Le parole di Occhetto alla Bolognina e la fine del partito comunista

Roberto Barzanti

02/11/2012

Come fu vissuto dai comunisti senesi l’annuncio che Achille Occhetto pronunciò domenica 12 novembre 1989 nel corso di una riunione celebrativa della Resistenza organizzata a Bologna, nella sezione della Bolognina, quartiere Navile? Quali reazioni innescarono quelle poche parole che facevano intravedere, insieme alla liquidazione del nome comunista, la fine del partito? Scrivo “fine” e anche Alessandro Cannamela, il giovane leader di Sel, concludendo la sua svelta indagine sul triennio 1989-1991 nel senese (“Nel nome le cose”, Edizioni Effigi), usa la stessa parola, precisando che nelle sue pagine ha voluto solo fare una rapida esplorazione a scala locale per proporre “alcune chiavi di lettura utili ad approfondire uno studio necessario, ed ancora latente, della storia del più grande partito comunista d’Europa e della sua fine”.

La svolta (?) della Bolognina - A dire il vero la bibliografia su quei giorni tumultuosi di novembre è abbondante, ma qui si preferisce un’analisi diretta su alcune fonti, ed è rinviato un più ampio scavo capace di andare oltre la cronologia dei congressi e le schermaglie dei gruppi dirigenti. Quella della Bolognina, in effetti, non fu una svolta. Fu piuttosto, nelle intenzioni, l’avvio di una fase avventurosa di ricerca in vista di ciò che Achille Occhetto definì spesso “un nuovo inizio”, dopo una cesura irreversibile, conseguente ad un radicale mutamento di riferimenti teorici. Ma fino a che punto avvenne questo mutamento? E quanto fu diffusa la consapevolezza di dover fare punto e a capo, e tagliare con un bagaglio di sentimenti, tradizioni, schemi ideologici che nel bene e nel male avevano alimentato la forza e il fascino di uno strano partito comunista? Il nome era ormai diventato d’inciampo e rendeva illeggibili le peculiarità di una formazione che per un verso assumeva il lessico d’un riformismo di ascendenza socialdemocratica e per l’altro non si decideva a staccarsi da un mondo che stava precipitando. Partecipai a Bruxelles al pranzo con Neil Kinnock del 10 novembre e ricordo bene l’animata discussione che si svolse tra Occhetto e il leader laburista nell’appartata sala del ristorantino di place Sainte Catherine. Kinnock ribadì l’importanza del cambio del nome per poter essere attivi membri, a pari titolo, dell’Internazionale socialista. Quel giorno stava crollando il Muro di Berlino: una data destinata a periodizzare le vicende del Continente. Occhetto espose perplessità serie, ma forse in cuor suo maturò in quelle ore la decisione che di lì a poco avrebbe dichiarato, innescando un processo dalle conseguenze dirompenti.

Stato di salute del Pci - La questione, però, non era sorta all’improvviso. Era un magone che una fetta almeno del gruppo dirigente si portava dentro da tempo. E non era un interrogativo nominalistico, se i nomi rispecchiano le cose. Il Pci non godeva di buona salute da anni. La segreteria di Natta era stata una sorta di transizione non si sapeva verso dove, paralizzata da impacci diplomatici e anacronistiche fedeltà. Al XVIII congresso provinciale del Pci senese, che si svolse ai primi di marzo del 1989, Fabrizio Vigni non aveva nascosto una diagnosi allarmata: “Ormai da più di un decennio è in atto un calo del numero degli iscritti; l’età media è sempre più alta; particolarmente acuti sono i problemi di rapporto con le giovani generazioni e con nuove figure sociali”. La cosiddetta svolta interviene in un partito all’affannosa individuazione d’un “nuovo corso”, rinfrancato se non eccitato dal confuso riformismo gorbacioviano. A riprova della cruciale dipendenza dal quadro internazionale, Alessandro Orlandini nella premessa ripercorre le svolte che avevano scosso il partito: anzitutto la svolta di Salerno del 1944, dovuta meno alla volontà innovativa di Togliatti che ad una realistica visione di marca sovietica. Seguì il trauma del XX congresso del PCUS e l’invasione dell’Ungheria con le dolorose lacerazioni del 1956, più tardi, nel ’68, la condanna della repressione della primavera di Praga, quindi lo strappo (parziale) di Enrico Berlinguer nel 1981 e l’elaborazione dell’ingegnosa piattaforma dell’eurocomunismo. Infine il crollo del Muro. Non è un caso che il dibattito del Pci sia scandito da eventi solo in apparenza esterni. Malgrado la sua indubbia autonomia nazionale e la sua felice atipicità il Pci era eresia dentro un universo. E dunque sarebbe stata impresa terribilmente ardua non disperderne l’eredità e ricostruire una presenza in grado di radicarsi in un mondo in preda a vertiginosi cambiamenti.

