Soledad. L’inquieto Natale del commissario Ricciardi

Luigi Oliveto

11/01/2024

Il commissario di polizia Luigi Alfredo Ricciardi, personaggio letterario creato da Maurizio De Giovanni, è figura seducente. Affascina la sua introversione, la perspicacia, quel modo d’essere sensibile ma scontroso, votato al lavoro ma estraneo al carrierismo, di origini nobiliari ma refrattario a nobili e ricchi. E poi quella sua segreta facoltà (che lui chiama ‘il Fatto’) di percepire gli spettri delle vittime di morte violenta nei luoghi in cui sono deceduti e che gli ripetono in modo angoscioso le parole che stavano dicendo o pensando in punto di morte. Nella fantasia di De Giovanni, il commissario Ricciardi è nato il 1 giugno del 1900 e si ritrova a lavorare presso la Regia Questura di Napoli in pieno fascismo. Nell’ultimo libro della serie, intitolato “Soledad” – del resto la solitudine è ciò che in buona misura ha segnato l’esistenza di Luigi Alfredo – siamo nel dicembre 1939, con l’Italia prossima a entrare in guerra e una Napoli che, forse senza esserne pienamente consapevole, si prepara a vivere l’ultimo Natale di pace. “Che strano Natale è questo, che folle Natale, sospeso tra la voglia e la paura, tra il passato da tenere stretto fra i denti e un futuro di grandezza o di follia.” La consueta, intima inquietudine di Ricciardi va così a incrociare l’ansia per i destini comuni. Come se ciò non bastasse, giusto una settimana prima di Natale, la città viene sconvolta dall’uccisione di Erminia Cascetta, donna piena di vita, che nelle sue uscite liberatorie da una madre inferma e despota, si accompagnava spesso a Catello De Nardo, insigne avvocato partenopeo, più anziano di lei. Ecco allora il commissario impegnato a risolvere il caso, ossessionato dal fantasma di Erminia mentre, negli ultimi attimi di vita, sta urlando “egoista, egoista, lasciami vivere”. Non mancano anche in questo romanzo i fedeli collaboratori di Ricciardi: il brigadiere Raffaele Maione, sempre in affanno per la sua rilevante stazza, bene introdotto nei quartieri popolari, dove lui stesso risiede (abita nei Quartieri Spagnoli) con moglie e cinque figli; il medico legale Bruno Modo, razionale e sarcastico, “che sibilava il proprio malessere verso il fascismo e il governo ma che era diventato più prudente, terrorizzato com’era dagli arresti e dal confino.” Bravo come sempre è De Giovanni a inscenare la Napoli del tempo, i microuniversi che vi si annidano, i caratteri umani e il frangente storico che l’Italia stava attraversando, colta in quel Natale che è “l’ultimo Natale dei vecchi tempi. L’ultimo di un’epoca che stava per finire, annegata dal buio di un futuro zeppo di incognite.”
 
