Lo spazio non è mai stato tanto vicino. Intervista a Anilkumar Dave

Serena Bedini

07/09/2022

Anilkumar Dave, consulente di Space Economy e di Open Innovation, è stato responsabile dell’Unità di Innovazione e Trasferimento Tecnologico presso l’Agenzia Spaziale Italiana, ha sviluppato progetti europei per il Trasferimento Tecnologico (TT) per migliorare e incrementare le collaborazioni tra ricerca e impresa; si occupa di New Space Economy ed è docente del Master in Space Design di ISIA Firenze. Di origine indiana, ha vissuto e studiato tra India, Italia e Stati Uniti d’America, è “Space strategy Lead” di una startup in Silicon Valley che si occupa di cibo per astronauti ed è da sempre appassionato di cross-fertilizzazione tra settori diversi come strumento per guardare oltre il futuro. Gli abbiamo rivolto qualche domanda sia sull’affascinante mondo professionale in cui opera sia per avere qualche utile consiglio di lettura a tema aerospaziale.
 
Il genere fantascientifico è fin dagli esordi estremamente prolifico e ricco di spunti di riflessione sul nostro presente attraverso un possibile futuro. Da addetto ai lavori cosa pensa dei romanzi e dei film di fantascienza? Li trova divertenti o fin troppo fantasiosi?
Io credo fortemente che la fantascienza spinga l’uomo a studiare per realizzare cose mai viste. Del resto, quello che amo delle tecnologie spaziali è come esse possano essere ricondotte e applicate nella tangibilità del quotidiano. Nel libro La fisica di Star Trek di Lawrence Krauss e Stephen Hawking si trovano dimostrazioni evidenti di quanto la fantasia varchi i confini del reale per permettere all’uomo di immaginare nuove sfide e di ipotizzare utili invenzioni. Ovviamente, come si spiega nel volume, nella nota serie TV americana, c’erano numerose tecnologie destinate a restare irrealizzabili, come  il teletrasporto o la velocità warp, ma molte altre sono diventate ormai protagoniste dell’uso quotidiano: McCoy utilizzava una tavoletta smart per realizzare analisi e rilievi e oggi tutti noi usiamo il tablet quotidianamente; il tenente Uhura utilizzava un auricolare che le permetteva di tradurre in tempo reale tutti i linguaggi, ossia quello che all’incirca avviene con applicazioni per smartphone per l’apprendimento delle lingue; nella serie, erano possibili videochiamate o videochiamate oleografiche che oggi sono diventate di uso comune, a maggior ragione durante la pandemia e lo saranno sempre più nell’era post-pandemica; le tute dell’equipaggio dell’Enterprise erano fatte di tessuti intelligenti che si adattavano al clima e oggi tutto questo è realtà; infine, il comandante Kirk chiamava Cechov attraverso un comunicatore flip-flop del tutto assimilabile ai primi modelli di cellulari che tutti noi abbiamo usato. Un altro esempio? Pensi per un attimo a un film cult degli anni Ottanta, Ritorno al futuro. Nel primo episodio, il protagonista salta nel 2015 e in effetti si ritrovano oggetti che oggi sono assolutamente normali, ma per allora erano del tutto inimmaginabili. In questo film, insomma, vediamo come il 90% delle tecnologie immaginate nel 1985 - anno di uscita della pellicola - siano diventate realtà: l’hoverboard usato da Doc è attualmente prodotto da tre aziende americane, così come gli occhiali in realtà aumentata sono assimilabili ai nostri visori, mentre le pompe di benzina automatica della Texaco trovano dei loro antenati proprio nelle sequenze cinematografiche di Ritorno al futuro.
 
Sempre più spesso si sente ripetere che il settore aerospaziale necessita di nuove professionalità e dunque avrà sempre maggiore impatto su moltissimi settori industriali e persino sullo svolgersi della nostra vita di tutti i giorni. È così e lo sarà sempre?
Molto più di quanto si creda. A questo proposito mi piace citare il volume di Giulio Xhaet, Contaminati che, tra l’altro, è perfettamente in linea con la mia carriera professionale, che dimostra quanto sia importante un approccio ispirato alla cross-culturalità e alla cross-disciplinarietà. Negli ultimi anni lo spazio si è aperto sempre di più anche ai non addetti ai lavori, coinvolgendo nuove competenze e nuovi fornitori. Se ad esempio i moduli spaziali dovranno ospitare persone che soggiorneranno nell’ambiente ristretto della navicella o della stazione per un breve periodo, bisogna che questo ambiente sia piacevole, ci siano comfort, ergonomia, design, sia possibile una user/customer experience di alto livello. Le tute degli astronauti, ad esempio, non sono più solo performanti e sicure dal punto di vista igienico e batteriologico, ma vengono prodotte con tessuti realizzati attraverso tecniche di produzione d’avanguardia, così da dare il massimo comfort e la massima performance. Oppure si pensi al cibo per lo spazio: di solito era sempre liofilizzato, mentre io e la mia startup Astreas abbiamo introdotto l’edonica del cibo, cosicché anche nello spazio il cibo possa essere buono e bello. Tecnicamente questo tipo di apertura verso nuove competenze esterne, è chiamato spin-in, ossia prendere tecnologie non pensate per applicazioni spaziali e utilizzarle per generare nuove innovazioni. Prima, si faceva soprattutto spin-out, ovvero le tecnologie spaziali venivano portate a terra e impiegate nella vita di tutti i giorni. Così è successo per il memory foam, per i sistemi di efficientamento energetico, per il filtraggio e la purificazione dell’acqua, per l’industria di transistor, per le scale mobili, per le lenti polarizzate e per tanto altro. A mio avviso, la prossima frontiera nello spazio sarà rappresentata da quello che mi piace chiamare “spin-x”: non ci sarà vera distinzione tra le tecnologie per la vita extraterrestre o terrestre, ma genereremo tecnologie ambivalenti, raggiungendo una cross-contaminazione dei saperi, attraverso la cross-industry. Questo è il futuro: la cross-settorialità.
 