Il processo di liberazione - In uno dei saggi più penetranti (“Dopo il comunismo”, 1990) usciti in quel passaggio di fuoco Biagio de Giovanni espresse una condizionata fiducia: “Un passaggio genetico non si può inventare; un salto oltre se stessi che non significhi portare lì tutto, compresa la propria ombra, è possibile se c’è una sorta di potenzialità inespressa e contraddizione, e se c’è uno spazio in cui far giocare questa tensione in un vero e proprio processo di liberazione”. Leggendo gli spezzoni di cronaca antologizzati da Cannamela si conferma l’amara impressione di un processo vissuto da molti con timorosa disciplina, non con autentica convinzione: un processo, come disse D’Alema, “ineluttabile”. E dall’aggettivo traspaiono gli accenti di una resa necessitata più che il costruttivo entusiasmo indispensabile per dar vita ad una nuova pluralistica forma politica, dove confluissero tradizioni di pensiero e schiette volontà, non paralizzate da residuali controversie. È sbrigativo accusare il gruppo dirigente che aveva spinto con tempi discutibili al “nuovo inizio” di “una totale subordinazione al modello culturale egemonico”. Quale modello poi? E anche molti di coloro che si mossero tra tentennamenti e sofferenze non erano pungolati solo dall’assillo di difendere un’ “identità” logorata e periclitante. Era allora in gioco per tutti la politica per come si era andata.

Anni difficili - Per questo si vorrebbe sapere di più di come i militanti vissero quel triennio. Al di là dei freddi verbali dei congressi e dello standardizzato formulario degli interminabili documenti, per restituire la verità di quella fase sarebbe indispensabile ricorrere ad una sorta di inchiesta retrospettiva, magari condotta con sano piglio giornalistico. Fausto Bertinotti nella sua impegnata prefazione mette in guardia contro il “vizio centralista nella lettura dei fenomeni politici” e addirittura suggerisce la fecondità di storie controfattuali, che osino porsi i “se”. Se Occhetto invece di … Se al posto di tre farraginosi congressi…Se non avessero prevalso le controversie dottrinarie… Luca Telese in un volume zeppo di dati e di testi (“Qualcuno era comunista”) racconta di aver domandato ad una stretta collaboratrice di Occhetto perché secondo lei il segretario avesse serbato in tanta segretezza l’idea lanciata tra i partigiani della Bolognina. La secca risposta, non priva di scherzosa ironia, la dice lunga: “Per come era il Pci di allora, se Occhetto avesse detto a chiunque dentro Botteghe Oscure quello che stava per fare, molto probabilmente lo avrebbero rinchiuso in una cantina e avrebbero buttato via la chiave”. Chissà se l’ipotesi è solo maliziosa. Già è difficile rendersi conto di come sono andate le cose.

Articolo pubblicato su “Il Corriere di Siena” del 30 ottobre 2012 (pagina 10)

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Roberto Barzanti

Roberto Barzanti
è un politico italiano. È stato parlamentare europeo dal 1984 al 1994, dal 1992 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Parlamento europeo. Dal 1969 al '74 è stato sindaco di Siena. Dal 2012 è presidente della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena. Ha pubblicato "I confini del visibile" (Milano, 1994) sulle politiche comunitarie in tema di cinema e audiovisivo. Suoi saggi, articoli e recensioni tra l'altro in economia della cultura, il Riformista, L'indice dei libri del mese, Gli argomenti umani, Testimonianze, Gulliver, Il Ponte, rivista quest'ultima della cui direzione è membro. Scrive per Il Corriere Fiorentino.
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