Storia tribolata di un pianoforte con la cassa in acciaio

Mauro Taddei

08/01/2021

Nato nel secondo quindicennio dell’Ottocento, in Germania, da una antica e famosa fabbrica di pianoforti, la Carol Otto di Berlino, vantava, oltre al lucido mobile di mogano nero rifinito elegantemente con lampade in ottone laterali e leggio retraibile all’interno del mobile, l’essere dotato, antesignano tra i verticali, della cassa armonica in acciaio e delle corde incrociate. Fin ad allora, infatti, i pianoforti avevano la cassa armonica in legno e le corde verticali, molto più corte. Il che voleva dire, spesso, dover ricorrere all’accordatura delle corde. Ma soprattutto significava che la loro minore estensione sviluppasse un suono più ovattato e dunque meno vibrante. Così strutturato, pur mantenendo la caratteristica di pianoforte da studio, permetteva una espansione sonora degna del più blasonato pianoforte a coda, quello da concerto. Fino a produrre una voce quasi da mezza coda, insomma.

Venne ospitato in un piccolo paese della campagna toscana, in una bella casa a tre piani; collocato al piano nobile nella stanza di mezzo, tutta decorata a mano e ammobiliata, per ricevere la famiglia e gli eventuali ospiti. In verità, in famiglia non c’era nessuno che lo sapesse suonare, ma averlo tra i pezzi dell’arredo dava comunque tono e lustro al proprietario che, per certe occasioni, era uso tenere piccoli concerti chiamando un vero pianista a suonarlo. Nella casa, del resto, c’era già un vecchio pianoforte, ancorché con la cassa armonica di legno. All’arrivo di quello più moderno, venne spostato e posizionato al piano superiore, il piano della servitù, proprio sopra la stanza dove faceva bella figura di sé il nuovo arrivato. E, specie nei primi tempi, furono molti quelli che vennero per curiosità a vedere la novità del nuovo strumento e tutti ne apprezzarono più che la qualità, la sua raffinata eleganza. Anzi, qualcuno ci fece anche un pensierino, ma il prezzo era troppo elevato per poterselo permettere. Quasi tutti si dimenticarono l’esistenza del vecchio piano con la cassa di legno.

Poi, con il passare del tempo, anche il nuovo pianoforte con la cassa in acciaio fece la stessa fine del vecchio e rimase un semplice mobile d’arredo, nella stanza di mezzo, al piano nobile. La sua voce rimase muta. Del resto, il proprietario non era sposato né aveva figli. Solo saltuariamente e per le ricorrenze più importanti, venivano a fargli visita i nipoti insieme ai genitori che, di nascosto alla zia che gelosamente ne curava la manutenzione, si limitavano a strimpellarlo dispettosamente in fretta e furia. Passarono così gli anni e il pianoforte sempre muto, lucidato e quotidianamente spolverato al pari di un bel mobile d’appartamento. Una volta all’anno, comunque, veniva chiamato un accordatore; lo stesso che, a suo tempo, aveva consigliato l’acquisto al proprietario che dentro di sé si rammaricava del cattivo uso che ne veniva fatto. “Un pianoforte così ha necessità di essere suonato spesso e bene”, ripeteva ogni volta al proprietario. Questi sorvolava sull’uso ma, puntualmente, ogni anno provvedeva a garantirne l’accordatura. Passarono così altri anni nel più tranquillo tran tran, anche se non mancarono, nel periodo del Ventennio, i visitatori di un certo rango che ebbero modo di notare il muto pianoforte e qualcuno ebbe anche modo di apprezzarne la qualità.

Fu un giovane ufficiale della Wehrmacht, forse austriaco, che di stanza nel piccolo paese prese a frequentare saltuariamente la casa e chiese di suonarlo, quando era libero dal servizio. Il proprietario, uomo di certa cultura e che amava circondarsi di persone che gli facessero compagnia intrattenendolo in dibattiti a carattere politico-filosofico, acconsentì. Migliore occasione non poteva esserci. Nelle ore libere, il giovane ufficiale si spogliava della rigida uniforme e assumeva quella, più confacente, del pianista. Era una soddisfazione per il pianoforte con la cassa in acciaio svolgere finalmente lo scopo per cui era stato creato e far uscire la sua voce. Ma la parentesi fu breve. Un bel giorno il giovane ufficiale non venne più a fare visita al proprietario e al suo pianoforte, chiamato chissà dove a indossare la divisa. Era giunto il momento in cui gli uomini, per risolvere le loro eterne divergenze, decisero di semplificare gli equivoci appellandosi al tuono delle armi.

