Sì, viaggiare in Toscana … nel Novecento

Roberto Barzanti

13/06/2018

«E se fossi l’ultimo viaggiatore letterario in Italia?»: il dubbio assale l’apocalittico Guido Ceronetti al termine di uno dei suoi affranti pellegrinaggi tra orrori e ferite di un Paese alla deriva. A suo avviso «il malignissimo sortilegio turistico» cancella i rapporti con la realtà, impedisce esperienze dirette e soste rinfrancanti, obbliga a orari prestabiliti e a percorsi standardizzati. Tutto il contrario del viaggio, che, se è tale, liberamente segue i moti dell’anima, proiettandoci fuori dal tempo e soddisfacendo preferenze individuali, improvvise curiosità, radicati desideri.

Attilio Brilli, studioso eccelso della letteratura odeporica, ha dato alla sua recente fatica un titolo "Gli ultimi viaggiatori nell’Italia del Novecento" (Il Mulino) che echeggia una rattristata meditazione sul tramonto di un’epoca. Dal primo decennio del Novecento si va approfondendo «il solco – scrive – che divide il viaggio colto, motivato, individuale dalla pratica del turismo più o meno organizzato». E così, al cadenzato viaggio che assapora atmosfere e sceglie luoghi eccentrici, si è sostituita una frenetica industria fordista, fatta di tappe forzate che impediscono la possibilità di una divagante conoscenza di paesaggi, luoghi, costumi, persone. Il viaggiatore dei nostri giorni non potrà più dirsi tale, se si rende conto che un viaggio degno di questo nome «non può che essere la messa alla prova, la consacrazione dell’esperienza». Nell’accettare questa distinzione si dovrà stare attenti a non cadere in un anacronistico snobismo. Il turismo è diventato un fenomeno di massa. Occorrerà regolarlo e gestirlo al meglio, non esecrarlo come una perversa sciagura. Sarà indispensabile una visione internazionale – globale – che orienti i flussi e renda i numeri compatibili con la salvaguardia di un patrimonio a rischio usura. Uno dei mezzi da offrire per rendere più consapevoli le escursioni programmate da potenti agenzie sarebbe quello di rileggere testimonianze che sovvengano nel vedere ciò che non si vede, nel ritrovare ciò che sembra irrimediabilmente perduto.

Per l’Italia sarebbe appropriato diffondere una cultura che tramandi qualcosa di una gloriosa tradizione. Nessuno pretende di restaurare la selettività aristocratica del Grand Tour, ma un freno all’abiezione dovrà pur esserci, pena la perdita di una ricchezza che per sopravvivere esige amore e rispetto. Il libro agile e godibilissimo di Brilli propone pagine da cui trarre una quantità di spunti e di avvertenze. Del resto chi si apprestava a percorrere lo stivale o come agognato  rifugio o come dorato esilio intellettuale non di rado si muoveva sulla spinta di impressioni o diari da consultare quali indispensabili vademecum.

Henry James consigliava di portarsi dietro una copia della classica opera di Joseph Forsyth, parecchi mettevano in valigia Il Cicerone di Jacob Burckhardt, Paul Bourget era pressoché indispensabile, e l’elenco sarebbe smisurato. Un filtro rammemorante o un attento resoconto mediavano l’incontro con una penisola «ricca di passato – annotò nel 1909 Aleksandr Blok – e povera di presente». Gli sconvolgimenti di due guerre mondiali e le dolorose eredità che lasciarono hanno incrinato ma non dissolto l’incanto. La violenza della «turpe uguagliatrice modernità» temuta da Riccardo Bacchelli sollecitò semmai un accostamento diverso, più disinvolto, più dimesso. Guido Piovene ammonì, in partenza per gli States, che «viaggiare dovrebbe essere sempre un atto di umiltà». E non si contano i momenti di sentimentale abbandono o di ironico rapimento che onesti giornalisti e inviati speciali, virtuosi elzeviristi e corrispondenti esteri hanno fissato di un’Italia multiforme e sfuggente. Tra gli italiani Brilli premia il monumentale Viaggio in Italia (1957) di Guido Piovene, che per tre anni perlustrò in lungo e largo un Paese affaccendato in un’ardua ricostruzione materiale, lasciando da parte la vana ricerca dell’“identità” per redigere piuttosto un laico e piano «inventario delle cose italiane».

Non da meno Cesare Brandi, i cui contributi «possono costituire lo scenario di fondo, il basso continuo» al quale riferirsi per cogliere situazioni di confine, dove l’antico è di continuo minacciato o sta per essere travolto da ignobili speculazioni. Chi poi volesse scorrere la fluente narrazione saggistica di Brilli con un occhio di riguardo per la patria Toscana avrebbe di che schedare. Jean-Louis Vaudoyer è entusiasta di soggiornare in una Firenze dove si scatenano per le vie lotte  degne delle «notti brave» del Quattrocento. David Herbert Lawrence punta a interrogare il ‘genio’ dei siti etruschi per carpire il segreto di una civiltà primordiale, fiera di «un’interazione fra l’attività della mente e le pulsioni del corpo». Albert Camus confessa – metà anni Cinquanta – di voler far ritorno e dalla valle di Sansepolcro incamminarsi per consumare quel che gli resta del giorno contemplando Siena mentre sorge «nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli». Hilaire Belloc si commuove a Lucca, la cui pianta ha la chiarezza intangibile di un’adamantina geometria. Thedore Dreiser a Pisa è frastornato dall’accecante bagliore del Campo dei Miracoli. C’è chi non lesina appunti: secondo l’esteta Norman Douglas, ad esempio, con la loro parlata aperta «i toscani sono enfatici più che profondi». E non sono assenti severe critiche politiche. Qualche visitatore interpreta la dittatura fascista come reincarnazione dell’assolutismo rinascimentale: l’aulica ombra del passato è evocata per nobilitare il tragico decadimento. Ma il giovane Robert Byron (nel 1924) non si fa ingannare dalle apparenze: l’Italia è in mano a un’olocrazia sparviera, mediocre e incapace. Talvolta chi arriva da fuori percepisce il dramma nella sua angosciante nudità, comprende subito ciò che accade e sa vedere oltre, lontano. Molto lontano.

Pubblicato su Il Corriere fiorentino, 12 giugno 2018
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Roberto Barzanti

Roberto Barzanti
è un politico italiano. È stato parlamentare europeo dal 1984 al 1994, dal 1992 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Parlamento europeo. Dal 1969 al '74 è stato sindaco di Siena. Dal 2012 è presidente della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena. Ha pubblicato "I confini del visibile" (Milano, 1994) sulle politiche comunitarie in tema di cinema e audiovisivo. Suoi saggi, articoli e recensioni tra l'altro in economia della cultura, il Riformista, L'indice dei libri del mese, Gli argomenti umani, Testimonianze, Gulliver, Il Ponte, rivista quest'ultima della cui direzione è membro. Scrive per Il Corriere Fiorentino.
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