La cross settorialità include anche il settore delle materie umanistiche e dell’arte?
Ci sono già dei casi di questo tipo: lo dimostra un volume del filosofo e artista concettuale Jonathon Keats, intitolato Thought Experiments - The Art of Jonathon Keats in cui vengono illustrati alcuni progetti molto belli legati allo spazio. Attualmente Keats è resident artist presso il SETI, Search Extraterrestrial Intelligence Institute, un istituto californiano che ha lo scopo di ricercare presenze extraterrestri nell’universo, ossia di rilevare segnali di vita. La scienza e anche lo spazio sono arte e io credo che dovremmo creare una cultura dello spazio, della scienza e della tecnologia, non solo cioè una cultura legata al bello delle materie umanistiche e dell’arte, così come sarebbe necessario organizzare mostre d’arte negli spazi della scienza più di quanto già non si faccia.
 
 
Qual è dunque l’approccio corretto per un giovane sul punto di aprire la propria startup? Stando a quanto asserisce, verrebbe da credere che oggi sia necessario guardare persino oltre i confini terrestri…
Giusto per spiegarle il mio punto di vista, mi piace citare un altro volume che amo molto, ma che per il momento non è stato tradotto in italiano: è il libro di Irving “Magic” Johnson, 32 ways to be a champion in business. Con lo spazio non c’entra niente, visto che è stato scritto da un ex-campione di basket, ma è l’approccio spiegato brillantemente in questa opera ad avermi sempre fatto notare analogie col mondo nel quale lavoro. L’autore, in pratica, spiega che essere campioni del business vuol dire vedere le cose in maniera diversa rispetto agli altri ed essere anticipatori. Oggi, ad esempio, tutti, avendo disponibilità economica, possono fare un viaggio nello spazio, diciamo a un’altezza di 100 km. L’andata impegnerà circa dieci minuti, tre minuti saranno spesi nello spazio e sarà possibile vedere la curvatura della terra, così come provare la sensazione di assenza di gravità. Un’esperienza simile ha un costo di circa 250-300 mila dollari; con circa sei ore di viaggio e oltre 50 milioni di dollari si può invece raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, a 400 km di distanza da qui, e soggiornarvi per alcuni giorni.  Tutto questo, trent’anni fa non era possibile; il primo a realizzare un giro intorno alla Terra è stato Dennis Tito, circa ventuno anni fa, con la navicella spaziale Soyuz, sfidando lo scetticismo di molti.  Poi personaggi come Musk, Bezos, Branson, ecc. hanno visto il settore in maniera diversa: l’hanno visto cioè come un settore in grado di generare business. I primi lanci di Musk sono falliti, ma ha continuato ugualmente a farne perché la sua idea era quella di realizzare dei razzi riusabili. Il business nello spazio sta entrando in maniera molto più preponderante e pesante perché le startup legate al settore aerospaziale crescono più rapidamente di altre, raccogliendo anche molti soldi da investitori di rischio. Non è un caso se l’Italia è il primo paese europeo ad aver creato grazie alla sua agenzia spaziale un fondo di venture capital per investire nel settore dello spazio e aiutare a generare nuovi business e che tra poco darò alla luce il più grande fondo in Europa. Tutto questo dimostra che ciò che conta è anticipare i tempi, sognare di andare oltre i confini che normalmente vediamo come insuperabili.
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Serena Bedini

Serena Bedini
È nata a Firenze nel 1978; si è laureata con 110/110 e lode in Filologia Moderna nel 2005 presso l’Università degli Studi di Firenze. È scrittrice, giornalista, docente. Maggiori informazioni su di lei sono reperibili su www.serenabedini.it.

 
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