E tuono rimbombante fu anche per i due pianoforti: il vecchio con la cassa armonica di legno, il babbo dei pianoforti, e il più moderno pianoforte a corde incrociate, di origine tedesca. Una triste mattina di fine giugno, subito dopo l’alba, una squadriglia di bombardieri decise che anche lì sotto si dovevano decidere le sorti del mondo. E sganciarono le loro bombe. Tra il frastuono assordante, il fumo acre, i nugoli di polvere che si alzarono nel cielo al pari delle grida degli sventurati incolpevoli, tra i morti e i feriti, anche la sorte dei due pianoforti sembrò segnata per sempre. Infatti, una bomba aveva fatto crollare parzialmente la bella casa a tre piani: il tetto finì sul pavimento del piano della servitù e insieme su quello nobile e tutti precipitarono al piano terra, sommersi da una montagna di macerie. Tra loro anche i due pianoforti. E quello fu, forse, l’unico momento in cui note sgangherate di musica uscirono in contemporanea dai due pianoforti. Ma nessuno poté udirli in quel rumore di guerra e morte e devastazione.
Il vecchio pianoforte, il babbo dei pianoforti, andò in briciole non prima di avere emesso nell’aria dei flebili lamenti di morte; il secondo con la cassa in acciaio, invece, rimase quasi illeso dalla caduta, attutita forse dal vecchio pianoforte; riportò solo alcune ferite al mobile, aveva perduto i due candelabri posti ai lati e riportato lievi cicatrici al mobile esterno. La cassa armonica, in acciaio, era però rimasta intatta, anche se piena di polvere e calcinacci. L’accordatura, invece, se ne era andata, forse per sempre. Passata la bufera e il fronte, ora il pianoforte sopravviveva, triste, solitario e dimenticato, al piano terra in una stanza in fondo al corridoio vicino alla cantina. Poi, un giorno, venne notato dal babbo di un bambino che da poco aveva iniziato a prendere lezioni di pianoforte. Gli esercizi erano difficili e noiosi, ma soprattutto il non avere un pianoforte a completa disposizione rendeva ancora più difficile la già non facile impresa. Fu così che il genitore, con i buoni uffici di un comune amico e conoscente, si presentò dal vecchio proprietario chiedendo di entrare in possesso del pianoforte. Dopo lunga ed estenuante trattativa, alla fine il vecchio proprietario si convinse a cedere lo strumento che ormai non gli stava più nemmeno a cuore, dietro sostanzioso compenso.

Venne così rintracciato il vecchio accordatore che, da vero intenditore, convenne che, vista la qualità e nonostante le condizioni, l’acquisto valesse la pena e, anzi, si prese l’impegno di riportare il pianoforte agli originari suoni. Del mobile avrebbe potuto interessarsi un bravo artigiano falegname. Importante, a suo dire, era la cassa armonica in acciaio che sembrava non avere subìto alcun danno, nonostante fosse precipitata da un certa altezza. Si trattava per lo più di ripulirlo dalla polvere che si era insinuata dappertutto, controllare i martelletti, sostituire alcune corde, alcuni tasti. Dei portalampada originari, che abbellivano il mobile, ormai irrecuperabili, si poteva fare a meno. Importante era che avesse mantenuto la sua musicalità. La sua voce. E così fu. Al termine del restauro, si procedé a portarlo nella nuova residenza. Il pianoforte con la cassa in acciaio era molto pesante e ci vollero gli sforzi di un gruppo di appassionati volontari per riuscire a trasportarlo per le scale piuttosto ripide e strette fino al terzo piano. Il bravo accordatore, come promesso, puntualmente e con amorevole dedizione fece quanto dovuto. E fu così che, alla fine, si sparsero nell’aria i suoni armoniosi della voce del pianoforte, riportato a nuova vita. La vibrazione delle note e degli accordi si propagarono per la casa e anche fuori sulla strada. Tutti avvertirono una sorta di respiro, come di creatura riportata alla vita.

