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Al confine tra un racconto e una ricerca storiografica che prende spunto anche da fonti orali e dalle pagine di un diario per diventare un libro per tutti capace, inoltre, di dare il là a spunti di riflessione su quello che è stato, è e sarà la società in cui viviamo. Partendo dall’esperienza valdelsana allargandosi in Toscana e sfociare oltre i confini regionali, nazionali fino al limbo e al significato dei sogni. “L’Utopia della Base” (Edizioni Punto Rosso) è il libro scritto da Francesco Corsi insieme a Pietro Poli e Stefano Santini. Il volume tratta in maniera le vicende di un Collettivo operaio in Valdelsa e in Toscana tra gli anni '60 e '70 andando ad analizzare il movimento della contestazione prima e dopo la sua nascita, la sua evoluzione e la sua decaduta.
Diversi approcci al tema del ’68 per un unico libro. Come è nata l’idea?
“Il primo approccio che abbiamo voluto seguire è stato quello storiografico per fare un libro il più distaccato possibile e che potesse raccontare in maniera non faziosa una serie di avvenimenti sui quali, per svariati motivi, era calato un cono d’ombra. L’approccio storiografico è stato poi in qualche modo aiutato e, allo stesso tempo ha dovuto mediare, con una serie di fonti “differenti” come il diario di Silvano Tanzini che dà un’interpretazione ragionata di quei fatti. Ci sono poi le fonti orali che ci hanno fatto comprendere nuovi risvolti del materiale narrato. Abbiamo plasmato tutto questo per un libro di storia ma con un indice di leggibilità che va oltre”.
Quali sono i motivi della insufficienza di fonti prettamente storiografiche su quegli anni?
“Prima di tutto perché si è parlato e si parla molto di quegli anni e di quel movimento in ambito metropolitano (Milano, Roma, Torino e Bologna) giungendo ad una semplificazione che ha messo da parte la complessità dei diversi scenari più o meno locali. Altra ragione è la dispersione delle fonti stesse attualmente reperibili in decine di fondi privati che hanno fatto un lavoro di raccolta encomiabile ma quasi del tutto invisibile. C’è un’immensa messe di risorse che andrebbe valorizzata”
Qual è stata la scoperta più bella nel tuo e nel vostro lavoro d’indagine per arrivare alla stesura del libro?
“Nell’immediato quella di toccare con mano materiale prezioso che narra da solo quegli anni che si tende forse oggi a dimenticare ma che invece hanno avuto un impatto deflagrante sul territorio. Penso ad esempio alle occupazioni delle vetrerie o alle manifestazioni che hanno rivelato alti scontri in termini di polarizzazione politica anche in una piccola realtà come quella valdelsana. Al termine del libro è stato poi bello scoprire che non avevamo fatto un quadro e una ricostruzione asettica della società di allora”.
Mitizzazione o condanna. L’opinione pubblica però si divide in maniera netta sul '68…
“La maggior parte del dibattito è viziato dal fatto che ne discutono prevalentemente coloro che ne hanno fatto parte attiva in termini di militanza politica. Più in generale credo che degli anni della contestazione si potrebbe parlarne di più e soprattutto parlarne meglio perché hanno rappresentato uno dei momenti principali di maggiore partecipazione all’attività e alla discussione politica della storia italiana. Questo fu dovuto ad una commistione di ragioni storiche, sociali ed economiche legate ad un fermento culturale di ampi orizzonti. Gli anni della contestazione andrebbero analizzati in un contesto anche temporale ben più ampio per le cause e le conseguenze che hanno apportato. Quel che è certo è che il ’68 rimane una parentesi unica nella storia italiana e bisognerebbe uscire dalla discussione sterile sulle istanze giuste o sbagliate di quel movimento concentrandosi un po’ di più su quello che ha generato. Penso ad esempio alla profonda trasformazione dei costumi e dei diritti civili ma anche alla conflittualità sociale. Se ne perderebbe in sintesi e se ne acquisirebbe in complessità e, secondo me, sarebbe tutto di guadagnato”.
E’ ammissibile poter pensare che alcune accezioni di quel movimento fanno o faranno parte tra poco di quelle proteste di piazza attualmente in atto?
“Oggi stiamo uscendo dalle macerie di qualsiasi tipo di ideologia passata ma non è una “blasfemia” pensare una cosa del genere. La mancanza di una prospettiva di partito, l’incapacità di rappresentanza e l’impoverimento dei valori ai quali siamo di fronte e tipici del movimento di protesta attuale hanno più di qualche punto di contatto soprattutto con il fermento culturale di allora. La differenza è casomai che in quegli anni si contestavano dei partiti strutturati mentre oggi è percepita un’omologazione totale in ambito politico senza che qualcuno proponga un progetto alto di massa per quanto contestabile. Da qui anche le difficoltà dei movimenti di oggi di poter rappresentare un’alternativa chiara da contrapporre a un qualcosa che, per certi versi, non esiste”.
Quella conflittualità politica è sfociata poi negli anni di piombo. Cosa dobbiamo aspettarci?
“Il parallelo tra l’oggi e gli anni ’60 è suggestivo ma direi però che, a livello interpretativo, lo stato di disagio attuale è più simile a quello di inizio del secolo scorso. Non dimentichiamoci che la contestazione degli anni ’60 nasceva in condizioni economiche favorevoli mentre oggi siamo completamente all’opposto senza pensare che la classe operaia ha perso la centralità che aveva prima a favore di tantissime figure che sfuggono alla classificazione canonica del lavoro, su tutte il mondo del precariato e quello delle partite iva. Quello che mi potrei aspettare, nel rischio di essere contestato e confutato nel caso non avvenga, è che tutta questa grande massa di gente che vive questo disagio potrebbe riavvicinarsi alla militanza politica. Quando fai i conti con la tua condizione sociale puoi avere una risposta emotivamente irrazionale oppure smettere di pensare a livello individuale a favore di una dimensione collettiva”.
Cosa dobbiamo imparare allora dal ’68?
“L’utopia ha una doppia valenza: immaginarsi un qualcosa di impossibile ma anche darsi una prospettiva di larghissimo respiro che preclude obiettivi di miglioramento ed evoluzione. Se quest’ultima interpretazione si lega ad una grande partecipazione e ad un impegno diffuso, allora le probabilità di miglioramento crescono a dismisura”.
Cristian Lamorte
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