***
 
Ricciardi, sconfitto, si alzò dalla scrivania.
Da quasi un’ora provava a concentrarsi sulla redazione del verbale che aveva davanti, ma la mente continuava a vagare di argomento in argomento, toccandone la superficie ma mai soffermandosi.
Andò alla finestra, le mani dalle dita sporche d’inchiostro in tasca, tentando di dare un nome alla propria inquietudine. Nella piazza, la città frenetica viveva la sera di dicembre combattendo freddo, povertà e paura con la voglia di un Natale che fosse di festa, di allegria e di speranza ma che preannunciava tutt’altro.
Incoerenza, rifletté Ricciardi: ecco quale avrebbe potuto essere il nome dell’ansia strisciante che gli impediva la concentrazione.
Non ricordava un’epoca come quella. Sospesa tra la condizione reale e quella che si desiderava o si millantava così tanto, e così bene, da crederla vera. Bruno Modo gli ripeteva che era una truffa propinata dal governo alla povera gente, e si domandava beffardo se la grandezza imperiale fosse o no un buon companatico e se saziasse i bambini affamati che ogni giorno gli arrivavano in ospedale.
Ma Ricciardi doveva ammettere di non possedere una sensibilità politica tale da farsi carico dei proclami che la radio declamava stentorea, e faticava a dare la colpa della povertà endemica di quella città – condizione che non aveva mai visto attenuarsi – al governante di turno. Era un altro, il nome della sua inquietudine.
Il viso illuminato dai lampioni e dai fari delle automobili provenienti dalla strada del porto, pensò al mutamento.
Per uno come lui, un abitudinario che traeva conforto dalla reiterazione tipica della quotidianità, quello era un tempo abbastanza instabile. Senza voltarsi a guardarli, considerò gli scatoloni di libri, faldoni e codici che affollavano la stanza. Il nuovo edificio della questura era quasi completato, e presto avrebbero dovuto trasferirsi.
Non condivideva l’entusiasmo dei colleghi e del personale, che non stavano nella pelle all’idea di spostarsi di sede; era diventato un rito passare per il cantiere e commentare le linee austere e ambiziose, le finestre quadrate, i marmi bianchi e grigi, le decine di operai agli ordini di capimastri dal piglio di colonnelli in trincea.
Ricciardi invece non vedeva di buon occhio quel cambiamento, anche se lo teneva per sé. Era affezionato al proprio ufficio, che occupava da dieci anni; ed era convinto che quel luogo consentisse un presidio maggiore, collocato com’era a ridosso dei quartieri più popolari: un punto d’osservazione ideale sull’umore e sui rapporti sociali di un posto dove la fame violenta spingeva ad agire in maniera più tragica che altrove. Aveva difficoltà a immaginare sé stesso percorrere una strada diversa per andare al lavoro la mattina e tornare a casa la sera.
E gli sarebbero mancati la bella, grande piazza che digradava verso il mare, il porto dal quale vedeva entrare e uscire navi cariche di merci e viaggiatori, brulicanti di vita e di speranze. Dall’altro edificio, ammesso e non concesso che gli sarebbe toccato uno spazio con affaccio sull’esterno, non avrebbe visto che una larga via di passaggio.
No, pensò guardando la sagoma indistinta di un furgone affrontare una curva a bassa velocità: non era il cambiamento a inquietarlo. Anche perché, rifletté mentre il furgone attraversava l’immagine traslucida di una donna investita e uccisa una settimana prima, certe cose purtroppo non cambiavano mai.
Gli affetti, forse.
In fondo, cosa può angosciare un uomo più del destino di chi, a vario titolo, ama?
Come un bel fiore, la mente gli porse l’immagine della sua Marta.
La bambina aveva ormai cinque anni e sembrava una vecchietta saggia. Si prendeva comicamente cura del proprio papà, aspettandolo la sera per detergergli con il fazzoletto un immaginario sudore, perché l’istitutrice le aveva letto un racconto in cui la figlia di un contadino faceva così. Poi, seduta sulle sue ginocchia, confidava a Ricciardi tutto quello che aveva fatto nella giornata trascorsa da Bianca, la contessa di Roccaspina che si prendeva cura della sua educazione; e lui ascoltava attento, interloquendo anche quando la bambina gli riferiva di ciò che le diceva Federico, un coetaneo figlio della maestra. Un po’ lo preoccupava l’immaginazione di Marta, perché gli riportava discorsi articolati che il bambino non poteva fare, essendo sordomuto; ma era intenerito dalla gentilezza della figlia, che non considerava affatto una minorazione quella dell’amico e riempiva i vuoti della vita con la bellezza del cuore.
Marta stava bene. Era circondata di cure, anche se non aveva più la madre. Ricciardi pensò a Nelide, gendarme arcigna e determinata, dedita a ogni bisogno della bambina; a Bianca, sensibile e intelligente, la quale aveva per Marta un trasporto che non sarebbe stato maggiore se le fosse stata figlia; e alla famiglia Colombo, che, straziata, riversava sulla piccola l’adorazione un tempo riservata a Enrica.
Maria, la nonna, non faceva che piangere appena il discorso sfiorava quel nome; ma era vulcanica ed espansiva, riempiva la nipote di baci umidi e di abbracci stritolanti, tanto che – per il divertimento di tutti – Marta lanciava dall’interno di quelle strette comici sguardi di richiesta d’aiuto. Giulio, il nonno, la trattava invece come un’adulta e parlottava con lei per ore. Secondo Ricciardi, i due si somigliavano come al padre aveva somigliato Enrica, e si capivano come nessun altro. La cosa non solo non lo ingelosiva, ma gli faceva un’indicibile tenerezza; ed era contento soprattutto per lui, per Giulio, che altrimenti, sospettava, si sarebbe lasciato andare, adesso che nemmeno poteva stare in negozio a causa delle leggi sulla razza.
Gli affetti, e quindi gli amici. Il brigadiere Maione con la sua caterva di figli, nello sguardo l’ombra del dolore per quello di loro che aveva perduto; e il dottor Modo, che sibilava il proprio malessere verso il fascismo e il governo ma che era diventato più prudente, terrorizzato com’era dagli arresti e dal confino. Certo, era assai poco di compagnia, più sarcastico che ironico, però almeno la paura lo teneva fuori dei guai; non fosse stato per la fissazione di essere sorvegliato da chiunque, specie dall’ingenuo collega romagnolo, Severi, ci sarebbe stato quasi da esserne felici.
No. Non erano affetti e amici a generare il senso di sospensione che opprimeva il cuore di Ricciardi e impediva al commissario di concentrarsi.
Dalla strada salì la musica di un pianino e una bella voce tenorile pregò Mariú di parlargli d’amore. Qualcuno applaudiva, e il commissario si chiese da dove scaturisse, in mezzo al vento gelido, la voglia di sentir cantare in piazza.
La solitudine, disse fra sé.
La parola gli esplose nel cervello come un fuoco d’artificio. Strano, perché nessuno dei suoi processi mentali era parso rimandare a quel concetto.
Eppure pensò alla solitudine. Lui, che era sempre stato un solitario. Lui, che nell’isolamento si era rinchiuso prima di incontrare la donna che sarebbe divenuta sua moglie, prima di diventare padre, prima di diventare l’uomo che era adesso, mentre guardava affacciarsi il Natale che sarebbe arrivato di lì a una settimana ma che già creava attesa e illusioni tra le anime che vagavano in piazza.
Perché, se era vero che conosceva bene la solitudine per averla abitata a lungo, era altrettanto vero che aveva sperimentato la fusione assoluta di due anime in una.
 
[da Soledad di Maurizio De Giovanni, Einaudi, 2023]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista e scrittore. Luigi Oliveto ha pubblicato i saggi: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Il paesaggio senese nelle pagine della letteratura (2002), Siena d'Autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004). Suoi scritti sono compresi nei volumi collettanei: Musica senza schemi per una società nuova (1977), La poesia italiana negli anni Settanta (1980), Discorsi per il Tricolore (1999). Arricchiti con propri contributi critici, ha curato i libri: InCanti di Siena (1988), Di Siena, del Palio e d’altre storie. Biografia e bibliografia degli scritti di Arrigo Pecchioli (1988), Dina Ferri. Quaderno del nulla (1999), la silloge poetica di Arrigo Pecchioli L’amata mia di pietra (2002), Di Siena la canzone. Canti della tradizione popolare senese (2004). Insieme a Carlo Fini, è curatore del libro di Arrigo...

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