Per qualche anno, il pianoforte dovette accontentarsi della ripetizione degli esercizi ai quali doveva sottoporsi. Quel bambino e il pianoforte crebbero insieme; con il passare degli anni si passò agli esercizi più difficili e impegnativi e sembrava quasi che la voce stessa del pianoforte sviluppasse di pari passo con il progredire del suo giovane pianista. Poi, un giorno, al bambino ormai adolescente, venne chiesto di fare parte della piccola orchestra paesana, messa in piedi da alcuni membri della banda musicale, per allietare le serate da ballo. A quel tempo c’era gran voglia di vivere e divertirsi. Da poco usciti da una guerra tragica e distruttiva, c’era bisogno di rimboccarsi le maniche, come si dice, per ricostruire non solo quanto materialmente distrutto, ma soprattutto la coscienza degli Uomini che avevano vissuto tale cataclisma. Cominciarono così a vivere intense serate da ballo, durante i lunghi periodi invernali, i rituali carnevali, fino a diventare il passatempo più richiesto e seguito. Nei giorni festivi, si protraevano dalla prima serata fino a notte inoltrata; spesso, in giornate particolari, anche dai pomeriggi fino all’alba del giorno successivo. Fu un vero e proprio battesimo della musica, anche se leggera, da ballo, per il giovane musicista e per il suo pianoforte perché, non essendocene altri a disposizione nel paese, seguiva sempre il suo suonatore. Con tutte le acrobazie del caso, di scendere e risalire per quelle scale della casa. Ma tant’è!

Il giovane pianista si appassionò talmente a quel genere di musica da tralasciare lo studio vero e proprio per sostenere gli esami di pianoforte classico. Spesso, durante le lunghe serate, le corde non reggevano allo sforzo e improvvisamente si tendevano più del solito fino a strapparsi e avvolgersi le une sulle altre, non prima di aver emesso uno stridulo sibilo. Così, tra un intervallo e l’altro, venivano sostituite e lestamente si provvedeva al loro accordo. Si era creata una tale simbiosi tra lo strumento e il suo giovane pianista che sembravano ormai inseparabili. Il pianoforte, nato in un’epoca in cui si suonava musica di un certo impegno, da concerto, si era presto adattato a quella più moderna e, del resto, il giovane pianista, aveva ormai abbandonato lo studio e gli esercizi più impegnativi per dedicarsi alla esecuzione di musica così detta leggera, da ballo, piccolo jazz o musica da bar. E anche il pianoforte si era adattato a questo nuovo genere di intrattenimento. Qualche volta capitava anche che un cantante lirico passasse dal paese e venisse chiesto al giovane pianista di accompagnarlo nelle sue esibizioni; altre volte si trattava di andare a qualche festa di amici, nei locali all’aperto dei piccoli bar o nelle salette di alberghi dove, gruppi di persone, si incontravano e al termine di un pranzo o di una cena si intrattenevano volentieri a ballare. Il giovane si era così evoluto e adattato alle mode e ai costumi del tempo. A suo modo era diventato un discreto pianista, da ritrovo, da piccolo bar. Ma anche quel tempo era destinato a finire presto e venne il momento in cui il non più giovane pianista se ne dovette andare dal paese e fu costretto a lasciare il pianoforte a casa dei suoi genitori. Passarono gli anni per entrambi ma, un giorno, il pianista decise che era venuta l’ora di riprendersi il suo pianoforte e portarlo con sé nella nuova casa. Di nuovo si incontrarono, ma non era più come ai vecchi tempi. Erano entrambi più vecchi, soli, nostalgici forse del tempo passato insieme. Ma questa è tutta un’altra storia. Il pianoforte, intanto, è ancora a fare bella mostra di sé e di quando in quando, il non più giovane pianista passa ad accarezzarlo e battere sui suoi tasti fino a far vibrare, come un tempo, quella cassa armonica in acciaio fino a far librare nell’aria la sua voce.
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