma dei tempi d’oro della dolce vita, scandire per strada le strofe di una nuova canzonaccia sboccata e irresistibile, con la murata bianca e azzurra del traghetto Siremar attraccata a un metro dall’ingresso. Perché è in quella circostanza che mi arriva, come una fiondata, una sensazione, un sapore, o una intuizione: sono in pieno Breaking the Waves di Lars von Trier (Le onde del destino, il titolo italiano del film che ne capovolge il senso). Fuori c’è freddo. La luce non è livida come in quel film durissimo, ventoso, aspro in cui la giovane religiosissima Bess si lascia abusare sino alla morte per amore del suo Jan, lo straniero ateo, rimasto paralizzato durante una missione su una piattaforma petrolifera nei mari scozzesi. Jan è convinto che se morirà è perché l’amore non ce l’ha fatta. E lo dice come una preghiera alla sua fragile Bess. Fragilità d’amore. Fragilità di psiche.
Anche io lo sono, fragile, seduta in quella sorta di taverna con la vista dominata da una nave che non ha nulla dell’imbarcazione dei malviventi dove andrà a morire di stupri Bess, permettendo all’amore di farcela a rimettere in piedi il suo Jan. Ed è proprio il mare alla fine ad accogliere pietoso il corpo violato di Bess in una solenne benedizione divina di campane. Niente di celestiale, nessuno scampanio nella notte vuota di Lipari. La mia testa è popolata dalle centinaia di piccole canoe neolitiche o di barche d’età greca e romana inabissatesi in queste acque di cui mi ha parlato l’archeologa Maria Clara Martinelli. E in un angolino c’è Ulisse, che proprio nell’arcipelago eoliano ricevette in dono i venti favorevoli racchiusi nell’otre perché lo aiutassero nel viaggio di ritorno. Anche il mio è un viaggio di ritorno attraverso il mare, di ritorno a quanto mi sembrava irrimediabilmente perduto: la passione per qualcosa che ci fa sentire vivi.
«Se vai a Lipari qualche giorno per costruire, va bene. Se vai per demolire no», mi ha ingiunto la mia psicoterapeuta-numero-uno che mi segue ormai da mesi e sa. «Vado per il mare», ho risposto, sapendo che quello è un mare nero, vulcanico, disseminato sul fondale di relitti, sfaceli d’imbarcazioni, vite, merci, fasciami, ruggine, ma anche di tesori archeologici inimmaginabili, unici, solo in minima parte riportati alla luce dalle profondità. Così adesso ho raccolto i miei venti favorevoli nel bicchiere di vino che sorseggio lentamente e sto in ascolto di quel che accade intorno e dentro di me, in bilico tra l’istinto di demolire e la promessa di ricostruire. Nell’aria c’è qualcosa di duro, violento e dolce allo stesso tempo. Lo colgo in modo esatto nella faccia stravolta dalla fatica e dalla salsedine di Francesco, pescatore di gamberi che mi vorrebbe portare sul peschereccio con suo padre e suo nonno, se non fosse che ormai fa troppo freddo e i gamberi si sono ritirati. Domani è l’ultimo giorno di pesca. L’ultimo… tanti attrezzi da mettere a posto… Impossibile unirmi a loro. Io sono in una bolla. Lontana miglia da tutto, ascolto solo la sua voce stanca e piena di rammarico. Non so quante volte ripete «Mi dispiace». Se fosse per lui, ripopolerebbe tutto il mare di Lipari dei suoi gamberi andati in letargo. Ad aprile… mi dice. Se torno ad aprile posso salpare e assistere a tutte le calate delle reti che voglio e pure ascoltare le storie del nonno, che conosce il rito antichissimo che riesce a spezzare le trombe d’aria, cura di ddrau, coda di drago, come le chiamano i pescatori. Anche io ho imparato a conoscerlo, quel rito, nella mia ricerca di una rinnovata intimità col mio mare, ma non glielo dico, per non deluderlo. Mi accontento d’immaginarmi come la Forrest Gump delle Eolie. Eppure, in quel preciso momento, non mi importa più se mi imbarcherò o meno quando col caldo torneranno i gamberi. Non ho sogni altrui da onorare come quelli di Bubba, morto in Vietnam, che desiderava tanto un peschereccio da gamberi tutto suo in Alabama, un giorno. È il modo concitato, timido, contrito, rispettoso con cui Francesco mi promette la battuta di pesca che mi dà conforto, e mi basta. Era da tempo che aspettavo da qualcuno delle scuse nella catastrofe fisica, esistenziale e psichica degli ultimi anni. Va bene che sia questo giovane pescatore di gamberi a chiedermi scusa.
Il mare è anche questa generosità, mi dico. Questo prendersi carico delle delusioni altrui, senza nemmeno sapere. È questo rispetto nei confronti di una sconosciuta: preoccuparsi di non mollarmi a terra spaesata, come accaduto con i pescatori da diporto, e anche con la mia vita. Pure lei ha provato a mollarmi nel senso letterale del termine. Stack. In un attimo. All’altezza del cuore. La non speranza. Stack. Più volte. E da lì tutta una catastrofe nel cervello. Shock post traumatico, dicono. D’altro canto, anche l’Ismaele di Moby Dick, prima di raccontare l’immensa storia del capitano Achab, precisa che andare per mare per lui è l’unico antidoto alla pallottola. Stack. Come a dire: il mare salva. A volte. Dipende da come e quando ci finisci dentro, in che stato e con quali intenzioni. L’importante è non pensare mai di dominarlo. Secoli di letteratura di uomini e mare dovrebbero averci messo in guardia da questo genere di tentazioni. Al limite, puoi governare una barca in mezzo al mare, sempre che il mare te lo permetta. Il mare che, nella nostra lingua, ha la vastità già in quella a aperta e appena arginata dalla r che rotola verso una vocale flebile e scivola via. Mare…
 
[da Il sentimento del mare di Evelina Santangelo, Einaudi, 2023]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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