In mezzo a questa storia... Come cerbiatti sulle strisce pedonali

Mattia Nocchi

04/10/2017

Eppure quel magone non accennava ad andarsene. Te ne stavi di fronte alla fnestra di camera chiedendoti perché quella tempesta non potesse portarti via con sé, o perché – almeno – le strade non si riempissero di onde e pesci giganti pronti ad inghiottirti senza far male. Le tue mani appoggiate sulla scrivania ordinata, il libro di letteratura latina illuminato da una lampada rosa, le pagine sottolineate senza troppa convinzione: in giallo e arancio. Linee colorate e pastello, orizzontali e discontinue. Sottili e distratte. Su quelle pagine incombeva Catullo, in attesa di declamare tutto quello che sapeva sull’origine delle passioni, sull’amore e sull’odio: le due morse che schiacciavano in quel preciso momento il tuo cuore, un pugno misterioso e dolente. Non avresti mai più letto Catullo, ignorato per sempre i segreti imperscrutabili sulla natura umana, sulla trascendenza dei desideri e delle passioni, e con lui tante altre cose ancora. Persa in questo stato di lieve agitazione, ti eri scoperta ad osservare un gattino bianco e nero intrappolato sotto una tettoia, nel palazzo di fronte, impaurito da quell’acqua verticale e poi diagonale. Avrebbe voluto saltare per raggiungere la terrazza dei suoi padroni, ma non si fdava del vento, di tutta quell’apocalisse. Sembrava miagolare, sembrava chiedere aiuto, ma nessuno poteva sentirlo, tantomeno salvarlo, neanche tu. Senza rendertene conto, ogni tanto asciugavi con il bavero del maglione il vapore del tuo respiro sul vetro. Era così che rimaneva un cerchio trasparente, poco più grande del tuo volto, circondato da un alone appannato di microscopiche molecole d’aria calda condensata. Vista da fuori, saresti sembrata la protagonista di uno di quei cortometraggi in bianco e nero degli anni trenta, dentro ai contorni pallidi dello schermo, con lo sguardo malinconico e incerto gettato lontano da te, verso una luna di cartapesta appiccicata sulla parete del set. In realtà avresti solo voluto strozzare Javier, maledetto Javier. E maledetta Marta che non ti stava rispondendo alle chiamate. Eri sicura che si stessero baciando fuori dalla sala giochi, magari sotto la pioggia, di nascosto da te. Marta: la tua migliore amica, con lei ti eri fatta il primo ed unico tatuaggio, una piccola tartaruga sul polpaccio. Vi eravate fumate la prima sigaretta di nascosto dai professori, nei bagni della palestra del liceo, vi telefonavate ogni sera per raccontarvi l’ennesima giornata insipida, in attesa del grande evento che vi avrebbe stravolto la vita. Ti rigirasti verso l’interno, lasciando la tua schiena alla luce del temporale e consegnando il volto al buio della stanza. Una cameretta piccola, la tua, senza poster alle pareti, con due mensole di legno riempite di libri e di souvenir dei tuoi viaggi estivi: un Leprechaun, il folletto irlandese che custodisce le monete d’oro in una grossa pentola di rame, una barca a vela in terracotta comprata a Pisa, le foto della vacanza studio a Londra a tredici anni. Dalla libreria penzolavano alcune medaglie in fnto oro guadagnate con tanto sudore e allenamento alle gare provinciali d'atletica. Poco sotto, su un altro ripiano, il tuo stereo ed i tuoi cd. Da quelle casse uscivano le parolacce di una band hiphop milanese. Basso, cassa, rullante. Sopra il letto, il cellulare muto.

