Quando il futuro risulta prevedibile. Il lavoro visto con gli occhi dei millennials

Francesco Ricci

26/02/2018

“Cosa farò dopo? Perché il tempo corre e l’università si fa sempre più vicina e con lei il temuto mondo del lavoro (…). Ho paura anch’io come tanti altri di non trovare lavoro, di non riuscire a trovare autonomia dalla mia famiglia (…). Ciò che sognerei è trovare un lavoro che mi permetta di continuare a scoprire nuove cose, che accresca la mia cultura, sappia appassionarmi e possa lasciare una traccia di quello che faccio anche nel futuro. Non pretendo grandi cose, ma la consapevolezza che quel che ho fatto, non rimarrà solo a me, ma sarà utile anche ad altri”.

Queste parole appartengono a una lettera, scritta da una diciassettenne, che il ricercatore sociale Stefano Laffi ha raccolto, assieme a quelle di altri giovani, nel volume “Quello che dovete sapere di me” (2016). Tre mi sembrano essere gli elementi di maggior rilievo che essa contiene: la preoccupazione di non trovare lavoro; il timore, non trovandolo, di non riuscire a lasciare la casa dei genitori e di non conseguire, perciò, una piena autonomia; la paura, pur trovandolo, di percepirlo come alienante, dal momento che non consente la realizzazione di se stessi, non permette, cioè, di tradurre in pratica quotidiana quella che è avvertita essere la più intima vocazione personale. Elementi, questi, che ritornano con frequenza anche in molte altre pagine del libro di Stefano Laffi, finendo col disegnare un futuro che – ed è la prima volta che accade – per i millennials è drammaticamente prevedibile e difficilmente modificabile.

Il loro futuro, infatti, ritengono che sarà identico al presente di chi oggi ha ventisette anni, come Speranza, o di chi di anni ne ha trenta, come Sofia, le cui testimonianze sono riportate da Umberto Galimberti all’interno del suo ultimo saggio, intitolato “La parola ai giovani” (2018): “Faccio al momento un lavoro degradante, e badi bene, non è solo per il pagamento (parliamo di tre euro all’ora!) che comunque è meno della metà di quello che percepivo a Milano per lo stesso impiego, ma per l’umiliazione dell’essere umano: sei giorni su sette, dieci ore al giorno, contratto falso, dimissioni anticipatamente firmate senza data, quattordicesima firmata ma non percepita, quindici minuti di pausa totali” (Speranza). “Sono un architetto di trent’anni, laureata a Roma e sono alla continua ricerca di un lavoro. Non dico mai di ‘no’. Mi divido in tanti altri lavori, di ogni genere, per avere un minimo di guadagno e per avere la possibilità di continuare a puntare a fare il lavoro che ho sempre sognato e per il quale ho studiato” (Sofia).
Due esperienze di vita, queste, che donano un nome, un vissuto, un profilo biografico a quelli che i sondaggi dell’Eurispes e di altri istituti di Ricerca ci presentano come semplici e freddi numeri: quasi la metà dei giovani (48,7%) di età compresa tra i 18 e i 24 anni ha un lavoro precario; 1/3 di chi ha un’occupazione dichiara di essere pagato in modo irregolare; il 64% degli intervistati fatica ad arrivare a fine mese; oltre la metà andrebbe a vivere, potendo, in un altro Paese; la disoccupazione giovanile è superiore al 30%; per un contratto a tempo indeterminato se ne hanno sette a tempo determinato (nel 2017, 254.000 a fronte di 1 milione e 700.000); la percentuale degli ultratrentenni che vive con i genitori si aggira intorno al 40% (nel 1971 era del 10%).

Forse un giorno qualcuno sarà chiamato a rendere conto di tutte queste vite compresse, schiacciate, violentate, di queste esistenze sfruttate o sotto-impiegate proprio durante quella stagione della vita nella quale massima è la forza biologica, massima è la forza creativa. Ma chi sarà invitato a salire sul banco degli imputati? La colpa, si dice, è del mercato, e il mercato non possiede un volto. La causa, si ripete ad est come ad ovest, è del capitalismo planetario, che ha le sue leggi e le sue dinamiche interne, che porta benessere e garantisce lo sviluppo tecnologico. Tutto vero. Ma guai a confondere l’accaduto con l’ineluttabile, a far coincidere la scelta operata con la sola scelta possibile. Perché c’è economia di mercato ed economia di mercato, perché c’è progresso e progresso. Entrambi restano validi e apprezzabili finché conservano una loro misura e questa misura è costituita dal rimanere al di là della soglia, attraversata la quale ciò che si progetta, si produce, si consuma non viene fatto più in vista dell’uomo, ma contro l’uomo. Come sta avvenendo con l’automazione di una fabbrica in Cina, a Dongguan, dove si procede a sostituire il 90% della forza lavoro con un migliaio di robot e dove verranno licenziati 1600 operai su 1800. La capacità di produzione annuale dello stabilimento, che opera nel campo dei componenti per cellulari, si aggirerà, una volta che il piano industriale sarà completato, sui 280 milioni di euro. Ma di quei 1600 operai, delle loro famiglie, dei loro progetti, che ne sarà? Saranno gettati via, come si getta via una scarpa vecchia, col tempo saranno dimenticati, tutt’al più entreranno a far parte di una statistica, ad esempio quella che ci informa che nell’arco di trent’anni, nei paesi più industrializzati, il numero degli operai si è dimezzato.

I Greci, che ritrovavano con spavento dentro di sé – e nessuno lo ha capito meglio di Friedrich Nietzsche – l’umana propensione a varcare il limite e la misura, non si stancarono mai in ambito etico di stigmatizzare l’eccesso (mēdèn ágan “nulla di troppo”) e di celebrare l’idea di mesòtes (“il giusto mezzo”). Forse tornare a leggerli non sarebbe poi tanto male, così come non sarebbe male confrontarsi col pensiero di chi, penso in particolare a Serge Latouche, da tempo suggerisce un’inversione di rotta a livello di valori, mentalità, strutture, logica sociale, individuando nella decrescita e nella sostenibilità le sole vie d’uscita a un mondo, che sull’altare dell’efficienza e del profitto sacrifica indifferentemente esistenze giovani ed esistenze mature. Ancora qualche passo, altrimenti, ancora pochi decenni, inevitabilmente, e il vivere farà più paura del morire.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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