Questa eri tu, Emma: la tua precisa fotografa. Oscillante
nelle ansie dei tuoi diciassette anni, tra la malinconia e la rabbia, l’indecisione e le foga. I tuoi capelli castani ordinati e lunghi sulle spalle, il poco trucco per non sembrare eccessiva ed invadente come tua madre. Il fsico agile e snello da ginnasta.
Intanto la pioggia continuava a invaderti gli ultimi angoli di speranza in quella giornata di quasi inverno. Intanto sognavi e piangevi per quello che avresti voluto essere e ancora non eri. Pensavi a Marta, a quella traditrice dal volto da angioletto. Era così, ti stava tradendo con Javier. Ridevano e si toccavano alle tue spalle. Ne eri sempre più sicura. Erano insieme, da qualche parte. Contro di te. Il tuo Javier: vi eravate conosciuti ad una noiosa festa di compleanno. Era mezzo sbronzo, come tutti gli altri ragazzi, ma aveva un sorriso dolcissimo di madre cilena. Ti aveva avvicinata cantilenando parole sconce e la prima impressione era stata quella di rovesciargli addosso il bicchiere di Coca. Poi gli hai dato un’altra occasione, ed ha capito di aver esagerato. Si è scusato, ti ha offerto del fumo.
«Vuoi provare?».
«Per chi mi hai preso?».
Non ti andava, ma non potevi dirgli di no, non volevi passare per una bambina. Vi siete appartati in un’altra saletta del locale. Lo hai ascoltato vantarsi delle sue partite a calcio e del suo motorino. Lo hai trovato borioso ed infantile, come tutti i maschi, ma in fondo dolce, nella sua ingenuità. Quando vi
stavate diventando troppo noiosi, le vostre bocche si sono appiccicate e lui ti ha sforato il seno destro con la mano, che gli hai scansato con fermezza, per non passare da mignotta. Vi siete baciati ancora e ancora e non volevi che smettesse, poi ve ne siete andati via. Un giro a piedi, un’altra birra – la prima per te – ed altri baci senza parole, appoggiata sul muro di casa dei
tuoi. La testa leggera di hashish e le farfalle nel petto. Lo avevi visto solo un’altra volta ed era stato tutto sommato piacevole. Javier studiava in un istituto tecnico poco lontano da casa tua. Eri andata ad aspettarlo all’uscita di scuola, con il terrore di vederlo abbracciato a qualcun’altra e di dover ingoiare il sogno che intanto prendeva forma, ogni giorno di più, dentro
di te. Invece appena ti ha vista là fuori ti è venuto incontro a passo svelto, sorridendoti. Avete passato quel lungo ed unico pomeriggio insieme. Vi siete baciati di nuovo e la sua bocca non aveva un cattivo sapore, le sue mani erano diventate gentili. Ti continuava a parlare di cose noiose tipo calcio e scarpe da ginnastica e che sarebbe andato allo stadio la sera stessa. Gli avevi chiesto se prima della partita gli fosse andato di venire a prendere qualcosa da bere dalle tue parti. A lui stava bene. Un bacio sulla guancia a te a e Marta, appena arrivato al vostro locale, ed una conversazione che sapeva troppo di dover riempire il tempo prima di qualcosa di più interessante da fare. Marta che rideva come una matta alle sue stupidaggini, te lo
ricordi bene: le gomme da masticare, le sigarette, la maglietta dell’Inter avvolta da un profumo eccessivo, la musica scema del flipper e una liquirizia in bocca che torturavi senza darti tregua. Poi Javier non ti aveva risposto più al telefono, niente sms, per una settimana: questa settimana. E mentre ripassavi di nuovo l’elenco delle parole che sicuramente avevi sbagliato a dirgli, ecco la molla, uno scatto improvviso, la decisione su cosa fare.
Avevi indossato il cappotto giallo ed in mano avevi già il tuo ombrello preferito. Aveva i colori dell’arcobaleno e della pace. Schivate le grida di tua madre, scendesti di corsa le scale, senza sapere se lo avresti voluto uccidere o baciare. Volevi solo toglierti quella rabbia che ti toglieva il respiro, staccarti con
un colpo preciso quelle palle di piombo legate al piede e che ti trascinavano a picco negli oceani scuri della gelosia. Dovevi sapere la verità, nitida e chiara. Per la verità, si vive e si muore, si combatte, si può perdere tutto. Aperta la porta di casa ti trovasti nel mezzo di quel temporale furioso. Un sms ti avvisò che fnalmente Marta aveva riacceso il cellulare. Le telefonasti prima di metterti in cammino: lei rispose piangendo e all’inizio non capivi cosa stesse dicendo. La pioggia era troppo forte e lei troppo confusa. Spalancasti gli occhi prima di gettarti sotto quel diluvio, camminando veloce, prima di iniziare a correre. Non sapremo mai che cosa vi eravate dette e cosa successe per davvero, cosa era successo a Marta con Javier. Iniziavano in quel momento, senza che tu lo sapessi, gli ultimi tre minuti della tua vita.

"Come cerbiatti sulle strisce pedonali", Edizioni Effigi (pp. 7-11)
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Mattia Nocchi

Mattia Nocchi
classe 1979, toscano. Batterista mancato, giornalista. Ha diretto la prima radio universitaria italiana, a Siena, prima di lavorare per cinque anni a Milano nel mondo delle emittenti nazionali (Rtl 102.5, Radio 24 - Il Sole 24 Ore). Da qualche anno si occupa di comunicazione politica, istituzionale e altre stranezze a Firenze, presso la Regione Toscana.
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